La conflittualità valutaria e l’enigma del gas valutato in rubli

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La conflittualità valutaria e l’enigma del gas valutato in rubli

 

 

di Francesco Schettino

 

L'attualità più stringente ci induce a pensare che la questione valutaria sia di nuovo al centro dell'attenzione. Non è un caso che essa venga adoperata come arma all’interno di un conflitto esplicito e che sembri essere la reazione più forte e più evidente che il governo russo ha messo in piedi per contrastare le sanzioni che nel frattempo continuano a mutare forma e divenire sempre più coercitive nei confronti della Russia e del popolo russo. Se ne è parlato tanto però sembra opportuno specificare alcuni elementi innanzitutto semplificando all'osso la questione. È pertanto importante tornare un po’ indietro e cercare di delineare dal punto di vista concettuale che cosa è una valuta internazionale e perché appunto il governo russo abbia pensato di attuare una mossa del genere per agire da contrappeso alle sanzioni internazionali.

Innanzitutto, è importante districarci da quel nodo teorico perlopiù inventato dal mainstream - in altri termini la scuola liberale, conosciuta in dottrina come neoclassica o marginalista - per cui la moneta non possa influenzare le variabili reali come disoccupazione e reddito (il famoso “velo”). A livello capitalistico la moneta è una merce a tutti gli effetti disponendo di tutte le caratteristiche degli altri beni prodotti capitalisticamente e cioè di un valore d’uso, un valore di scambio. Solo le banche centrali hanno l’autorità per emetterle e dunque si può dire che esista un monopolio nella sua produzione.

Semplificando al massimo, dunque, quando si parla di due elementi fondamentali ossia delle riserve internazionali di valuta pregiata e al contempo della valutazione di alcune risorse, come per esempio il caso del gas - o potrebbe essere anche quello del petrolio -, in valute diverse si toccano questioni di un certo rilievo che vanno a far vacillare i gangli del sistema stesso. In sostanza, le riserve internazionali - che quasi tutte le banche centrali del mondo detengono - servono principalmente per tre ragioni 1) Acquistare merci straniere; 2) Agire da potenziale contrappeso (anche come deterrente) per eventuali ondate speculative al ribasso sulla valuta nazionale; 3) Onorare contratti (anche debiti) denominati in valuta pregiata straniera.

Gli accordi siglati dopo la fine Seconda guerra mondiale hanno imposto che il dollaro venisse considerato alla stregua di quello che precedentemente era stato l’oro, ossia la merce di riferimento per alcuni secoli per gli scambi internazionali. Ciò comportò nell’immediato che detenere nelle proprie banche centrali una quantità di dollari permetteva da una parte una maggiore tranquillità, dall’altra un potere d'acquisto significativo per lo stato che si trovava ad aver a disposizione questo importante strumento. Ciò avveniva poiché per acquistare quasi tutte le merci sul mercato internazionale era necessario avere, per quanto definito dagli accordi internazionali di Bretton Woods, proprio i dollari Usa. Questi, come è noto, in quanto merce, vengono prodotti esclusivamente dall'autorità monetaria statunitense ossia la Federal riserve che può emettere dollari quando lo reputa opportuno essendo de facto monopolista. È chiaro che aver indicato il dollaro come valuta pregiata per eccellenza è stata il risultato della vittoria degli Stati Uniti d'America sul terreno bellico, assumendo così uno strumento egemonico di portata straordinaria.

