"Indo Pacific Economic Framework". Come gli USA vogliono isolare la Cina nell'Indo Pacifico

"Indo Pacific Economic Framework". Come gli USA vogliono isolare la Cina nell'Indo Pacifico

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di Nunzia Augeri* - Cumpanis

 

Lo scorso mese di agosto, la visita a Taiwan di Nancy Pelosi, la portavoce del Congresso statunitense, e quelle immediatamente successive di una delegazione dello stesso Congresso e poi del governatore dell’Indiana, Eric Holcomb, con la loro carica provocatoria nei confronti della Cina e le azioni che ne sono seguite, hanno posto sotto i riflettori l’attivismo statunitense nella zona del Pacifico. Ma questi avvenimenti sono solo la punta dell’iceberg di una azione politico-diplomatica molto complessa, che sta tessendo una fitta rete di accerchiamento politico, economico e militare intorno alla Cina.

Oggi sono parecchi i trattati e gli accordi che vincolano i paesi asiatici con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Australia; il più vetusto risale al tempo della seconda guerra mondiale, quando il nemico comune era il Giappone: l’accordo venne sancito nel 1943 ed è conosciuto come Five Eyes. All’inizio gli occhi erano solo due, quelli di Stati Uniti e Gran Bretagna, che in piena guerra mondiale collaboravano nella lotta silenziosa e segreta dello spionaggio contro la Germania nazista. Nel dopoguerra, con l’avvento della guerra fredda, al patto aderirono nel 1948 i paesi di lingua inglese Canada, Australia e Nuova Zelanda, questa volta contro l’Unione Sovietica e contro ogni paese – ma anche singola personalità – che appoggiasse in qualche modo una visione del mondo diversa da quella anglo-americana. I Cinque occhi - che già avevano incluso la Germania occidentale e la Norvegia, non come membri effettivi ma come “terze parti” - nella loro evoluzione diedero luogo al sistema Echelon, che a sua volta si servì della collaborazione di Giappone, Singapore, Corea del Sud e Israele, coinvolgendo più tardi anche la Francia. Una vasta coalizione di spionaggio che fu corresponsabile di azioni come l’eliminazione di Muhammad Mossadeq in Iran, di Patrick Lumumba in Congo, di Salvador Allende in Cile, e altre azioni di questo tipo in tutto il mondo.

All’inizio del nuovo secolo l’esistenza di Echelon venne rivelata dal tecnico informatico statunitense Edward Snowden, sollevando un grande scalpore di cui si rese interprete anche il Parlamento europeo: risultò che praticamente tutte le comunicazioni, anche quelle private, erano sottoposte a controllo. Gli Stati Uniti lo negarono apertamente, ma con scarsa credibilità. Il fatto è che la collaborazione è continuata, aprendosi a Italia, Belgio, Austria, Grecia, Repubblica Ceca, Polonia, Spagna, Portogallo, Svezia, Svizzera e Turchia; si è formata una rete fittissima di controlli cui nessuna forma di comunicazione via etere riesce a sfuggire, eludendo ogni legislazione nazionale per la tutela della privacy. Fra le personalità che sono state spiate si va da Charlie Chaplin ad Angela Merkel, passando per John Lennon, Nelson Mandela e Lady Diana.

