Israele e il non secolarismo

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Israele e il non secolarismo

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L’aggressione di Hamas ad Israele ha portato ad una risposta furente e violenta come mai prima da parte di quest’ultima. Le operazioni di bombardamento che già in meno di un mese ha fatto tra i civili più di 8.000 vittime sembrano essere l’anticipo ad operazioni di terra che potrebbero essere le più violente di sempre. Ma la risposta israeliana così furente potrebbe spiegarsi, in parte, con un conservatorismo ebraico ortodosso o di un non secolarismo nella politica, in parte della popolazione e delle forze armate?

 

di Sandrino Luigi Marra*


All’aggressività di Hamas considerata una organizzazione terroristica fondamentalista (jihadista), Israele ha risposto con una violenza ed una aggressività mai messe in campo, nelle seppur varie operazioni tenutesi negli ultimi venti anni verso Gaza. Il diplomatico di origini italiane Vittorio Dan Segre sognava per Israele “un destino simile alla Svizzera”, mentre Shimon Peres voleva farne la “Hong Kong del medio oriente”. Dan Segre  ha terminato la sua vita pensando che “non sarà nulla di questo, piuttosto sarà un paese sempre più nazionalista e post-liberale in senso occidentale, un misto di Sparta, shtetl (insediamenti con alta percentuale di popolazione ebraica) e start-up. Non c’è mai stato nulla di simile nella storia ebraica”.

C’è da dire che c’è un solo paese occidentale secondo gli indici democratici, culturali, sociali economici e civili, che da molti anni va in controtendenza, e questo è Israele. Mentre in occidente in particolar modo in Europa vanno crollando due pilastri che antropologicamente reggono le civiltà ovvero fede e fertilità (credere in qualcosa ed avere un numero sufficienti di bambini per tenere in piedi la società) in Israele da almeno un ventennio in una progressione percentuale crescente la fede è sempre più preminente e la fertilità ha numeri ben superiore persino ai paesi islamici. I cambiamenti come accennato sono cominciati circa un ventennio fa, nel 2015 il presidente Reuven Rivlin ha definito Israele una società di quattro tribù suddivisi in ebrei laici o moderatamente religiosi che includevano la maggioranza dei fondatori del paese e costituito almeno fino al 2015 la maggioranza dell’élite politica, economica e culturale.

Poi vi è quella parte di popolazione o gruppo chiamato solitamente religioso nazionale o sionista religioso che combinano l’ebraismo ortodosso con l’impegno per la politica (o anche sionismo politico) e che oggi sono il nucleo del movimento dei coloni e corrispondono a circa il venti per cento della popolazione ebraica di Israele. Gli arabi israeliani ed infine gli Haredim, gli ultraortodossi che possono essere considerati lo zoccolo duro del fondamentalismo e conservatorismo religioso ebraico. Originariamente non sostenevano la creazione di Israele perché sostenevano che ciò doveva avvenire solo con l’arrivo del Messia. Mentre in passato erano poco integrati nella società israeliana, oggi le comunità Haredim sono tutte politicamente associate a partiti di destra e sempre più integrati. Il quarto gruppo è costituito invece dagli arabi israeliani.

Dal 2015 la strutturazione fatta da Rivlin ha avuto uno spostamento della popolazione tra i quattro settori. L’istruzione scolastica ne è un evidente esempio. Mentre nel 2015 il 55% degli studenti era iscritto alle scuole statali, chiamate mamlachti, oggi sono scesi al 39%. Le altre scuole che rientrano nel sistema educativo indipendente (previsto e simile alle nostre scuole paritarie) sono formate dalle scuole religiose statali, ovvero le mamlachti dati con gli iscritti in crescita al 14%; le scuole bibliche chinuch atzmai, letteralmente istruzione indipendente che accolgono giovani Haredim al 22%, queste insieme formano il 36% degli studenti di Israele a fronte delle le scuole arabe e  druse che formano il restante 25% degli studenti.

