Il vicolo cieco della Polonia

Il vicolo cieco della Polonia

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di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Le dichiarazioni roboanti del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki circa la necessità di «infliggere una sconfitta strategica alla Russia» e l’incremento costante delle spese militari messo in cantiere da Varsavia stanno mettendo in secondo piano le crescenti difficoltà economiche che attanagliano il Paese.

In particolar modo per quanto concerne il comparto manifatturiero, alle prese con una colossale crisi da sovrapproduzione. I dati indicano che gli ordinativi sono in grado di assorbire appena il 73,7% della capacità produttiva dell’industria metallurgica, il 73,6% di quella che si occupa di coke e combustibili e il 73,3% di quella conciaria. Nel primo semestre del 2023, complici poderose fiammate inflazionistiche che falcidiano il potere d’acquisto dei lavoratori, i consumi energetici hanno inoltre subito una contrazione su base annua pari all’8,3%. La combinazione dei fattori summenzionati, osserva «Business Insider», sta spingendo la aziende polacche a prepararsi a licenziare i dipendenti e tagliare i costi in ogni modo possibile.

Una situazione alquanto critica, ascrivibile anzitutto ai costi crescenti  legati al pagamento dei diritti di emissione di anidride carbonica previsto dall’Unione Europea e al drastico aumento dei prezzi dell’energia. Un fenomeno, quest’ultimo, che affonda a sua volta le radici sia nel rivoluzionamento del mercato energetico – con l’abbandono graduale dei contratti a lungo termine caratterizzati da prezzi relativamente stabili in favore del paradigma spot – attuato da Bruxelles dietro il pungolo statunitense in un’ottica di allentamento del legame energetico tra Europa e Russia, sia nella sostituzione degli approvvigionamenti di petrolio e gas russi con quelli di gran lunga più costosi forniti dagli Usa.

Allo stesso tempo, a dispetto della visione smaccatamente anti-germanica che caratterizza parte più che preponderante della classe dirigente di Varsavia, la Polonia costituisce un anello assai rilevante della catena del valore tedesca. Più specificamente, il Paese rappresenta parte integrante di quella “periferia fordista” dai cambi depressi e dalla manodopera qualificata e a basso costo presso cui i colossi industriali tedeschi hanno gradualmente rilocalizzato le produzioni subordinate, dando origine a una gigantesca rete manifatturiera integrata a maglie strettissime. Un risultato epocale, scaturito da una generale “correzione” delle intuizioni di Alfred Herrhausen, vecchio industriale “prestato” alla finanza che in qualità di presidente di Deutsche Bank aveva ipotizzato, verso la fine degli anni ’80, di smaltire i costi della riunificazione tedesca ponendo le elevate competenze degli ingegneri e dei lavoratori dell’ex Ddr al servizio di un progetto mirante al rilancio economico di tutta l’Europa dell’est. «Entro dieci anni – affermò Herrhausen – la Germania orientale diverrà il complesso tecnologicamente più avanzato d’Europa e il trampolino di lancio economico verso l’est, in modo tale che Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, e anche la Bulgaria svolgano un ruolo essenziale nello sviluppo europeo».

Conformemente a questa visione, il Consiglio d’Europa dispose a suo tempo una riduzione del 35% dei finanziamenti destinati ai Paesi mediterranei che erano stati concordati per il periodo 1992-1996 per riorientarli verso l’Europa orientale, inglobata nel frattempo sia nell’Unione Europea che nella Nato. Da allora, le sovvenzioni sono cresciute senza sosta benché i Paesi destinatari dei sussidi non avessero l’obbligo di conformarsi agli stessi rigidissimi criteri d’austerità a cui erano chiamati ad adeguarsi i membri dell’eurozona, sottoposti ai vincoli della Banca Centrale Europea. La Polonia, nazione strategicamente cruciale per la penetrazione economica tedesca verso est e per la sua posizione geografica di “ponte” tra Russia ed Europa continentale, è stata letteralmente investita da una pioggia di aiuti economici europei (oltre 81 miliardi di euro tra il 2007 e il 2013, a cui vanno sommati oltre 100 di euro di fondi tra il 2016 e il 2020) grazie ai quali Varsavia ha avuto modo di ammodernare la rete dei trasporti nell’ambito di un poderoso programma di ricostruzione delle infrastrutture nazionali che ha inciso poco o nulla in termini di indebitamento (il debito pubblico è di poco superiore al 50% del Pil). Tra il 2008 e il 2016, moltissime imprese multinazionali hanno inaugurato propri stabilimenti in Polonia favorendo il dimezzamento del tasso di disoccupazione (15,2% del 2004 al 7,7% del 2014) e il rilancio della produttività interna.

