La banalità dell'internazionalismo
di Thomas Fazi
Un giornalista mi ha chiesto se ritengo che la debolezza della sinistra odierna risieda nel fatto che il capitale globalizzato, in particolare quello finanziario, è stato molto più rapido ad internazionalizzarsi rispetto al movimento operaio e popolare dei paesi avanzati.
Condivido con voi la mia risposta poiché ritengo che sollevi una questione di cruciale importanza su cui si fa molta confusione:
«No, nel senso che era inevitabile che fosse così, nella misura in cui il capitale oggi è rappresentano soprattutto da uni e zeri su un computer che si spostano alla velocità della luce da un punto all’altro del mondo, mentre il lavoro è rappresentato da esseri umani in carne e ossa la cui vita è per definizione relativamente stanziale, cioè legata a un determinato territorio e a una specifica comunità. In questo senso mi fa sempre sorridere quando sento parlare di “internazionalizzazione delle lotte” e altri slogan simili. È ovvio che sia auspicabile un’interazione e una collaborazione tra i lavoratori di diversi paesi, ma quello di pensare che la risposta all’internazionalizzazione del capitale fosse “l’internazionalizzazione delle lotte” – o più banalmente “l’internazionalizzazione della democrazia” – ha rappresentato un abbaglio di portata storica per la sinistra occidentale. Pensare di poter competere con il capitale a livello internazionale è semplicemente assurdo, nella misura in cui questo presupporrebbe la costruzione di istituzioni politiche democratiche globali capaci di governare i processi capitalistici a livello, appunto, mondiale. Ma si tratta di una pia illusione. L’esempio dell’UE dimostra come sia impossibile costruire strumenti di controllo democratico anche solo a livello regionale, figurarsi a livello globale, e come anzi i processi di sovranazionalizzazione – o di mondializzazione che dir si voglia, con cui non intendiamo semplicemente l’internazionalizzazione dei processi produttivi ma la creazione di strutture, organismi e agenzie sovranazionali, di cui l’UE è l’esempio più lampante – abbiano avuto come obiettivo precisamente quello di scardinare le democrazie nazionali e dunque di ridurre la capacità dei cittadini di controllare e regolare il capitale. Il fatto che la sinistra, con poche eccezioni, abbia avallato – e continui ad avallare – questi processi in nome di un astratto “cosmopolitismo” rappresenta una delle grandi tragedie del nostro tempo. Bisogna dunque ripartire dall’ovvietà per cui il conflitto capitale-lavoro non è e non potrà mai essere uno scontro tra due “internazionalismi”, o meglio tra due globalismi, quello del capitale e quello del lavoro, ma assume inevitabilmente la forma di uno scontro tra la logica intrinsecamente globale dell’accumulazione capitalistica da un lato e la logica intrinsecamente territoriale del lavoro dall’altro. Per citare David Harvey, «il conflitto assume inevitabilmente la forma dello scontro fra flussi del capitale e luoghi dell’autoproduzione dei mondi vitali». È per questo che innumerevoli lotte sociali e di classe si combattono attorno alla formazione dei luoghi, i quali «sono i paesaggi dove si svolge la vita quotidiana, si stabiliscono i rapporti affettivi e le solidarietà sociali e dove si costruiscono le soggettività politiche e i significati simbolici». Da ciò ne consegue che l’obiezione più ricorrente al “sovranismo di sinistra” – ossia quella secondo cui, nel contesto dell’attuale sistema capitalistico globalizzato, qualunque tentativo di un singolo Stato di resistere alla logica capitalistica sarebbe velleitario – risulta del tutto infondata a mio avviso: al contrario, ancora oggi lo Stato nazionale è l’unico strumento capace di resistere all’illimitata estensione geografica del dominio capitalistico, non solo per il fatto di essere democratizzabile, a differenza delle istituzioni sovranazionali, ma anche per il fatto di essere espressione di una specifica comunità territoriale, e dunque di permettere ai vari popoli e alle varie comunità di resistere al dominio capitalistico secondo le proprie modalità e specificità. Questo non implica affatto l’abbandono di una prospettiva internazionalista, ma vuol dire avere ben chiara la distinzione tra cosmopolitismo di sinistra – cioè l’idea per cui la lotta di classe si rivela in ultima istanza lo strumento per realizzare il trionfo dell’individuo razionale universale, indipendentemente dalle sue radici culturali, storiche ecc. – e reale internazionalismo, che dovrebbe invece fondarsi sulla relazione fra comunità diverse che si riconoscono reciprocamente quali portatrici di forme di vita legittime».