Poco meno vetusto è il patto di difesa collettiva che collegava dieci paesi del Sud Est asiatico, noto come SEATO, South East Asia Treaty Organisation: firmato nel 1954 a Manila, vi partecipavano Tailandia, Cambogia, Laos, Vietnam, Filippine, Malesia, Singapore, Myanmar, Indonesia e Brunei. Concepito sul modello della NATO transatlantica, non ebbe mai però un comando militare unificato. Ne furono padrini gli Stati Uniti e la Francia, che in quella data aveva appena subito la grave sconfitta di Dien Bien Phu ad opera delle truppe comuniste del Nord Vietnam. In un secondo momento vi aderirono anche la Gran Bretagna (che allora amministrava Hong Kong e il Borneo), l’Australia, la Nuova Zelanda e il Pakistan. Lo scopo era di contrastare l’influenza dei paesi comunisti nella regione, ma la mancata adesione dell’India e dell’Indonesia ne sminuirono fortemente l’efficacia. Sopravvenne inoltre la crisi dell’Indonesia, dove il governo di Sukarno – il Presidente che era stato campione dell’indipendenza dai Paesi Bassi, proclamata nel 1945 ma riconosciuta nel 1949 – si era sempre più appoggiato al Partito comunista e intratteneva stretti legami con l’Unione Sovietica e la Cina. Quanto bastava perché i militari, sostenuti dalle potenze occidentali, nel 1965 intraprendessero un feroce colpo di stato anticomunista che portò all’assassinio di circa tre milioni di abitanti, soprattutto contadini. I malumori interni, le rapide defezioni dei paesi più importanti, l’altalenante politica degli Stati Uniti nella zona – un diplomatico inglese, James Cable, definì il patto “una foglia di fico sulla nudità della politica USA” - resero l’organizzazione sempre più debole e inefficiente, finché nel 1977 ne fu dichiarata ufficialmente la dissoluzione.

Intanto i tempi e le esigenze cambiavano: lo sviluppo economico infatti aveva portato i paesi della zona indo-pacifica a prospettare la formazione di un’area di libero scambio, destinata – secondo i fondatori - a incrementare la crescita economica, il progresso sociale e la pace nella regione, sempre in funzione anticomunista. Nel 1967 nacque l’Association of South East Asian Nations, ASEAN, Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico, che venne proposta in un primo tempo da Filippine, Malesia e Tailandia, cui subito si unirono Indonesia e Singapore. Nel 1984 vi aderì il Brunei, nel 1995 il Vietnam, nel 1997 il Laos e la Birmania, nel 1999 la Cambogia. Nel 2002 a Singapore fu firmato un nuovo trattato che creava l’Asian Free Trade Area, AFTA, Area di libero scambio asiatica, che nel 2003 fu estesa alla Cina poi all’India e nel 2004 al Giappone e al Pakistan. Senza lo status di membri, ma come “dialogue partners” vi partecipano gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, la Corea del Sud, la Mongolia, la Russia e l’Unione Europea. Con l’ingresso della Cina e degli altri paesi, il volume degli scambi fra i membri dell’AFTA passò dai 59,6 miliardi dollari del 2003 ai 192,5 miliardi nel 2008, facendone la terza zona economica di importanza mondiale, dopo il NAFTA (Accordo di libero scambio fra Canada, Stati Uniti e Messico) e l’Unione Europea.

Cominciava però a sollevare inquietudine la netta preponderanza della Cina, che dagli anni 90 aveva intrapreso uno slancio economico titanico. In quegli anni, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti si consideravano trionfatori e pensavano al XXI secolo come al “secolo americano” in cui avrebbero assaporato i ricchi frutti del loro dominio incontrastato sul mondo. La Cina peraltro, dopo aver recuperato a tappe forzate lo svantaggio in cui si era trovata dopo cento anni di guerra, dal 1848 al 1949, si presentò sullo scenario geopolitico mondiale come un’aspirante grande potenza economica, politica e culturale. Gli Stati Uniti cominciarono ad allarmarsi, ma solo dopo aver trasferito in Cina – al pari di altri paesi europei – buona parte della loro produzione industriale, non solo i tessili ma anche quella più tecnologicamente avanzata. Iniziò una nuova epoca di grande attività diplomatica da parte degli Stati Uniti, seguiti dai loro alleati occidentali, per riaffermare la loro influenza nella regione indo-pacifica. Nel 2017 venne firmato il cosiddetto Quad, Dialogo quadrilaterale di sicurezza, fra USA, Australia, India e Giappone, con lo scopo preciso di contenere l’espansione cinese nell’Indo-Pacifico, intendendo con questo tutta la zona che va dalle coste orientali dell’Africa alle isole più esterne del Pacifico. Il patto era iniziato nel 2002 come un’organizzazione trilaterale fra USA, Giappone e Australia, a livello di alti funzionari e poi di ministri degli Stati interessati. Nel 2007 fu l’allora primo ministro giapponese Shinzo Abe a proporre di farne un accordo fra Stati, includendo l’India.

