IL MARXISMO E L'ERA MULTIPOLARE - TERZA PARTE
Come ogni Venerdì, ecco il terzo dei 9 appuntamenti dove vi proporremo un importante lavoro di analisi e approfondimento di Leonardo Sinigaglia dal titolo "Marxismo e Multipolarismo".
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di Leonardo Sinigaglia
3-La questione nazionale, prima parte
“Gli operai non hanno patria”: queste parole del Manifesto del Partito Comunista scritte da Marx ed Engels spesso vengono citate con superficialità per dimostrare un preteso carattere “antipatriottico” del pensiero marxista e la sua incompatibilità con qualsiasi forma di orgoglio nazionale. Tali ricostruzioni non solo sono superficiali, ma dimostrano una profonda ignoranza dell’attività rivoluzionaria dei due fondatori del socialismo scientifico. Contestualizzare le parole del Manifesto nell’insieme del testo da cui sono tratte ne permette un’interpretazione scevra da deformazioni.
“Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch'essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia”: gli operai “non hanno patria” in quanto ogni paese era all’epoca controllato politicamente dalle classi possidenti, le quali privano il proletariato di ogni “cittadinanza”, impedendogli di godere pienamente dei frutti del proprio lavoro e della totalità delle attività sociali. Il proletariato “non ha patria” nella stessa misura in cui potevano non averla i perieci e gli iloti sotto il dominio spartano: non si tratta di negarne la Storia, la cultura, il carattere nazionale, ma di sottolinearne l’estraneità alla gestione del potere.
“Non hanno patria” indica l’assenza di potere politico, non di nazionalità, come emerge chiaramente dalle frasi successive, con l’invito al proletariato a “elevarsi a classe nazionale” conquistando quel potere, uscendo da quello stato d’asservimento e alienazione in cui l’ordine borghese lo condannava. Il proletariato lottando per la conquista del potere scopre il proprio carattere nazionale, che ha un “senso diverso da quello borghese”, in quanto superamento dialettico di questo.
Sublazione del nazionalismo borghese, l’internazionalismo proletario non implica un’impossibile e imbelle rinuncia alle caratterizzazioni nazionali, ma le porta in nuovo contesto, dandogli un nuovo valore. E’ infatti una tendenza già espressa dal capitalismo quella dell’accorciamento delle distanze tra i vari popoli, una tendenza che, continua il Manifesto, sarà sempre più acuta sotto al socialismo, poiché “[l]o sfruttamento di una nazione da parte di un'altra viene abolito nella stessa misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro. Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità fra le nazioni”[1].
Lo strettissimo legame tra questione nazionale e questione sociale emerge già da queste righe dei fondatori del socialismo scientifico,che permettono di elaborare un indispensabile metro di giudizio: privato della dimensione dell’emancipazione sociale, qualsiasi programma nazionale non può che restare parziale, un artifizio retorico del quale si può servire la borghesia; similmente, priva della sua dimensione nazionale, qualsiasi prospettiva di rinnovamente sociale non può che restare al livello di astratto chiacchiericcio, impossibile da trasformare in realtà concreta e anzi utilizzabile come copertura per condotte reazionarie. La liberazione delle nazioni oppresse viene posta come uno degli indirizzi fondamentali del moto di rinnovamento sociale che compone la missione storica del proletariato. Le stesse lotte d’emancipazione nazionale non devono essere concepite come un qualcosa di estraneo, o solo parzialmente connesso, alle lotte di classe, ma sono in realtà una forma di manifestazione di queste[2].
Ciò dipende proprio dallo sviluppo del capitalismo, le cui forze sono costrette non solo al sempre più metodico e razionale sfruttamento della forza lavoro nazionale, ma anche all’imposizione del proprio dominio ai danni di popoli vicini e lontani. Con le stesse parole di Marx, andando a generalizzare i ragionamenti formulati per la realtà americana verso tutti i territori occupati dalle potenze colonialiste, potremmo dire che “i popoli moderni non hanno saputo fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e l’hanno imposta senza maschera nel Nuovo mondo”[3].
Le lotte di classe all’interno di un paese possono essere viste come lotte tra due visioni opposte di questo, tra due opposti patriottismi. Uno è quello delle classi dominanti, che è rappresenta prima di tutto il proprio diritto indisturbato a sfruttare la nazione e gli eventuali possessi coloniali, l’altro è quello del proletariato che “non è semplicemente amore per la terra natia, per le sue bellezze e ricchezze naturali; il patriottismo dei lavoratori include l’idea e l’aspirazione che le bellezze e le ricchezze naturali cessino di essere una fonte di arricchimento e di piacere per un pugno di capitalisti e di grandi proprietari terrieri, e diventino una fonte materiale di benessere e progresso per tutti i lavoratori del paese”[4].