Tuttavia, già all'inizio degli anni 70 qualcosa è iniziato a vacillare in maniera preoccupante: infatti - già alle prese probabilmente con la stessa crisi i cui effetti hanno assunto forme molto diverse ma che si è protratta sino ad oggi - gli Stati Uniti d'America, proprio all’inizio del decennio, hanno dovuto ammettere di essere in difficoltà e per questo sospesero unilateralmente gli accordi di Bretton Woods. Probabilmente si erano resi conto di avere stampato sostanzialmente troppi dollari e di non aver adeguate riserve auree necessarie a garantirne la perfetta convertibilità. Alcuni anni dopo, in un quadro di fragilità così delineata, si è sviluppata soprattutto dopo la fine della esperienza sovietica l'idea di creare una valuta antagonista a livello mondiale. Ciò è avvenuto in ambito europeo e come sappiamo tutti ha preso la forma dell'euro. Questo tentativo di rappresentarsi come antagonista del dollaro da subito ha creato problemi esacerbando una conflittualità interna alla classe dominante già normalmente di rilievo, considerando le generalizzate difficoltà di accumulazione. Tale conflittualità fratricida, molto difficile da leggere negli anni, ma sempre presente, è emersa in tutta la forza quando tra il 2010 e il 2012 il capitale legato al dollaro, attraverso l'azione speculativa sul debito[1], inizialmente della Grecia, e poi di tutti i paesi del Sud dell'area monetaria euro, ha deciso di inginocchiare definitivamente il potenziale antagonista. Per diverse ragioni che non staremo qui a raccontare per motivi di spazio - è possibile rinvenire tutto su Schettino e Clementi (2022), Crisi, disuguaglianze e povertà, Edizioni La Città del Sole, Napoli - le istituzioni europee non hanno avuto la capacità di rispondere adeguatamente rintanandosi con molto ritardo e poca efficacia dietro il celeberrimo whatever it takes di Mario Draghi e il suo bazooka (da notare che la terminologia, non a caso, sia ripresa dal lessico bellico).

Per comprendere perché ci sia stata una necessità di alzare il livello del conflitto dollaroeuro, in quel periodo ritorna comodo ricordare che negli anni immediatamente precedenti o proprio in contemporanea due presidenti di paesi – produttori di materie prime – e che nella storia erano stati ampiamente foraggiati anche con armi proprio dagli Stati Uniti, facciamo riferimento a Saddam Hussein e a Mohammad Gheddafi, avevano proposto di prezzare il proprio petrolio in euro. Questo avrebbe coinciso con una necessità diffusa a livello mondiale di detenere la valuta unica europea e rendendo eccedente una parte significativa di dollari già presente nelle banche centrali mondiali. È presumibile che una parte significativa delle stesse sarebbe dunque tornata al mittente creando nell’immediato problemi di un certo livello all’economia Usa, soprattutto in termini di inflazione interna. Ma forse la cosa più importante sarebbe coincisa col fatto che il dollaro Usa avrebbe perso quel ruolo egemone che continuava ad assumere. Poi sappiamo bene che entrambi gli Stati sono stati colpiti da attacchi militari del tutto ingiustificati che ne hanno destabilizzato per decenni i rispettivi territori per cui quegli annunci non si sono mai tradotti in realtà.

Questa lunga premessa è di assoluta importanza per comprendere ciò che sta avvenendo in Russia oggi. Ciò che ha chiesto il governo locale, ossia di ricevere il pagamento del gas in rubli è un'operazione molto simile e non è un caso che avviene all'interno di uno scenario guerresco. Ciò imporrebbe a chi volesse acquistare questa fondamentale materia prima di procurarsi dei rubli. Per ottenere, in generale, valuta straniera bisogna procedere attraverso delle strade delineate: la prima è cambiare la propria valuta (o quelle pregiate, tipo dollaro, euro o yen) con quella di cui si necessita. Oppure si può procedere esportando merci al paese la cui banca centrale batte la moneta di cui si necessita o si agisce su mercati valutari terzi. Dunque, questa mossa è stata strategicamente pensata per sovvertire il segno di una delle sanzioni più importanti, ossia quella che ha bloccato le riserve internazionali della banca centrale russa detenute nei conti correnti stranieri, creando le condizioni per un nuovo afflusso, autonomo, di valuta pregiata nelle casse russe, necessaria per onorare prestiti contratti e acquistare merci straniere. Inoltre, questa misura potrebbe limitare la caduta libera del prezzo del Rublo, conferendole nuovamente un potere d’acquisto adeguato. Infine, è meno chiaro è il ruolo della Gazprombank – perplessità condivisa anche da Draghi dopo il colloquio con Putin – la cui intermediazione potrebbe tornar comodo al governo russo per evitare potenziali nuovi blocchi o sanzioni.

Dunque, ancora una volta la conflittualità interimperialistica si svolge sul terreno delle valute e mostra come la guerra UcrainoRussa possa nuovamente ascriversi a uno scontro per interposta persona dove a contrapporsi sono il capitale legato al dollaro con quello legato alle valute asiatiche (con in testa la Cina) che negli ultimi anni ha evidentemente messo in discussione il ruolo egemone degli Usa, volendo ormai, in maniera esplicita essere riconosciuta come locomotiva della fase attuale del modo di produzione capitalistico.

