Il vuoto è di potere (democratico), non di rappresentanza!
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di Gabriele Guzzi - La Fionda
Delle analisi che si stanno effettuando sul primo turno delle elezioni amministrative del 3-4 ottobre 2021, credo che se ne possano sintetizzare tre. La prima sostiene che sia una sconfitta dei cosiddetti partiti populisti, la seconda che il centrosinistra si sia risintonizzato con il Paese. Queste prime due posizioni convengono su un punto: la stranezza italiana del decennio 2011-2021 è rientrata, il sistema si va riconsolidando attorno ad un bipolarismo nuovo, in cui sono proprio i partiti più forti della destra, restii alla normalizzazione, a doversi ancora adeguare.
Che queste due interpretazioni siano colossalmente errate è evidente, e basterebbe osservare un attimo i flussi elettorali e le percentuali di astensione. Il centro-sinistra vince dove ha sempre vinto, nei grandi centri urbani, riesce ad andare al ballottaggio in due importanti feudi di recente conquista pentastellata (Roma e Torino) ma non riesce ad andare molto al di là del proprio elettorato. Infatti, è proprio la scarsa propensione a rimanere fedeli alle proprie istanze che ha portato il M5s a questo risultato, e non certo una sua insistenza su tematiche anti-sistema.
Il clima del paese non è pacificato, l’atmosfera è cupa non tranquilla, tetra non riconciliata. Le istanze si sono radicalizzate, ed è proprio l’allontanamento da queste posizioni o il volerci rimanere federe con un’ambiguità insostenibile – il M5s nella prima ipotesa, la Lega salviniana nella seconda – ad aver consolidato l’unico vero partito di sistema, quello che fa dell’immobilismo e della presunta serietà istituzionale la ragione del suo successo, fuori ma soprattutto dentro ai circoli di potere.
Al di là, quindi, di queste ricostruzioni in chiara malafede c’è una terza interpretazione che, a mio avviso, è la più rilevante, quella che merita – per chi desidera proporre una piattaforma aggregativa contro questo riflusso oligarchico – molta attenzione. Effettivamente, si sostiene, è stato raggiunto un calo storico della partecipazione al voto. Il dato dell’affluenza alle comunali si attesta complessivamente al 54,69%, ma è nei grandi centri – proprio quelli dove il centro-sinistra si sarebbe riconciliato con il suo popolo (e qual è questo popolo?) – che tocchiamo le profondità più abissali di disinteresse e, forse, schifo verso ciò a cui si è ridotta l’intera procedura elettorale. A Milano vota il 47,6%, a Napoli il 47,19%, a Torino il 48,06%, a Roma il 48,83%. Nel collegio suppletivo di Siena, solo il 35%.
Dinanzi a questo scenario impietoso, alcuni commentatori sostengono che ci sia in Italia un vuoto di rappresentanza. Se, infatti, più di un italiano su due non si reca a votare significa che le sue istanze non sono rappresentate, ma che esisterebbe in teoria uno spazio da riempire, un vuoto da colmare, con un partito o un movimento che faccia proprie parole d’ordine inascoltate e raccolga consenso attorno ad esse. Non credo che questa terza interpretazione sia errata, al contrario delle prime due, ma che sia purtroppo radicalmente carente e insufficiente.
In Italia, non c’è innanzitutto un vuoto di rappresentanza, ma un vuoto di potere, e di potere democratico. Non possiamo nasconderci attorno a ricostruzioni ottimistiche, con il solito spirito positivo che anima i movimenti anti-sistema dopo le sconfitte. Il vuoto di potere democratico si esprime così: quelle istanze inascoltate, quelle voci furenti, quella rabbia indicibile, quella voglia di punire (politicamente) i traditori che hanno portato lo Stato a tali livelli di inefficienza, corruzione, mediocrità, sono state rappresentate, hanno avuto la forza, il coraggio, di raccogliere consenso, hanno sconfitto l’inerzia e la sfiducia che anima strutturalmente il popolo italiano da decenni e forse da secoli. Lo hanno fatto, e hanno vinto. Parliamo proprio del M5s e della Lega alle elezioni del 2018.
Certo, si dirà, loro avevano questi difetti, erano compromessi in tali luoghi, con tali personaggi etc. Non credo che questo sia vero, o che comunque rappresenti una critica sufficiente per liquidare l’intero movimento anti-sistema che ha contraddistinto l’Italia negli ultimi anni. Quei movimenti avevano portato personaggi mai visti nell’agone politico, alcuni di essi avevano animato in prima persona il dibattito culturale contro le regole europee e le asimmetrie strutturali dell’Area Euro. Tutti i parlamentari del M5s aderirono a rigide regole di comportamento e disciplina morale. Insomma, non erano dei meri trasformisti adottati ad un improvvisato radicalismo. Prova di questo è che milioni di cittadini italiani – che tra i tanti difetti hanno il grande pregio di intuire la falsità – votarono questi movimenti in massa.