Questa visione sarà ulteriormente elaborata da Lenin, il quale parlerà dell’esistenza di “due nazioni” all’interno di ogni nazione moderna, che, rapportate al contesto grande-russo, egli riassume come “la nazione degli Purishkeviches, dei Guchkovs e degli Struves” e quella “dei Chernyshevsky e dei Plekhanov”[5], ossia da una parte la visione di una Grande Russia e di una cultura grande-russa fondata sugli interessi delle classi dominanti, l’altra su quelli del popolo lavoratore, sulla sua storia di lotte e dell’eredità di sviluppo progressivo che è chiamato a raccogliere e a portare avanti. E’ il sapere distinguere tra queste due “nazioni” e agire in maniera coordinata e unitaria con le classi lavoratrici degli altri paesi a distinguere il nazionalista borghese dall’internazionalista proletario, non già il rinnegare l’eredità storica nazionale.
Marx ed Engels dedicarono ampie attenzioni alla questione nazionale, sostenendo le lotte delle nazioni polacca e irlandese, la guerra dell’Unione contro il Sud schiavista negli Stati Uniti, oltre i processi di unificazione nazionale in Germania e Italia. La loro visione materialista dialettica li portava a ciò non in virtù di qualche principio astratto dogmaticamente applicato, ma dalla concreta analisi dello sviluppo storico, del ruolo della borghesia emergente nella creazione dei moderni Stati nazionali, della loro necessità per lo sviluppo capitalistico e quindi anche del proletariato, e del ruolo di quest’ultimo nella lotta per la piena realizzazione del programma democratico, tappa essenziale per uno sviluppo in senso socialista La conquista dell’indipendenza nazionale è requisito essenziale proprio per lo sviluppo concreto dell’internazionalismo, come riconosciuto da Engels nella prefazione del 1893 all’edizione italiana del Manifesto del Partito Comunista, in cui scrisse: “Senza l’autonomia e l’unità restituite a ciascuna nazione europea, né l’unione internazionale del proletariato, né la tranquilla e intelligente cooperazione di queste nazioni verso fini comuni potrebbero compiersi”.
La questione nazionale è però da comprendersi come influenzata e dipendente dalla contraddizione fondamentale del capitalismo, non come un qualcosa di indipendente. In questo senso essa viene posta da Marx ed Engels dal punto di vista generale della democrazia europea e dell’internazionalismo proletario[6].
L’emancipazione di ogni popolo sarebbe stata impossibile fino a che fossero esistite relazioni diseguali fra questi[7], e quindi lo sviluppo e il successo del movimento proletario ne sarebbero stati inficiati. La creazione degli Stati nazionali è un passaggio fondamentale dello sviluppo della classe borghese, la quale presto però lavora per superare le barriere appena create. La tendenza “cosmopolitica” della borghesia prepara il terreno all’internazionalismo, creandone le condizioni di sviluppo, oltre dare vita, con l’aggressione coloniale e per mezzo dello sfruttamento imperialista, ai movimenti di liberazione nazionale. Dal punto di vista dei lavoratori le rivendicazioni nazionali sono parte delle rivendicazioni democratiche generali, che devono essere interpretate sotto la chiave di lettura dell’emancipazione storica della classe operaia[8], e quindi dell’umanità: “Il proletariato non può emancipare solo se stesso; esso deve lottare per l’emancipazione di tutti i lavoratori, per l’emancipazione della nazione e dell’Umanità: solo così esso può emancipare se stesso completamente e definitivamente”[9].
La nazionalità non può essere negata: in quanto sintesi di un percorso storico, una sua negazione non sarebbe unicamente la negazione del passato anche delle classi lavoratrici, ma soprattutto del loro futuro, della loro possibilità di essere altro rispetto alla massa amorfa da gestire a colpi di bastone e di carota a cui lo vorrebbe limitare la classe borghese.
Il marxismo insegna che non esiste un “patriottismo” astratto, ma un patriottismo concretamente definito dal suo contenuto di classe, a seconda del quale può essere legato agli interessi delle classi dominanti o delle masse lavoratrici, può avere una funzione regressiva o progressiva, può essere una tendenza da combattere o una fondamentale risorsa per la lotta politica e lo sviluppo. Da ciò ne deriva anche che i “doveri patriottici”, primo tra tutti quello della “difesa della patria”, non possono esseri accettati, o respinti, in astratto, ma solo in relazione al loro contenuto concreto, ossia di classe: “Il marxismo deduce il riconoscimento della difesa della patria nelle guerre come, ad esempio, quella della grande rivoluzione francese e di Garibaldi in Europa, e la negazione della difesa della patria nella guerra imperialista del 1914-1916 dall’analisi dei particolari storici concreti di ogni singola guerra e in nessun modo da qualunque principio generale né da un qualunque punto del programma”[10].
