Il "Piano cinese": l'unica speranza di pace oggi in Ucraina
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
In una lunga intervista concessa alle Izvestija, il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov si è soffermato particolarmente sul piano di pace proposto dalla Cina per il conflitto in Ucraina, dandone un’altissima valutazione. Nonostante che tale proposta sia stata avanzata oltre un anno fa, a parere di Lavrov è tuttora attuale, proprio perché è inquadrata nel complesso della sicurezza collettiva mondiale, il cui rifiuto da parte occidentale, nel dicembre 2021, aveva condotto alla crisi attuale.
Sul sito REX, il politologo Vladimir Pavlenko afferma che l’attualità della proposta cinese è riconducibile a tre aspetti. Essa apparve nel momento in cui in Occidente, puntando tutto sulla “controffensiva ucraina di primavera”, ci si illudeva su un presunto isolamento internazionale della Russia. Allora, Washington, Londra, Bruxelles, dopo aver fatto saltare i colloqui di Istanbul, puntavano tutt’altro che a una soluzione pacifica. Tutte le sortite su “tregua”, “soluzione coreana”, ecc., afferma Pavlenko, erano venute più tardi, per le disfatte militari di Kiev; mentre il piano di Pechino era stato precedente a quelle e aveva significato l’apertura di una breccia nel muro della propaganda occidentale a senso unico sul conflitto.
Ricoperto di anatemi a Ovest, il piano cinese aveva riscosso una diversa accoglienza nell’Est e nel Sud del mondo: era apparso un punto di vista alternativo a quello euroatlantico. L'inviato cinese Li Hui cominciò a girare per l'Europa per illustrare la proposta ed ebbe larga risonanza l’intervento del Ministro degli esteri Wang Yi alla Conferenza di Monaco. Tra i punti del piano cinese, che ora Pechino intende riproporre, si prevede il rispetto di sovranità, garanzie di indipendenza, integrità territoriale e sicurezza di tutti i paesi; rigetto della mentalità da guerra fredda e dell’espansione dei blocchi militari; cessate il fuoco e avvio dei colloqui di pace; garanzie di sicurezza delle centrali atomiche. Inoltre: riduzione dei rischi strategici, rifiuto dell'uso di armi chimiche, biologiche o nucleari; garanzie per l'esportazione di grano e rinuncia a sanzioni unilaterali; ricostruzione postbellica dell'Ucraina.
Il "Piano di pace della Cina", afferma il politologo ucraino Vladimir Skachkò su Ukraina.ru, è, come la “formula Zelenskij”, non un piano, ma una raccolta di desideri e tesi che riflettono la visione cinese sulla conclusione pacifica del conflitto: non contiene misure e tempi concreti per la realizzazione di quanto proposto. Di più: vari punti ripetono le considerazioni di Zelenskij. E, però, il piano cinese si basa sul diritto internazionale, e non su formule raffazzonate da Washington e Kiev; tiene conto degli interessi della Russia, che non viene accusata di aver “scatenato la guerra”.
Quando venne presentato, nel febbraio 2023, gli atlantisti si videro costretti a parare il colpo, soprattutto nei confronti del Sud globale, ricorrendo prima alla commedia del “formato Copenhagen”, poi a quella di Gedda, con la presenza di Vladimir Zelenskij: l’arrivo però di Li Hui mandò a monte il piano di un fronte anti-russo secondo la cosiddetta “formula Zelenskij”. Fu l’Occidente, e non Mosca, a trovarsi isolato di fronte alla stragrande maggioranza dei paesi del mondo, ricorda Pavlenko. E dopo Gedda vennero Malta e Riyad. Non casualmente, però, proprio negli stessi giorni era arrivato a Mosca il Ministro degli esteri indiano Subramanyam Jaishankar, a riprova delle scelte del Sud del mondo e del presunto “isolamento di Mosca”.
La commedia occidentale era quindi proseguita a Davos, col tentativo di bypassare la Cina. Fu così che, mentre il Ministro degli esteri svizzero, Ignazio Cassis, che presiedeva Davos, aveva chiesto di invitare la Russia, Zelenskij sentenziò che a Mosca si dovessero solamente dettare le volontà di Kiev, riproponendo la “formula Zelenskij” travestita da “piano svizzero” di ultimatum alla Russia. Allora, dato che la Cina aveva disertato Davos, fu Cassis ad andare a Pechino per promuovere la “nuova” formula occidentale. L’unico punto su cui però Pechino concordava, era che si dovesse invitare la Russia, oltre a tenere sul tavolo tutte le proposte e non farne ingoiare una esclusiva agli altri.
Pechino, secondo le migliori tradizioni della sottile diplomazia orientale, dice Lavrov alle Izvestija, ha battuto l'Occidente: Wang Yi di nuovo a Monaco e Li Hui in un nuovo tour europeo, completato a Mosca a capo della missione cinese tra gli osservatori delle elezioni presidenziali russe. Un gesto, sottolinea Pavlenko, eloquente, che ha messo in ridicolo le speculazioni occidentali sulla “non democraticità” del voto. Così che Zelenskij rimane beffato ancora una volta, lamentandosi della scarsa partecipazione alla conferenza svizzera perché, dice, i più avrebbero paura di Mosca.