Poi cosa è successo? Duole ricordarlo sempre, ma ritengo che la dinamica interna a questa legislatura sia fondamentale per avere un quadro realistico su cosa sia diventata la nostra democrazia. Dal 2018 si sono susseguiti tre governi, tutti presieduti da personaggi esterni al Parlamento e agli stessi partiti. Tutti e tre sono stati appoggiati da alleanze diverse. Ad eccezione di pochissimi parlamentari, abbiamo osservato congiunzioni trasversali con tutto e il contrario di tutto. Dopo due anni dalle elezioni del 4 marzo 2018, che sancirono la sconfitta dei partiti moderati e la denuncia radicale contro l’Unione Europea, ci ritroviamo al governo tutti quei partiti che pensavamo di aver gettato per sempre nel pattume (politico) della storia alleati proprio a quei movimenti che avevano raccolto quelle istanze di cambiamento radicale. E, come premier, Mario Draghi.
Ora, noi non ci rendiamo ancora conto delle conseguenze psichiche che questo vergognoso tradimento ha suscitato in una parte consistente del popolo italiano. Conseguenze psichiche che poi hanno immediate implicazioni politiche. Se io faccio vincere dei movimenti così radicali, così apparentemente estranei – soprattutto per il M5s – al sistema di potere italiano, e nonostante tutto in meno di diciotto mesi me li ritrovo al governo con il partito che di più ha rappresentato la gestione emergenziale della crisi post-2008, e dopo due anni al governo con il personaggio che ha gestito operativamente la crisi greca, quella dei debiti sovrani, firmando egli stesso la lettera che esautorava un governo democraticamente eletto dalla scrivania di un’istituzione internazionale, che cosa posso pensare delle elezioni?
Penserò una cosa molto semplice: non servono a nulla. E avrò ragione. Ed è questo il punto dirimente che non può essere più aggirato. C’è un vuoto di potere non un vuoto di rappresentanza. Il vuoto di potere significa che un altro potere persegue una propria agenda politica, a prescindere e spesso in antitesi ai risultati elettorali. È complottismo questo? No, è la descrizione di ciò che è avvenuto nella storia italiana negli ultimi anni, con origini che forse si radicano nei decenni o chissà forse anche nei secoli passati.
È l’agenda di una politica internazionale bloccata, di un’adesione indiscutibile all’Europa a trazione franco-tedesca, di un sistema di potere mediatico immobilizzato e immobilizzante, di vasti gruppi di interesse che influenzano da dentro la pubblica amministrazione, di infiltrazioni – spesso anche criminali – nei centri politici decisionali. È un sistema plurale, variegato, che certamente non si può ridurre ad una unicità. Ma, allo stesso tempo, ha i suoi interessi convergenti. E quando emerge un rischio concreto di minaccia si compatta saldamente per difenderli. Chi per interesse di gruppo, chi, più volgarmente, per accreditarsi in determinati ambienti internazionali.
Non basta vincere le elezioni. Questo è il dramma che ci dà questa legislatura, ed è il codice iscritto nell’inconscio collettivo del nostro popolo: che serve votare se non basta vincere le elezioni? È già impossibile vincerle (data la compattezza mediatica), ma se anche quando le si vince comunque il sistema riesce a piegare il risultato elettorale ai propri vantaggi, che senso ha partecipare a questa ridicola pantomima? Che senso ha faticare, buttare sangue dietro a queste illusioni? Che senso ha soffrire?
Ecco, il risultato di queste elezioni ci comunicano questo disprezzo realista del popolo italiano. La politica ha tradito e non merita alcuna legittimità. Ci sono, certamente, eccezioni, e le generalizzazioni servono in questi casi dove la sintesi è necessaria. Tuttavia, vorrei capire dove si annidano queste eccezioni e cosa hanno detto quando un chiaro progetto anti-democratico e neo-oligarchico veniva portato avanti. Ecco, spesso sono rimasti in silenzio. E se sei un politico, il silenzio è d’oro solo se vuoi mantenere il tuo fondoschiena ben saldo alla poltrona.
Non c’è solo un vuoto di rappresentanza, c’è un vuoto di potere, ossia uno scollamento tra il potere e la sua legittimità democratica. Il vuoto del potere democratico è il reciproco di un potere denso e diffuso, saldo, molto presente e molto scaltro, estraneo ad alcuna legittimazione popolare. Dobbiamo, quindi, evitare facili ottimismi o spiriti volontaristici. Se non riusciremo ad intervenire su queste strutture, si potrà fare poco, e forse l’intero corso democratico-moderno si ridurrà ad una mera formalità, fino a quando – e forse sarà addirittura meglio ai fini almeno di una migliore chiarezza e onestà – si deciderà di rinunciare anche a questi sacralismi elettorali.