Riconoscere la legittimità della parola d’ordine della “difesa della patria” significa riconoscere la legittimità di una guerra, significa giustificarla e prendere parte attiva in essa per la vittoria del proprio paese, inteso come delle istituzioni che in quel momento lo governano. Non si può quindi ammettere da un punto di vista marxista né la negazione della “difesa della patria” in sé e per sé, né tantomeno una sua accettazione decontestualizzata sulla base del principio “right or wrong, my country”. Il supporto a una guerra deve dipendere necessariamente dalla sua connotazione politica: non si può spacciare come dovere patriottico la partecipazione a una guerra imperialista, a priori dai risvolti bellici. Per questo motivo, saltando ai giorni nostri, nessun comunista ucraino dovrebbe sentire come “dovere patriottico” la partecipazione agli sforzi bellici del regime di Kiev, braccio armato della NATO, ma al contrario dovrebbe impegnarsi per sabotare questi sforzi e per favorire la più rapida vittoria dell’esercito russo e delle forze di resistenza ucraine.
Attorno alla questione della “difesa della patria” vi è una perfetta continuità tra Lenin e i fondatori del socialismo scientifico, i quali non esitavano a parlare di “guerra nazionale” e a riconoscerne la legittimità:
“Marx ed Engels affermano nel Manifesto comunista che i lavoratori non hanno patria. Ma lo stesso Marx più di una volta invocò la guerra nazionale: Marx nel 1848, Engels nel 1859 (la fine del suo opuscolo Po’ e Reno, dove il sentimento nazionale dei tedeschi è direttamente in fiamme, dove essi sono direttamente chiamati a combattere una guerra nazionale). Engels nel 1891, di fronte alla guerra allora minacciosa avanzata della Francia (Boulanger) + Alessandro III contro la Germania, riconobbe direttamente la “difesa della patria”. Marx ed Engels erano dei confusi che dicevano una cosa oggi e un’altra domani? No. A mio avviso, l’ammissione della “difesa della patria” in una guerra nazionale risponde pienamente alle esigenze del marxismo. Nel 1891 i socialdemocratici tedeschi avrebbero dovuto realmente difendere la loro patria nella guerra contro Boulanger + Alessandro III. Questa sarebbe stata una varietà peculiare di guerra nazionale”[11].
D'altronde, lo stesso rivoluzionario russo affermerà, in piena Prima Guerra Mondiale, la presenza tra le masse del proletariato politicamente cosciente del suo paese di un forte orgoglio nazionale, di un amore per il proprio paese e per la sua cultura:
“E’ il senso d'orgoglio nazionale alieno per noi, proletari coscienti della Grande Russia? Certamente no! Noi amiamo la nostra lingua e il nostro paese, è noi stiamo facendo del nostro meglio per far innalzare le sue masse che duramente lavorano (ovvero i nove decimi della sua popolazione) ad un livello di coscienza democratica e socialista. A noi è assai più penoso vedere e percepire le violenze, l'oppressione e le umiliazioni che il nostro amato paese soffre per mano dei macellai dello zar, i nobili ed i capitalisti. [...] "Nessuna nazione può essere libera se opprime altre nazioni", dicevano Marx ed Engels, i più grandi rappresentanti della coerente democrazia del diciannovesimo secolo, che divennero i maestri del proletariato rivoluzionario. E, pieni di un senso d'orgoglio nazionale, noi, operai Grande-Russi, vogliamo, qualunque cosa accada, una libera ed indipendente, democratica, repubblicana e orgogliosa Grande-Russia, una che basi i suoi rapporti con i suoi vicini sul principio umano di uguaglianza, e non sul principio feudale del privilegio, così degradante per una grande nazione. Proprio perché noi vogliamo ciò, noi diciamo: è impossibile, nel ventesimo secolo ed in Europa (persino nell'estremo est d'Europa), "difendere la madrepatria" in altro modo che non sia l'utilizzo di ogni mezzo rivoluzionario per combattere la monarchia, i proprietari terrieri ed i capitalisti della propria madrepatria, cioè, i peggiori nemici del proprio paese. Noi diciamo che i Grandi-Russi non possono "difendere la madrepatria" in altro modo che desiderando la sconfitta dello zarismo in qualsiasi guerra, questo essendo il male minore per i nove decimi degli abitanti della Grande-Russia. Perché lo zarismo non solo opprime economicamente e politicamente i nove decimi, ma in più demoralizza, degrada, disonora e prostituisce essi insegnando loro ad opprimere altre nazioni e a coprire questa vergogna con frasi ipocrite e simil-patriottiche”[12].