Non a caso, si tratta dell’unico Paese membro dell’Unione Europea a non essere mai entrato in recessione dal 2008 in poi. Nazioni anch’esse caratterizzate da basso costo del lavoro quali Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia hanno imboccato processi di sviluppo paragonabili a quello polacco, beneficiando a loro volta della delocalizzazione degli impianti produttivi e dell’ampio margine di manovra in ambito di interventi statali sull’economia incoraggiati e permessi dalle regole europee – più recentemente, a beneficiare del fenomeno della delocalizzazione sono stati la Croazia e addirittura l’Austria, Paese in cui il segreto bancario gode di tutela costituzionale.

Nel corso degli anni, l’Europa orientale – e la Polonia in particolare – si è emancipata dal ruolo di subfornitrice della componentistica per conto dell’hub industriale tedesco, adattandosi con gradualità a svolgere le fasi produttive più complesse. Ne è scaturita una sorta di riproduzione in salsa europea sia del fenomeno tipicamente nordamericano delle reverse maquiladoras (le decine di migliaia di stabilimenti messicani preposti all’assemblaggio di prodotti statunitensi dall’elevato valore aggiunto), sia del modello giapponese di specializzazione industriale nei comparti ad alto e/o altissimo valore aggiunto (con polacchi, ungheresi, cechi, sloveni, ecc. che hanno vestito i panni di malesi, taiwanesi, indonesiani e coreani), che ha permesso alla Germania di evitare gli effetti negativi prodotti dai salari relativamente elevati e dall’orario di lavoro sempre più corto degli operai tedeschi. La Germania si è così posta al centro di un’enorme area industriale unificata, affermandosi come motore di un export dotato di un forte contenuto di importazioni e legando strettamente a sé il destino dei “satelliti” circostanti.

A partire proprio dalla Polonia, che dall’ingresso nell’Unione Europea (2004) ha più che raddoppiato il proprio Pil, più che triplicato le esportazioni (il 75% delle quali si dirige verso i Paesi dell’Unione Europea), incrementato lo stock di investimenti diretti all’estero da 45 a oltre 200 miliardi di euro e abbattuto il tasso di disoccupazione dal 20 al 5,1%. Questa prorompente crescita economica “a rimorchio” della locomotiva tedesca è maturata parallelamente a un nazionalismo dai tratti marcatamente atlantisti (1), compatibilissimi con i progetti statunitensi finalizzati alla rottura del “sodalizio” russo-europeo. Già sotto Trump ma con accresciuta convinzione in seguito all’insediamento dell’amministrazione Biden, gli Usa hanno moltiplicato gli sforzi per sabotare la realizzazione del gasdotto russo-tedesco Nord Stream-2, intensificando le pressioni diplomatiche sul governo di Angela Merkel e predisponendo una serie di sanzioni contro tutte le imprese coinvolte nella costruzione della conduttura ai sensi del Countering America’s Adversaries Though Sanction Act del 2017 e del Protecting Europe’s Energy Security Act del 2019. L’imponente campagna orchestrata da Washington contro la conduttura scontava l’approvazione dei Paesi dell’Europa orientale, inclini a indentificare nell’accordo russo-tedesco relativo al raddoppio del Nord Stream un vero e proprio “Patto Molotov-Von Ribbentrop 2.0” perché destinato a cancellare i privilegi economici garantiti dalla loro posizione geograficamente centrale per il transito dell’energia russa verso l’Europa.