Sullo sfondo delle vicende analizzate in precedenza emerge che, per comprendere propriamente il concetto delle aree valutarie, nella fase attuale, è prioritario intendersi sul ruolo che il denaro assume al­l’in­terno del modo di produzione capitalistico. Questa precisazione teorica – che comunque non ha la pretesa di essere del tutto esaustiva – diviene ancor più urgente se si considera l’abuso che se ne fa e che, ovviamente, distorce e vela la sostanza del conflitto valutario in atto: non va dimenticato, a riguardo, che l’economia accademica basa le proprie fumose teorie sull’assunto che la moneta sia un “velo” e dunque un elemento inessenziale nella produzione di merci e, dunque, aggiungiamo noi, di valore e di plusvalore. Nulla di più falso.

L’enigma del “feticcio denaro” abbaglia l’occhio, cosicché il dominio del “metallo maledetto” appaia come pura pazzia, una pazzia – scrisse Marx nella prima stesura dei suoi manoscritti – che cresce dal processo economico stesso. Ma proprio codesta pazzia è quanto “appare” realmente, in tutta la sua inadeguatezza, alla coscienza popolare che “comprende perciò il denaro, nelle sue determinazioni, come arbitrarie invenzioni, introdotte convenzionalmente per comodità”. Non è per caso, allora, che accada che in base al senso comune (e non al buon senso!) “la coscienza degli uomini, particolarmente in situazioni sociali che tramontano, per un più profondo sviluppo dei rapporti di valore di scambio, si oppone alla potenza che una materia, una cosa, ottiene di fronte a loro, si oppone al dominio del metallo maledetto che appare come pura pazzia”. Ma questa, appunto, è l’illusione di un’epoca, la mera parvenza di una realtà le cui leggi di movimento sono altrove, nella produzione e circolazione di capitale e merci, di plusvalore.

È un periodo, questo, in cui il richiamo allarmistico alle “tempeste” monetarie e ad indefinite guerre valutarie è volutamente scisso, nell’illusione popolare, dalla crisi reale, che si pretende così di esorcizzare o racchiudere in ambiti unilaterali e particolaristici. In altri termini, non è fornita quella pregnante indicazione di “tempesta” di cui già Marx avvertiva i “monetaristi” della sua epoca, incapaci com’erano di vedere la specificità della funzione di capitale del denaro, ovverosia della forma di denaro del capitale medesimo. “Non si trattava più di fenomeni economici isolati, come il deprezzamento dei metalli preziosi nel XVI e XVII secolo, di cui si occupò Hume, o il deprezzamento della carta-moneta durante il XVIII e all’inizio del XIX secolo, di cui si interessò Ricardo – scriveva Marx a proposito di circolante e credito – ma delle grandi tempeste del mercato mondiale, in cui si scatena il conflitto di tutti gli elementi della produzione borghese”.

Gli errori e i limiti, scientifici e ideologici, dei monetaristi di allora – ma oggi non è sostanzialmente diverso – consistevano, appunto, nel non individuare la causa nel “conflitto di tutti gli elementi della produzione borghese”, e invece nel ricercare l’origine e i mezzi per fronteggiare la crisi “nella sfera più superficiale e astratta di questo processo, la sfera della circolazione monetaria”, estendendo i dogmi dell’economia politica borghese dalle leggi della circolazione metallica a quelle riguardanti il credito e la circolazione cartacea. La scuola di questi “meteorologi economici” – così li apostrofava Marx, senza offesa alcuna per i veri meteorologi – “giungeva quindi straordinariamente a proposito, poiché essa dava a una tautologia l’apparenza di un rapporto di causa a effetto. Una volta ammessa la trasformazione della tautologia in un rapporto di causa a effetto, tutto il resto procede facilmente”.

La concatenazione transnazionale che ha cambiato la configurazione della lotta interimperialistica, non più rigidamente suddivisa per prevalente appartenenza statuale, risulta nella richiesta di un’accresciuta capacità di penetrazione del capitale nel mercato mondiale. Perciò la predeterminazione di aree valutarie di riferimento supera in importanza la mera collocazione storica geografica dell’investimento; lo sviluppo preferenziale di alcune anziché altre piazze finanziarie trae da qui una spiegazione possibile.

