Il mito della crescita infinita del Pil
di Federico Giusti
Da 70 anni impera un mito duro da sfatare ossia quello dalla crescita economica infinita e il parametro guida rappresentato dal prodotto interno lordo (PIL), un indice composito che utilizza la spesa dei consumatori, gli investimenti privati e la spesa pubblica per arrivare a una cifra che rappresenta la produzione economica di un paese[1].
Ma il Pil è forse il corretto indice con cui misurare la ricchezza di una nazione? E la crescita economica è una costante del sistema capitalistico e le fasi recessive sono incidenti di percorso?
L’esperienza del 2023 è significativa: dopo 20 anni di crescita la Germania è entrata in recessione e tutta la Ue ha subito le conseguenze della guerra in Ucraina incontrando crescenti difficoltà che l’hanno spinta alla revisione del PNRR.
Nutriamo dubbi sul fatto che il Pil possa essere assunto come unico parametro con cui misurare lo stato di salute di un paese e secondo questa vulgata, in caso di segno negativo dell’economia, le sorti di una nazione sono compromesse iniziando le speculazioni finanziarie destabilizzanti e mirate a imporre politiche economiche e sociali che poi si realizzano in tagli al welfare, ai salari e in aiuti smisurati a favore delle imprese.
E sul versante della spesa pubblica è bene ricordare che le previsioni per il prossimo biennio parlando del taglio di almeno il 10 % della spesa pubblica per raggiungere gli obiettivi del PNRR, questi tagli potrebbero riguardare alcuni capitoli di spesa come pensioni, istruzione e sanità. Anche in questo caso non si spiega che la crescita della spesa pubblica è determinata dall’aumento del costo del denaro e degli interessi, dall’aumento dei costi energetici e dalla bassa crescita dell’economia italiana.
Nel corso degli anni, indistintamente, governi tecnici, di centro sinistra e di destra hanno operato nell’ottica della crescita del Pil non risparmiando tagli allo stato sociale finendo con l’intraprendere politiche sociali ed economiche indirizzate verso un sostanziale attacco al welfare e al costo del lavoro.
La crescita del Pil cela in realtà, in molti casi, il declino degli standard di vita per le classi lavoratrici con l’attuazione di politiche di austerità salariale.
Sovente la crescita del PIL non determina il miglioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione mentre invece si acuiscono le disuguaglianze economiche e sociali.
Un parametro da prendere in considerazione per misurare il benessere di un paese dovrebbe essere rappresentato dalla distribuzione del reddito e delle ricchezze, dalla misura di welfare, dal potere di acquisto dei salari e delle pensioni, dal livello dei consumi. I tempi di vita sono stati ridotti a beneficio dei tempi di lavoro, una esistenza precaria con riduzione del potere di acquisto e di contrattazione.
Anche quando il PIL è scomposto in una cifra pro capite, non tiene conto dei salari da fame e in prospettiva, “grazie” alle controriforme previdenziali, percepiremo anche un assegno previdenziale da fame, ergo le risorse destinate al welfare, alla sanità e alla istruzione diventano un costo insostenibile e saranno progressivamente ridotte,
Emblematico il caso degli Stati Uniti ove il PIL medio pro capite è superiore a quello della Germania, ma i lavoratori statunitensi hanno una qualità della vita decisamente inferiore, sono precari e in condizione di salute precarie, meno istruiti e con minore tempo libero a disposizione
In alcuni paesi in via di sviluppo l’aumento del Pil non si traduce in sostanziale miglioramento della qualità della vita con una età media ancora assai bassa e un degrado ambientale e sociale preoccupante.
La ricerca del profitto, la crescita economica infinita non sempre si traducono nel miglioramento delle condizioni di vita, in una esistenza migliore, prova ne siano le risorse irrisorie destinate al welfare, alla salute e alla istruzione.
Perseguire l’obiettivo della crescita e del profitto da misurare con Pil non significa allora migliorare le condizioni di vita per gran parte della popolazione senza dimenticare che la crescita di alcuni paesi comporta l’impoverimento di altri. Le politiche di guerra e l’aumento delle spese militari poi mirano direttamente a impedire ogni resistenza dei popoli oppressi.
In alcuni paesi a capitalismo avanzato l’aumento del Pil è avvenuto con lo sfruttamento di parti considerevoli della popolazione acuendo il divario sociale ed economico
E tra i divari ci sono anche quelli di genere a conferma che le donne continuano ad essere le vittime sacrificali di un certo modello di sviluppo.
La crescita economica diventa quindi una sorta di Bibbia dietro alla quale si celano disuguaglianze sociali ed economiche per favorire il benessere di alcuni a discapito di molti, le differenze di classe sono i primi risultati tangibili della spasmodica crescita del Pil nei 40 anni neo liberisti. Se poi guardiamo ai consumi ci si accorge che nei paesi dell'OCSE, il PIL pro-capite è cresciuto del 3% tra il 1961 e il 1985 ma l'aumento della crescita dei consumi pro capite è rallentato dal 3% negli anni '70 all'1% dopo il 2000[2].
Si capisce allora che l’aumento del Pil è avvenuto a mero discapito della ridistribuzione delle ricchezze, sono aumentati i divari economici e sociali a conferma che l’ideologia della crescita infinita del Pil è stata funzionale anche alla affermazione della ideologia capitalistica del libero mercato e con essa le condizioni dei salariati sono state ferocemente compromesse.
[1] La crescita non fa bene: il grande mito del PIL | MR in linea (mronline.org)
[2] La crescita non fa bene: il grande mito del PIL | MR in linea (mronline.org)