Dal 2020 il Dialogo è diventato Quad plus, includendo la Nuova Zelanda, la Corea del Sud e il Vietnam: ha iniziato esercitazioni militari navali congiunte, sempre in funzione di contenimento della potenza cinese, e gli Stati Uniti hanno iniziato a parlare esplicitamente di NATO asiatica. Si tengono annualmente degli incontri di vertice, e si sono intrecciati rapporti con i singoli paesi europei e con l’Unione Europea, per coinvolgere tutti in una NATO globale contro la Cina. L’ultimo vertice, tenutosi a Tokio nel marzo di quest’anno, è stato dedicato alla guerra in Ucraina, per la quale gli Stati interessati hanno garantito il loro appoggio alla politica guerrafondaia degli Stati Uniti.

Sotto la presidenza di Barack Obama, nell’ormai lontano 2016, gli Stati Uniti avevano lanciato un programma di partenariato con i paesi asiatici, denominato Trans Pacific Partnership (TPP), che sotto il patronato degli Stati Uniti includeva Australia, Nuova Zelanda, Brunei, Giappone, Malesia, Singapore, Vietnam, da parte asiatica, e Canada, Messico, Cile, Perù da parte americana. Si trattava di un trattato commerciale, destinato – secondo i promotori – a “promuovere gli scambi e gli investimenti, l’innovazione, la crescita economica e lo sviluppo, e sostenere la creazione e il mantenimento di posti di lavoro”. Il trattato venne firmato nel febbraio 2016, durante la presidenza Obama; il 20 gennaio 2017 entrò in carica il nuovo presidente Donald Trump il quale dopo due giorni, il 23 gennaio, ritirò gli Stati Uniti dal TPP, coerentemente con la sua politica di isolamento internazionale e di reindustrializzazione del paese. Dopo neppure un anno, il nuovissimo partenariato ebbe così la sua condanna a morte.

Le esigenze dello sviluppo dell’economia però pesavano con forza sulla vita dei paesi asiatici, e bastò un anno perché nel marzo 2018 risorgesse un Comprehensive and Progressive Agreement for Trans Pacific Partnership (CPATPP), Accordo globale e progressivo per il partenariato transpacifico: un trattato di libero scambio del quale fanno parte tutti i paesi del TPP, cui nel settembre 2021 si è aggiunta l’isola di Taiwan. Gli Stati Uniti non vi partecipano, ma hanno fatto sentire tutto il loro peso quando la Cina si è dimostrata interessata a farne parte; il veto USA è arrivato via Messico e Canada, e anche l’Australia ha reso nota la propria opposizione, mentre il Giappone, più diplomaticamente, ha notificato che sarebbe stato necessario verificare se la Cina rispondesse ai severi requisiti richiesti. Il Regno Unito, ormai staccato dall’Unione Europea dopo la Brexit, ha avanzato richiesta di adesione nel febbraio 2021 e dalle coste americane del Pacifico anche Ecuador e Costa Rica hanno manifestato il loro interesse.  

In una rapida evoluzione, dettata anche dalle pesanti conseguenze economiche della pandemia di Covid-19, al CPATPP si è recentemente affiancato il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), Partenariato economico globale regionale, firmato nel novembre 2020 ma entrato in vigore dal 1 gennaio 2022. Si tratta di un accordo di libero scambio che comprende i paesi membri dell’ASEAN più Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud e – per la prima volta – anche la Cina. Non ne fanno parte invece gli Stati Uniti e gli altri paesi della costa americana del Pacifico, e neppure l’India. E’ il più grande accordo di libero scambio esistente al mondo, comprende 2,2 miliardi di abitanti, cioè un terzo della popolazione mondiale, produce il 30% del PIL mondiale e il 70% della produzione elettronica, e rappresenta il 27,4% del commercio globale. Nel suo ambito si è determinato un incremento del peso politico della Cina nella regione, in un’ottica di competizione con gli Stati Uniti.