Così oggi è più che mai evidente come tutto questo vada al di là della circolazione geografica puramente monetaria. Sarebbe perciò un grave errore ritenere, com’è diffuso costume, che gli elementi monetari e valutari siano soltanto una superfetazione, separata, delle strategie industriali produttive. Ma, da un lato, si pongono in risalto i caratteri di una disperata rincorsa dell’“economia reale” nell’attuale nuova divisione internazionale del lavoro – ovverosia, filiere di produzione, dislocazioni, esternalizzazioni, subfornitura a scala mondiale, “corridoi” euroasiatici e altro, “vantaggio competitivo”, centralizzazione e trasformazione degli assetti proprietari internazionali, con rovesciamento del ruolo tra organismi sovrastatuali e stati nazionali, privatizzazioni se reputate efficaci, ecc. D’altro lato, si evidenziano quelli di un’“economia monetaria” che cerca di procedere alla ridefinizione egemonica delle suddette aree valutarie di riferimento significativo per il mercato mondiale “unificato”.

La tematica delle aree valutarie si pone per individuare nel dettaglio quali elementi di costo siano espressi in dollari e quali in euro (e in renmimbi) e in quale valuta quindi si presentino in divenire anche i prezzi di vendita. Da quanto precede si possono dedurre alcuni argomenti chiave. La struttura attuale dei costi di produzione (soprattutto, ma anche, in subordine, dei costi di circolazione) delle varie catene, o cordate delle filiere, nelle diverse aree valutarie, piuttosto che nelle zone o sfere di influenza dei contrapposti poli, include l’effetto valutario di riferimento nelle fatturazioni, implica la riorganizzazione, centralizzazione più decentramento, del sistema produttivo industriale su scala mondiale, con conseguente ricomposizione internazionale di tutto il lavoro dipendente. Per tal via, si afferma l’ideologia del neo­corpora­tivismo quale forma suprema di controllo mondiale e repressione del conflitto.

In altri termini, continuare a riferirsi soltanto alla separatezza e contrapposizione dei “poli” imperialistici, in quanto tali, può trarre in inganno. Le “aree valutarie” invece – pur muovendo da una sede fisica ben individuabile, e tutt’al­tro che “deterritorializzata”, alla quale corrisponde necessariamente la strategia politica economica di egemonia sul mondo – attraversano l’intero mercato mon­diale. Così, attualmente, una grande impresa transnazionale la quale, magari dopo una fusione, operi contemporaneamente nei tre “continenti” imperialistici, può ancora decidere su quale valuta fare aggio. In questo senso è più adeguato al concetto di imperialismo transnazionale – proprio in quanto acquisizioni, fusioni e investimenti all’estero delle imprese medesime – ciò che, da un lato, permane nelle strutture produttive esistenti nelle diverse dislocazioni o in nuove installazioni, e, dall’altro, sposta la propria gravitazione nell’area valutaria (valuta di riferimento per costi e prezzi) più favorevole, indipendentemente dalla localizzazione territoriale.

Le aree valutarie, dunque, non riguardano la spesa di reddito (per quanto enorme possa essere) ma il pagamento in conto capitale (ossia gli investimenti per dominare il mondo): in altri termini agiscono su un piano ben distinto dalla domanda aggregata.

La produzione su scala mondiale implica un superamento logico e reale da parte soprattutto dei capitali più grandi. A ciò corrisponde che anche la circolazione della merce prodotta debba soddisfare le esigenze paganti (investimenti più consumi) di quanti possano disporre della valuta richiesta. L’insieme di simili circostanze transnazionali fa sì, allora, che l’effettivo controllo dei capitali (operanti o anche speculativi) non dipenda più dal “luogo” in cui il particolare capitale risiede e da cui promana nelle “molte” nazioni, com’era nella classica fase nazionale statuale dell’imperialismo, ma conduca a trasferire il reale potere degli stati dominanti all’esito della supremazia nel conflitto tra le valute, di cui ciascuna aerea di riferimento mondiale è in ultima analisi messa nelle mani delle banche centrali, delle borse e dei governi di quegli stati nazionali imperialistici i quali ridefiniscono in questa maniera il loro specifico ruolo. L’attenzione portata sull’effetto valutario delle differenze possibili di costi e prezzi è tale da verificare i propri effetti direttamente sul tasso di profitto (non sul plusvalore prodotto). È per questo che attraversa indistintamente circolazione e produzione, ma in maniera tale che la riduzione dei costi di circolazione (false spese – faux frais – di produzione) possa risultare indirettamente determinante anche per le strategie produttive.