Ma il dato che maggiormente colpisce è che nel 1995, il 65% degli alunni ha frequentato le scuole statali (mamlachti). Dunque un calo preponderante a favore del sistema indipendente il quale in parte impronta l’educazione verso la tradizione religiosa ed un non secolarismo che vedremo più avanti. Ma cosa comporta, ci si può chiedere, tale orientamento educativo? Innanzitutto la percentuale di ufficiali religiosi nell’esercito è passata dal 2,5% del 1990 al 30% di oggi. Gli ebrei nazional-religiosi, che rappresentano il 10% della popolazione costituiscono il 40% degli ufficiali di fanteria, la maggior parte dei comandanti della brigata Golani sono ebrei religiosi e non si conoscono con precisione per l’insieme le percentuali dei militari di truppa e dei graduati, orientativamente simili agli ufficiali. Ma lo spostamento rispetto alla definizione di Rivlin è avvenuta anche dal punto di vista della fecondità: le famiglie ortodosse ed ultraortodosse hanno una media di sette figli, rispetto ai tre della popolazione generale e al circa due tra gli ebrei laici ed ai tre delle famiglie di fede musulmana. Secondo un recente studio dell’Israel Democracy Institute, il settore ortodosso costituisce il 20% della popolazione, il settore ultraortodosso il 13,5% e quest’ultimo salirà al 16% entro la fine di questo decennio. Già oggi gli ultraortodossi costituiscono un quarto di tutti gli alunni ebrei nelle scuole israeliane, l’istituto calcola poi che nel 2050, un israeliano su tre vestirà di nero.

 Ma è sufficiente guardare alla composizione del governo: il ministro degli Affari di Gerusalemme, ha dodici figli. Il ministro delle Missioni nazionali ne ha undici, il ministro delle Finanze ed il ministro dell’Immigrazione hanno sette figli per uno. I 64 membri della coalizione di Netanyahu hanno 313 figli, i 56 dell’opposizione 170, in media un parlamentare della maggioranza ha otto figli, l’opposizione inclusi i partiti arabi tre.

Da soli quattro membri della Knesset del governo Nethanyahu hanno insieme 46 figli, i 24 membri della Knesset di Yesh Atid il partito laico e centrista hanno in tutto 59 bambini, da solo Ysraeli Eichler membro della Knesset per il Partito “Ebraismo della Torah unito” di figli ne ha 14. La rapida crescita della popolazione ultraortodossa di Israele ha profonde conseguenze per il resto della società soprattutto per il delicato rapporto tra religione e laicità, con gli elettori ed i politici ultraortodossi sempre più orientati verso i nazionalisti ortodossi. Matti Friedman autore di origini ebraiche considerato uno tra i più importanti esperti di storia del Medio Oriente, sostiene  che l’ebraicità di Israele si è sviluppata in un ambiente di non separazione tra religione e stato, vita pubblica e religione sono intrecciate creando una contraddizione, rispetto a diversi degli stessi paesi musulmani che sono intorno e vicino Israele, dove la religione è staccata dallo stato stesso.

Per Friedman si tratta di una forma di non secolarismo “Israele fa parte del continuum del giudaismo nel mondo musulmano, insieme ai resti dell’ebraismo europeo e in quanto tale il paese non poggia sul secolarismo. Poggia su un fondamento dell’identità ebraica. I nuovi israeliani sono più conservatori che liberali, orgogliosi della loro eredità, di orientamento nazionalista e trovano qualsiasi cosa che sa di socialismo di stato ripugnante”. Concludendo forse si potrebbe pensare che il non secolarismo di Israele negli ultimi 20 anni abbia potuto prevalere in forme sempre più xenofobe di una parte dei membri della politica e della popolazione oltre che delle forze armate, tali da indurre ad una reazione molto aggressiva e violenta come non si era vista prima verso Gaza e la popolazione, disinteressandosi in parte dell’opinione sia interna che esterna, attraverso anche dichiarazioni che sembrano far apparire Israele ancor più violento e disumano di coloro che ne furono pochi decenni fa i carnefici della popolazione della diaspora ebraica.


*Università di Parma

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