La domanda di “sicurezza energetica” proveniente dall’Europa orientale ha quindi trovato parziale soddisfazione con l’intervento “provvidenziale” dell’amministrazione Trump, che nel giugno del 2017 ha inviato la prima fornitura di Gnl verso l’impianto di rigassificazione polacco di ?winouj?cie – costruito ad hoc – e predisposto ulteriori consegne sia a questo che ad altri terminali. A partire da quello che sorge presso l’isola croata di Krk, cofinanziato dall’Unione Europea a dispetto dei costi vertiginosi (circa 600 milioni di euro), del colossale impatto ambientale e dell’anti-economicità del Gnl statunitense rispetto al gas russo perché funzionale alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento e, soprattutto, perfettamente confacente al progetto Usa mirato a ridisegnare il sistema di distribuzione energetica europea. L’impianto di Krk verrà infatti collegato a quello ?winouj?cie attraverso un apposito corridoio nord-sud ancorato al Northern Gateway, un gasdotto baltico concepito per garantire l’afflusso di metano norvegese estratto del Mare del Nord e trasformare la Polonia in un importante distributore di gas naturale alternativo a quello russo per tutta l’Europa centrale, grazie anche alla serie di inter-connettori realizzati verso Lituania, Slovacchia e Ucraina.

Significativamente, il Northern Gateway è stato inaugurato il giorno dopo il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2, salutato dall’ex ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski con un tweet alquanto emblematico (testualmente: “thank you, Usa”) e attribuito da Seymour Hersh a un’operazione pianificata e realizzata dagli Stati Uniti con il supporto della Norvegia.

L’intero progetto energetico ideato per l’Europa centro-orientale è maturato nell’ambito del Trimarium, una versione del vecchio Intermarium aggiornata al XXI Secolo e declinata pertanto secondo un canone spiccatamente geoeconomico, implicante l’unificazione del “grande spazio” ricompreso tra il Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico attraverso un programma di ammodernamento infrastrutturale (ferrovie, autostrade, condutture energetiche e canali) che favorisca le interconnessioni tra i Paesi aderenti, vale a dire Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Austria, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria. Per Marek Jan Chodakiewicz, storico statunitense di origini polacche che ha scritto parte del discorso pronunciato da Donald Trump a Varsavia nel 2017, il Trimarium rappresenta un progetto «culturalmente e ideologicamente più compatibile con gli interessi nazionali americani».

La Polonia, al centro del progetto Trimarium, si candida attualmente a marginalizzare politicamente la Germania e accreditarsi – un po’ come l’Italia sotto il governo di Giorgia Meloni – come principale interlocutore degli Stati Uniti in Europa, se non come vera e propria “testa di ponte” di Washington all’interno del “vecchio continente”. Senonché, la sua tenuta economica rimane strettamente dipendente dalle sorti della Bundesrepublik, a cui è strettamente legata dal punto di vista sia industriale che finanziario, considerata l’influenza che Berlino è in grado di esercitare sulle strutture tecnocratiche comunitarie. Ed è a sua volta alquanto emblematica la sincronicità tra il deterioramento dei rapporti russo-tedeschi e il graduale scivolamento della Germania sul piano inclinato della recessione, con contestuale assottigliamento del suo gigantesco avanzo commerciale. Dinnanzi alla Polonia si stagliano prospettive analoghe.

 

 

Note

 

1) Il governo di Varsavia ha addirittura manifestato a Washington la propria disponibilità a stanziare due miliardi di dollari per la costruzione di una struttura presso la cittadina di Orzysz, situata a ridosso di Kaliningrad in cui ospitare una divisione corazzata Usa, che il presidente Andrzej Duda propose addirittura di battezzare Fort Trump con il chiaro intento di solleticare il narcisismo del magnate newyorkese. L’idea è quella di insediare in pianta stabile la presenza militare statunitense oltre l’ex “cortina di ferro” per la prima volta dal crollo dell’Unione Sovietica, attraverso la trasformazione della Polonia in una sorta di «portaerei inaffondabile degli Stati Uniti», per usare un’espressione pronunciata a suo tempo da un membro di alto profilo del governo di Jaroslaw Kaczyseki.

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