Ci sono poi i recenti accordi militari come l’AUKUS. L’accordo, firmato nel settembre 2021, è conosciuto sotto questa sigla che riprende le iniziali dei tre firmatari, Australia, Stati Uniti e Regno Unito. Si tratta di un’alleanza militare che riguarda un settore molto specifico, quello dei sottomarini: l’Australia riceverà otto sottomarini nucleari, provvisti dei più recenti apparati tecnologici inglesi e/o americani, per un valore di decine di miliardi di dollari. L’opposizione più vivace si è manifestata non tanto da parte della Cina, bensì della Francia: infatti nel 2016 l’Australia aveva concordato la fornitura di dodici sottomarini diesel-elettrici “Shortfin Barracuda” con il Naval Group francese, di cui il governo è il maggiore azionista. La cancellazione dell’accordo, del valore di 9 miliardi di dollari australiani, ha provocato una vivace reazione da parte della Francia, che ha subito richiamato in patria gli ambasciatori di Washington e Canberra, e solo l’intervento diretto di Biden presso Macron ha potuto calmare l’animosità gallica.

L’adozione di sottomarini nucleari significa un cambio notevole di strategia: infatti i sottomarini diesel-elettrici sono silenziosi e possono proteggere molto bene le coste australiane, ma hanno un’autonomia di solo due settimane, dopo di che devono tornare alla base per i rifornimenti e la manutenzione. Quelli nucleari hanno un’autonomia molto maggiore, potendo restare sott’acqua per 81 giorni, purché abbiano razioni per l’equipaggio; e inoltre hanno la possibilità di lanciare missili a lungo raggio che dalle Filippine potrebbero colpire la terraferma cinese, espandendo così la capacità offensiva dell’Australia.

L’accordo ha subito provocato una sentita reazione da parte della Cina, dove il portavoce del governo Zhao Lijian ha dichiarato che quel tipo di cooperazione “mette seriamente in pericolo la pace e la stabilità della regione, aumenta la corsa agli armamenti e vanifica gli sforzi internazionali di non proliferazione”. Malgrado ciò, nella scorsa primavera gli Stati Uniti e l’Australia hanno annunciato che i nuovi sottomarini saranno dotati di missili ipersonici, capaci di volare a 5 Mach, cioè cinque volte la velocità del suono. Si tratta di un’arma cui stanno lavorando da anni i due paesi, appoggiati dalla Gran Bretagna; ciò è stato ritenuto necessario per contrastare il vantaggio ottenuto dalla Russia con i missili ipersonici Kinzhal e Avangard, e dalla Cina con il DF-17. La misura rivela il timore dell’Australia e degli Stati Uniti per la crescente potenza cinese, nonché il desiderio della Gran Bretagna di assumere un ruolo più importante in Estremo Oriente e stabilire una maggiore cooperazione con l’Australia, il paese che fu membro del Commonwealth britannico.

E bisogna sottolineare anche un altro aspetto importante e inquietante: i nuovi sottomarini devono usare come combustibile l’uranio arricchito, lo stesso usato per costruire le bombe. Non è necessario che l’Australia stessa sviluppi la tecnologia adeguata, potrebbe semplicemente ricevere l’uranio dagli alleati, ponendosi così come caso unico fra gli stati non-nucleari firmatari del Trattato di non proliferazione nucleare: il possesso di uranio arricchito per la propulsione dei sottomarini potrebbe diventare una copertura per realizzare l’arma nucleare.

Il Reciprocal Access Agreement, RAA, Accordo di accesso reciproco, firmato nel gennaio 2022 da Giappone e Australia, è il più recente degli accordi sottoscritti nell’area del Pacifico. Dal 2014, quando il primo ministro giapponese Abe Shinzo visitò l’Australia e venne invitato in Parlamento per un discorso, i rapporti fra i due paesi si sono fatti sempre più stretti; sul piano economico, l’Australia è diventata il maggior fornitore di energia del Giappone, fornendogli ferro, carbone e gas e il Giappone a sua volta ha fatto grandi investimenti nelle infrastrutture australiane, soprattutto le miniere, diventando il secondo investitore estero e il terzo partner commerciale dell’Australia. Il RAA, pur non costituendo un’alleanza vera e propria, rafforza la collaborazione fra i due paesi sul piano militare, garantendo ai due eserciti la possibilità di compiere esercitazioni comuni e di operare entro e intorno all’altro paese. E’ la prima volta che il Giappone stabilisce un accordo del genere con un partner diverso dagli Stati Uniti.

