Jenin, l'equidistanza dei "sempre buoni"
di Patrizia Cecconi,
Roma 6 giugno 2023
Un quarantenne pedofilo, ricco, atletico, palestrato è stato condannato per violenza dopo numerosi abusi su un bimbo di 4 anni. Condannato per violenza anche il bambino il quale, per difendersi, ha morso e graffiato a sangue il suo violentatore.
Una notizia simile porta a chiedersi se chi ha condannato il piccolo al pari del suo aggressore sia sano di mente, oppure se non sia un sostenitore del pedofilo al quale la condanna del bambino offre una sorta di attenuante o se, più semplicemente, la condanna “equidistante” non sia dettata dal timore di una querela per odio di classe, o magari di religione - che di questi tempi ci sta bene – da parte del ricco e potente pedofilo.
Se al posto del ricco violentatore poniamo il governo, o meglio i governi israeliani e l’esercito che devasta, uccide, arresta, terrorizza il popolo sotto occupazione eseguendo ordini criminali, e al posto del bambino poniamo la resistenza palestinese, resta da chiedersi come si fa a scrivere che “condanniamo l’ennesima operazione militare israeliana in Cisgiordania, nel campo profughi di Jenin, come condanniamo l’uso della violenza da parte palestinese” come si legge nell’appello promosso dalla Rete italiana pace e disarmo e firmato da molte associazioni, generalmente attente alle violenze quasi secolari subite dal popolo palestinese per mano del terrorismo, ebraico prima della proclamazione dello Stato di Israele, e del terrorismo israeliano dal 14 maggio del 1948.
Il documento, presentato da una testata on line come appello “contro la violenza e per la pace” è uno dei più fulgidi esempi di (supponiamo involontario) sostegno allo Stato di Israele che, se non si temesse la strumentalizzazione della verità, si potrebbe tranquillamente definire Stato canaglia secondo gli stessi parametri che hanno attribuito tale definizione ad altri Stati aggressori e violatori dei diritti umani e del diritto internazionale.
Entriamo nel merito del documento che, dopo l’incipit di condanna “equidistante”, ricorda “quanto sta accadendo in questi giorni a Jenin” dimenticando (forse?) che da gennaio ad oggi, quindi solo in questi ultimi sei mesi, Israele ha ucciso quasi 200 palestinesi, bambini compresi; ha bombardato e distrutto case, scuole, strade, ospedali; ha ferito circa 1.500 persone; ha arrestato migliaia di palestinesi senza altro motivo che quello di tacitare il loro diritto di rivendicare la libertà. Parliamo solo degli ultimi sei mesi, ma è sufficiente per porre Israele in concorrenza con quegli Stati totalitari ai quali, in nome del nostro essere democratici, chiediamo il rispetto dei diritti umani.
Da bravi italiani siamo abituati alle notizie di cronaca nera relative alle faide di mafia, camorra e simili che insanguinano le strade della nostra terra e non sarebbe molto carino sostenere che “poco conta” se le proporzioni di morti tra i clan malavitosi sono diverse, invece l’appello in esame scrive di “una sequela di vendette e di lutti che da decenni colpisce entrambe le popolazioni, anche se con proporzioni diverse, ma poco conta…” per proseguire con un generico richiamo alla necessità che la Comunità internazionale fermi questo stillicidio di vite riaffermando il diritto del popolo palestinese ad avere un proprio Stato sui confini del 5 giugno 1967. Si badi bene che quei confini (peraltro senza tener conto della necessità, probabilmente impossibile, di smantellare le illegali colonie che si sono appropriate di quasi tutti i Territori sotto occupazione) non sono quelli fissati dalla sbandierata e mai rispettata Risoluzione 181 che intendeva dividere la Palestina storica in due Stati (56% a Israele, 43,6% Palestina e 0,4% luoghi sacri sotto tutela internazionale) perché - e ci sembra importante ricordarlo - la citata Risoluzione ONU, avversata dagli arabi come tutti sanno, non è mai stata accolta da Israele, come invece in pochi sanno, e infatti Israele si è appropriato del 78% della Palestina storica lasciandone ai Palestinesi solo il 22% che poi, nel 1967, avrebbe militarmente occupato e gradualmente colonizzato nel più totale disprezzo del diritto internazionale.
I redattori e i firmatari dell’appello conoscono bene quanto appena precisato e quindi, ci chiediamo, perché tanto negligente pressappochismo?
Forse per sentirsi a posto con la propria coscienza era necessario appellarsi alla trita richiesta dei due popoli/due Stati come se il riconoscimento simbolico di uno Stato privo di sovranità statuale e conseguenti diritti fosse la soluzione del problema e la fine delle violenze? O forse perché questo, come scritto nell’appello, sarebbe “il miglior investimento anche per il popolo israeliano per uscire dal ricatto della sicurezza nazionale”?