L’ingresso nella fase imperialista del capitalismo ampliò l’importanza della questione nazionale e coloniale, poiché l’imperialismo, ripartendo i popoli della Terra sotto la dominazione di un pugno di potenze, pose le basi per intensi scontri attorno alla questione dell’indipendenza, dando vita a profonde contraddizioni tra il crescente desiderio per un’esistenza nazionale autonoma dei popoli colonizzati e la necessità delle forze imperialiste di tenerli sotto il proprio gioco.
Gran parte della Seconda Internazionale non si rese però conto dell’importanza delle contraddizioni portate dall’imperialismo, derubricando la questione coloniale e nazionale a un ruolo secondario, quando non sacrificandola direttamente in nome di processi coloniali visti come “civilizzatori”, e quindi “progressivi”, sulla base di interpretazioni parziali e meccanicistiche del pensiero marxista. Partendo dalla realtà per la sua riflessione e scartando ogni facile lettura dogmatica, Vladimir Lenin superò questi errori, collegando la questione della liberazione delle colonie e delle semi-colonie alla più generale questione nazionale, e alla lotta generale contro l’imperialismo. Ciò che aveva costituito il “peccato mortale”[13] della II Internazionale, ossia il social-imperialismo, veniva corretto dai bolscevichi unendo in una sola battaglia i popoli d’Oriente e d’Occidente.
La rivoluzione socialista non veniva più vista unicamente come la contrapposizione meccanica di due classi astrattamente intese, né come qualcosa di limitato ai proletari delle metropoli occidentali, ma come “la lotta di tutte le colonie e di tutti i paesi oppressi dall’imperialismo, di tutti i paesi dipendenti contro l’imperialismo internazionale”, vista come aspetto della della “guerra civile dei lavoratori contro gli imperialisti e gli sfruttatori”[14].
L’Oriente, e tutti i paesi coloniali, prima relegati ai margini della Storia anche da parti consistenti del movimento socialista, veniva finalmente parificato rispetto al progredito Occidente. Affermando l’appartenenza delle lotte anti-coloniali alla lotta contro l’imperialismo, e dunque contro il capitalismo, Lenin conquistava alla causa rivoluzionaria gran parte dell’Umanità.
Se l’imperialismo aveva asservito i popoli della terra a un pugno di grandi magnati della finanza, Lenin, sviluppando un socialismo adatto alla sua epoca, aveva posto le basi teoriche per una comune lotta contro di essi, capace di unire miliardi di esseri umani nel riconoscimento dell’identità dei propri interessi e di una particolare missione storica.
[1] K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Milano, Feltrinelli, 2017, p .31.
[2] D. Losurdo, La lotta di classe: una storia politica e filosofica, Roma, Laterza, 2013, pp. 15-23.
[3] K. Marx, Miseria della filosofia, Carrara, Edizioni Acrobat, 2019, p. 28.
[4] B. Ziherl, Communism and Fatherland, Belgrado, Jugoslovenska Knjiga, 1949, p. 10.
[5] V. Lenin, Critical Remarks on the National Question, in Prosveshcheniye nn. 10,11, 12, ottobre-novembre 1913.
[6] C. S. Caracciolo, introduzione a J. Stalin, Il marxismo e la questione nazionale, Torino, Einaudi, 1974, p. 18.
[7] “Un popolo che ne opprime un altro non può essere libero”, come scritto da F. Engels in un articolo a titolo Un proclama polacco l’11 giugno 1874 sul quotidiano socialdemocratico tedesco Der Volksstaat.
[8] C. S. Caracciolo, introduzione a J. Stalin, Il marxismo e la questione nazionale, Torino, Einaudi, 1974, p. 23.
[9] Liu Shaoqi, Come diventare un buon comunista, Milano, Edizioni Oriente, 1965, p. 47.
[10] V. Lenin, La rivoluzione socialista e il riconoscimento delle nazioni all’autodecisione, in C. Basile, I bolscevichi e la questione nazionale, Genova, Altergraf, 2017, p. 42.
[11] V. Lenin, Lettera a I. Armand, 30 novembre 1916.
[12] V. Lenin, Sull’orgoglio nazionale dei Grandi Russi, Sotsial-Demokrat n. 35, 12 dicembre 1914
[13] I. Stalin, La Rivoluzione d’Ottobre e la questione nazionale, in Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 149.
[14] V. Lenin, Al II Congresso dei Popoli dell’Oriente, in Opere Scelte, Mosca, Progress, 1978, pp. 526-527.