Il RAA si inserisce nella fitta rete di accordi che sotto i benevoli auspici degli Stati Uniti collegano vari paesi della regione fra loro e fino alle rive oceaniche dell’America Latina, sempre allo scopo di contrastare ogni tipo di rapporto – politico o economico – con la Cina. Ma quella che era una strategia di contenimento ha assunto però negli ultimi mesi un carattere diverso, di accerchiamento nettamente militare e in definitiva di aperta provocazione nei confronti della Cina.

La grande potenza asiatica ha risposto con la Shanghai Cooperation Organization, di cui si è data ampia relazione sul numero scorso di “Cumpanis”, e ha cercato di attrarre nella sua orbita le isole più esterne del Pacifico, le Salomone e le Kiribati. Nel maggio di quest’anno il ministro degli esteri cinese Wang Yi si è recato in visita nelle piccole isole della Melanesia e della Micronesia per cercare di inserirle in un blocco geopolitico a direzione cinese, sulla base di una più stretta cooperazione sia commerciale che in materia di sicurezza e di sicurezza informatica. Gli Stati Uniti hanno risposto inviando in luglio la vicepresidente Kamala Harris a un Forum delle isole del Pacifico, per reiterare l’impegno americano nella regione, e hanno lanciato la proposta di un IPEF, Indo Pacific Economic Framework: non si tratta di un tradizionale accordo di libero scambio, ma è un patto più agile ed elastico incentrato su quattro punti fondamentali: economia digitale, catene di approvvigionamento, energia verde, lotta alla corruzione, con dei risvolti che toccano il fisco, la crisi climatica e i diritti dei lavoratori. “Stiamo scrivendo le regole per l’economia del XXI secolo” ha proclamato Biden, che per la riuscita dell’iniziativa ha stanziato 850 milioni di dollari. Alla prima riunione hanno partecipato 13 paesi: USA, Giappone, India, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Tailandia, Vietnam, che tutti insieme rappresentano il 40% del PIL globale. Ogni paese potrà scegliere in quale area concludere accordi, senza doverne accettare in blocco tutti gli aspetti. Sono appena iniziate le trattative, che gli Stati Uniti sperano di poter concludere e arrivare alla ratifica da parte dei singoli Stati entro dodici o diciotto mesi.

Si tratta evidentemente di uno strumento politico per mantenere l’egemonia economica americana sulla regione dell’Indo-pacifico, isolando la Cina. Ma non sarà un compito facile, e la firma su qualche punto del Framework non costituirà una fedele e fiduciosa adesione alla politica degli Stati Uniti: le piccole isole della Polinesia e della Micronesia, dopo il voltafaccia di Trump, sono diventate diffidenti e inoltre si sentono ferite nel loro orgoglio, lamentando di non venir consultate e di essere sempre trattate come oggetti e non soggetti del gioco geopolitico internazionale. Su un piano più ampio, gli attuali reiterati sforzi per isolare la Cina non sembrano destinati al successo: essa è il maggior partner commerciale di 64 paesi, contro i 34 degli Stati Uniti, produce il 22% delle esportazioni globali senza le quali entrerebbero in crisi le maggiori industrie occidentali, in Europa e in America; senza dimenticare la fornitura di terre rare, di cui la Cina è il maggior produttore insieme con l’Africa. Se poi la Cina riuscisse a saldare un blocco con i BRICS – come sta perseguendo -  i tentativi di isolamento del Dragone potrebbero agire come un boomerang, isolando invece gli Stati Uniti e i suoi alleati.  


*Saggista, storica della Resistenza, traduttrice in Italia, tra l'altro, delle opere di Samir Amin e del filososo marxista ungherese István Mészáros. Nunzia Augeri fa parte della redazione nazionale di "Cumpanis"

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