E allora ecco la bella chiusa del documento con la richiesta a Parlamento e Governo italiani di “mandare un segnale di pacificazione dando corso al riconoscimento dello Stato di Palestina”.
Gli ultimi circa 200 martiri palestinesi - certamente violenti come il bimbo di 4 anni della metafora - chiedevano la fine dell’occupazione (illegale, ricordiamolo!) e il diritto del loro popolo all’autodeterminazione. Chiedevano il rispetto di un diritto riconosciuto e sostenuto dalla legalità internazionale e sono stati uccisi. Uccisi non perché terroristi come la volgarità dei media mainstream e dei nostri inviati televisivi (v. Gianniti) li definisce, ma perché si opponevano attivamente al giogo dell’occupazione militare, alla colonizzazione, all’apartheid e, quindi, al progetto Israeliano di annessione territoriale.
Nel corso di questi decenni i palestinesi che non si sono arresi e non hanno seguito le sirene dell’occidente hanno adottato diverse forme di lotta per rivendicare i loro vilipesi diritti. Hanno avuto la fase della lotta armata e sono stati schiacciati dalla potenza israeliana coadiuvata dalle complicità occidentali. Hanno avuto la fase della lotta nonviolenta e sono stati ugualmente sterminati. Stesse complicità occidentali, stesse connivenze mediatiche. Qualche voce istituzionale si è alzata, riabbassandosi subito dopo “un’ eroica” quanto inutile vibrata protesta. In tutto questo, i militari palestinesi non hanno voce in capitolo se non per arrestare i resistenti attivi collaborando (in nome dei famigerati accordi di Oslo) con la sicurezza israeliana.
Ma qualcosa sta cambiando, infatti tra i martiri, assassinati dagli israeliani, ultimamente sembra si annoveri anche qualche militare dell’Anp che ha capito da quale parte stare. Ci sarà emulazione? L’Anp prenderà una posizione attiva al di là delle denunce verbali? Il martire è un testimone, questo i palestinesi lo sanno e lo rivendicano, e i testimoni portano all’effetto domino. La storia ce lo insegna e Israele lo temeva e lo teme perché questo rallenta il suo progetto. Un progetto di cui solo chi è ingenuo o in malafede può limitarsi ad accusare soltanto il governo fascista attuale, perché è lo stesso progetto del socialista Ben Gurion o della socialista Golda Meir le cui mani grondano di sangue palestinese non meno di quelle dei fascisti Netanyahu o Smotrich o Ben Gvir. Il piano, strategico illegale e criminale, è quello dell’annessione di tutta la Palestina lasciando, tutt’al più, delle “riserve” in cui rinchiudere i palestinesi che non avranno lasciato la loro terra. Non sono nostre illazioni ma fatti comprovati dai documenti desecrati che formano l’ossatura di alcuni volumi dello storico ebreo israeliano Ilan Pappé.
Davanti a tutto ciò, che è solo una parziale sintesi della ben più drammatica realtà, suona – sebbene involontariamente – ingiurioso chiedere “pace giusta” attraverso la nonviolenza del popolo sotto occupazione militare e coloniale.
Citando Franz Fanon, che di colonialismo purtroppo se ne intendeva, nei momenti decisivi, quelli in cui il colonialismo sembra vacillare, si introduce la nozione della nonviolenza come pratica richiesta all’oppresso e non certo, ovviamente, all’oppressore. “La nonviolenza – scrive Fanon ne ‘I dannati della terra’ – è un tentativo di risolvere il problema coloniale attorno a un tappeto verde… ma se le masse, senza aspettare che le sedie siano disposte attorno al tappeto verde, non ascoltano più che la propria voce e cominciano gli attentati…” allora si vedono “i buoni amici” correre alla ricerca di un compromesso prendendo le distanze dalla violenza degli oppressi.
Concludiamo, mentre arrivano dalla Palestina – non certo attraverso i media mainstream – notizie di nuovi arbitrari arresti e sapendo che la lista dei martiri si allungherà. Concludiamo, dunque, riflettendo su un principio molto semplice, un principio al quale dovrebbe attenersi anche il giornalismo onesto, e cioè che la solidarietà autentica verso una comunità, un popolo, o uno Stato aggredito esige rispetto. Rispetto per il diritto di quel popolo all’autodeterminazione e, contemporaneamente, esige il riconoscimento della violenza originaria, perché è quella che va condannata, altrimenti non si fa informazione onesta ma servile, sia che si tratti di favorire il ricco pedofilo sia che ci si prostri a servizio di uno Stato canaglia.