Il segnale più tangibile della difficoltà dell'egemonia statunitense

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Il segnale più tangibile della difficoltà dell'egemonia statunitense


di Leonardo Sinigaglia



Preso in consegna dalla polizia di New York e portato in tribunale, Donald Trump si è mostrato alle telecamere a pugno alzato, in un’immagine che non può rievocare quella di Julian Assange dal balcone dell’ambasciata ecuadoriana di Londra. Le due persone non potrebbero essere però più diverse: l’uno un giornalista impegnato nel disvelare i crimini dell’imperialismo, e per questo duramente punito, l’altro un miliardario che proprio ai vertici politici del regime imperialista statunitense ha trovato l’apice della sua carriera.

Nonostante quanto è stato sostenuto dai suoi apologeti, in patria come all’estero, Donald Trump non ha visto la sua presidenza caratterizzata da chissà quale politica rivoluzionaria o filo-popolare. Lontanissimo dagli interessi della ‘working class’ e del ceto medio impoverito, Trump ha promosso gli interessi dei grandi cartelli industriali e finanziari, portando a nuove liberalizzazioni in materia ambientale e creditizia, del tutto in continuità con le amministrazioni democratiche -si ricordi la politica di salvataggio delle banche a discapito dei cittadini attuata dal suo predecessore Obama- e con quelle neoconservatrici di Bush.

Anche in politica estera Trump si pose in sostanziale continuità con i suoi predecessori: continuarono le politiche sanzionatorie contro il Venezuela, verso il quale fu anche indirizzato il tentativo golpista dell’Operazione Gedeone, quelle contro Cuba che avrebbero portato allo sfortunato tentativo di rivoluzione colorata sceso in qualche piazza a luglio 2021 sotto lo slogan ‘Patria y vida”, continuò la politica di contenimento anti-cinese inaugurata nel 2008 da Barack Obama con il “Pivot to Asia”, anzi rafforzata dalla vera e propria guerra commerciale e doganale scatenata contro la Repubblica Popolare (e ora continuata da Biden), e continuò la politica mediorientale all’insegna del sostegno allo Stato sionista (ricordiamo come fu riconosciuta Gerusalemme capitale di “Israele” al posto di Tel Aviv) caratterizzata dalle ripetute aggressioni militari contro l’esercito siriano e le forze popolare irachene, oltre che all’atto di terrorismo internazionale in cui fu ucciso il generale Qassem Soleimani.

Insomma, l’amministrazione trumpiana non rappresentò nessun momento di svolta nella storia politica degli Stati Uniti d’America, ma fu in sostanziale continuità rispetto alle generali tendenze sociali, economiche e geopolitiche del regime di Washington. Ciononostante è indubbio come la presidenza di Donald Trump rappresentò in un certo senso un “male minore” rispetto all’alternativa allora offerta da Hillary Clinton. Questo non certo per i “meriti” di Trump, ma per le contraddizioni che egli portò in seno agli USA. Sotto di lui iniziò un processo di polarizzazione politica e sociale senza eguali, che in certi momenti ha rasentato la guerra civile latente, segnata da un lato dalla violenta esplosione di proteste delle comunità afroamericane, dall’altro dall’organizzazione di vere e proprie milizie armate legate a settori della destra istituzionale e non. A livello geopolitico si toccò un momento di forte tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea, che ebbe nella Brexit  e nelle parole di Macron sulla “morte cerebrale” della NATO il suo apice.

La presidenza Trump si pose in diretta contrapposizione rispetto agli interessi delle masse popolari americane e del processo di decomposizione dell’egemonia di Washington, che anzi si puntava a restaurare sotto lo slogan MAGA, “Make America Great Again”, dai toni non dissimili dal “Build Back Better” bideniano, ma, indirettamente, ne agevolò la causa. La divisione momentanea tra Bruxelles e Washington fu sfruttata dalla Federazione Russa e dalla Cina per guadagnare tempo in previsione dello scontro globale ora in atto, e ha costruito le basi per la debolezza strategica dell’Unione Europea adesso pienamente visibile e che ne porterà alla probabile scomparsa.

Anche “grazie” alla presidenza di Trump, riflesso di contraddizioni sempre più marcate in seno alla classe dirigente statunitense, si è arrivati alla situazione di sfaldamento a cui oggi stiamo assistendo. Sempre di più i vari settori del grande capitale americano sono impegnati in una guerra intestina che indebolisce le forze che altrimenti verrebbero impegnate in una rinnovata offensiva contro il resto del mondo. Le immagini di Trump condotto in tribunale rendono questo perfettamente manifesto: per la prima volta nel cuore dell’Impero si fa ricorso a sistemi che prima erano relegati alle periferie di questo, ossia l’incarcerazione, o la minaccia di questa, contro oppositori politici interni alla dialettica del sistema stesso.

La crisi della classe dirigente americana si mostra anche attraverso le lacerazioni che piagano i due partiti istituzionali, con quello repubblicano incapace tanto di saldarsi attorno all’ex-presidente sotto attacco quanto di abbandonarne definitivamente le parti a favore del promettente, e ben finanziato, De Santis; quello democratico costretto a ripiegare su una figura tanto lesiva quanto incapace come Joe Biden per mantenere un’unità interna sempre più compromessa.

Trump non è un eroe, e non deve essere mitizzato. Ma non è nemmeno il delinquente nemico della democrazia per cui vorrebbero farlo passare i suoi avversari, o meglio non lo è in misura maggiore di questi. La persecuzione giudiziaria che sta affrontando non deve renderlo un martire, ma è comunque un dato importante: dimostra quanto il nemico strategico dei popoli, l’egemonia statunitense, sia ormai in difficoltà, distrutto dalle contraddizioni interne e prossimo alla sconfitta.

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