Non hanno paura, dice Pavlenko: semplicemente hanno capito che la versione occidentale del conflitto, puramente accusatoria nei confronti della Russia, non è più “obbligatoria” per tutti, ma è l’opinione del solo Occidente, e che a essa ci sono delle alternative e ognuno è libero di sceglierle e anche di proporne altre, perché non c’è il monopolio della “verità” occidentale.
C’è anche un’alternativa organizzativa: prima ancora che Li Hui facesse il suo tour europeo, il rappresentante permanente della Cina all'ONU Zhang Jun, proponendo che l'Occidente “lasciasse l'Ucraina” e non interferisse con il processo di pace, aveva annunciato la disponibilità di Pechino a creare tutte le condizioni per negoziati tra Mosca e Kiev. Quale era stata la risposta occidentale? Quella del consueto linguaggio dei golpisti di Kiev: le insolenze di Danilov (ormai ex) verso Li Hui e le ingiurie di Zelenskij all’indirizzo di Putin.
Ora però, afferma Vladimir Skachkò, si potrebbe addirittura scorgere una mezza “collusione” Mosca-Pechino-Washington sul destino del conflitto. In ogni caso, Russia e Cina sarebbero pronte a proporre agli USA una strada di regolazione, nel caso la Casa Bianca intenda ridurre alla ragione il suo “cane a catena” neonazista, che sfugge spesso al controllo.
Nello specifico, Skachkò ha in mente l’ennesimo “summit della pace” di Zelenskij in Svizzera, coi famigerati 10 punti da lui proposti già nell’autunno 2022 e respinti da Mosca e Pechino, ma sostenuti dall’Occidente, perché sottintendevano la sconfitta della Russia. L’idea di Zelenskij di una nuova “Davos” ha fatto ovviamente da paravento all’ennesima richiesta di artiglierie, munizionamento e, soprattutto, soldi; il tutto condito con la minaccia che, sconfitta l’Ucraina, Putin si darebbe a realizzare la «sua idea nazionale: il risorgere dell’URSS, e anche di più: l’impero russo».
Zelenskij si è dunque lamentato che non tutti i partner occidentali «hanno intenzione di partecipare al summit in Svizzera, perché intrattengono normali rapporti con la Russia»: cosa in larga parte vera, dato che, a questo punto, molti vedrebbero di buon occhio colloqui di pace o, quantomeno, un cessate il fuoco. Al summit svizzero, però, scrive Skachkò, sarebbe disposta a partecipare la Cina, non per aderire alla “formula Zelenskij”, bensì per riproporre il proprio piano di pace.
Li Hui ha anche reso noti i due punti-requisiti di Mosca per l'inizio dei negoziati, con cui è d'accordo Pechino: cessazione delle forniture di armi occidentali all'Ucraina e denuncia del decreto di Zelenskij sul divieto dei negoziati con Putin. Combinati con gli altri punti del piano cinese, ciò per Kiev significherebbe la fine della guerra e la fine del regime neonazista di Zelenskij: semplicemente, egli diverrebbe inutile e, nel migliore dei casi, verrebbe messo alla porta.
Ora la Svizzera, afferma Sergej Lavrov, tenta di attirare il maggior numero di partecipanti al “summit di pace”, proponendo di esaminare i punti “più innocenti e comprensibili” della formula Zelenskij, come la sicurezza alimentare ed energetica: si tratta però del solito “formato Copenaghen", secondo cui «tutti devono per forza accettare la "formula Zelenskij", sostenerla, o quantomeno dichiarare di volerne discuterne una parte... si fa per attirare le persone con il pretesto dell'innocenza di quegli specifici punti», ha detto Lavrov. Così che, in caso di fallimento, si possa accusare Mosca e tacciarla di “aggressore”.
Pochi dubbi, quindi, che gli euro-atlantisti intendano servirsi dei negoziati per guadagnare tempo, riorganizzare le vecchie forze e accumularne di nuove per la guerra. È così che a Ovest ci si muove su tre direttrici: si parla di negoziati, ma parallelamente si spinge Kiev alla guerra e, direttamente in Russia, si alimenta il terrorismo. L'Occidente è sicuro, scrive Skachkò, che «portando il fardello dell’uomo civilizzato tra i barbari, gli sia consentito di tutto: inganni e tradimenti. Ma ora sembra contrapporglisi con sempre maggior successo la posizione congiunta di Russia e Cina, che possono presentare agli USA (leggi: Occidente) un’offerta che non possono rifiutare. I fautori del nuovo ordine multipolare stanno guadagnando forza e il vecchio egemone si sta indebolendo: in questa ineluttabilità dell’inevitabile si basano le speranze».
Si vorrebbe poter nutrire la stessa speranza. Il linguaggio, gli atteggiamenti bellicisti e, più importante, le scelte militariste degli “europeisti” più convinti (cosa hanno da dire oggi, per esempio, i “sinistrati” che prima del 15 ottobre sostenevano il candidato “europeista” Donald Tusk, che oggi galoppa verso il riarmo polacco e evoca apertamente la guerra?) lasciano però ben poche speranze. E lo stesso linguaggio con cui si vuole inculcare nelle persone l’inevitabilità della guerra contro la Russia ci dicono che, oggi, non si intende nemmeno perder tempo con la melliflua formula usata da Napoleone verso Alessandro I dopo il sacco di Mosca: «Conduco la guerra contro Vostra Maestà senza sentimenti ostili».
Oggi quei sentimenti campeggiano sulle tessere di partito di tutte le formazioni euroliberali, o guerrafondaie che dir si voglia.