Di qui, l’attuale rilevanza transitoria dell’attenzione capitalistica rivolta all’economia fatta anche nella sfera della circolazione: sia attraverso quella definibile “ordinaria”, sia mediante la circolazione, per così, dire “forzata” (in realtà, produzione vera e propria poiché coinvolge la subfornitura), imperniata sullo scambio ineguale con i paesi dominati (attraverso la ripartizione dispotica – saccheggio o rapina – del plusvalore mondiale, che è pressoché dato, statico o insufficientemente dinamico).  

Sicché, un vantaggio dal lato dei costi si ha per effetto delle minori spese (vere o “false”) di produzione; ossia, tanto quelle inerenti propriamente alla (sub)­produzione, quanto quelle che incidono attraverso la circolazione. Dunque, l’allargamento della scala di attività del capitale non influisce solo sui costi di circolazione propriamente detti, ma si estende all’economia concernente tutti i costi d’impresa [quelli relativi a subfornitura e esternalizzazione, agli albori del capitalismo, nei vari angoli del mondo via via conquistati a questo modo della produzione sociale, coincidevano con l’azione dei capitalisti detti “compradores”]. La capacità d’influenza transnazionale di ogni moneta (dollaro in testa) è dunque legata al controllo delle aree valutarie di riferimento. Come si fa a trasferire la ricchezza prodotta altrove? Pagando i costi di produzione a livelli più bassi, a esempio nelle valute locali, e vendendo a prezzi più alti (la qual cosa, del resto, è regolarmente avvenuta nella storia del capitalismo).

Codesta riduzione dei costi complessivi, se avviene solo sul versante della circolazione, è di puro trasferimento, e non genera un aumento netto di valore e di plusvalore prodotto. In altri termini – quando ci si riferisce unicamente al tasso di profitto, la cui ciclica caduta critica è ciò che i capitalisti intendono contrastare – un simile effetto non agisce affatto sull’aumento del numeratore del rapporto che definisce quel tasso, bensì è solo in grado di comprimere il capitale anticipato come misura posta al denominatore, attraverso la diminuzione di tutti i costi indistintamente. Vi è quindi un limite “negativo”, il quale può essere significativamente allentato, comprimendo i costi che lo contengono, ma ciò comunque si scontra, appunto, con quel limite stesso. Perciò, finché non si allarga in “positivo” il plusvalore al numeratore – ovvero, finché non riprende la vera e propria accumulazione di capitale su scala mondiale – tutta questa azione dal lato dei costi può rappresentare solo un palliativo.

In questo senso va riservata importanza strategica alla scelta dei piani di produzione da parte delle grandi holding finanziarie, per ciascun settore o meglio filiera. Tale strategia è infatti inerente sia alla dislocazione dei costi (di produzione, subfornitura soprattutto, ma anche circolazione vera e propria) nei diversi paesi dominati, sia dei prezzi di vendita, a seconda dell’area valutaria cui ciascun paese fa il proprio principale riferimento. Sicché, per esaminare debitamente il bilancio – ovviamente consolidato – di tali holding, occorre prestare la massima attenzione alla composizione dei costi e alla definizione dei prezzi [la “catena del valore”, direbbe Porter (docente di economia presso la Harvard business school e direttore dell’Institute for strategy and competitiveness], per valutare complessivamente il loro operare. È qui perciò che subentra la questione dei costi: se siano pagati in valute locali meno pregiate, rispetto ai prezzi finali di vendita, ancora prevalentemente fatturati in dollari, per cui la differenza che sorge dall’incidenza delle diverse aree valutarie si trasforma in maggiori (o minori) profitti.

La presentazione mediatica del conflitto valutario come mera questione di prezzo delle monete – riconducibile a “semplici” giuochi sul tasso di cambio –  è utile, per la classe dominante, dunque, solo a celare la sostanziale conflittualità tra fratelli nemici che, nella presente fase, si sviluppa nella lotta finalizzata ad inglobare all’interno della propria area valutaria il maggior numero di paesi dominati, con lo scopo di contrastare la naturale compressione dei saggi di profitto, agendo sulla struttura dei costi delle holding finanziarie dei paesi dominanti in rapporto con i prezzi finali di vendita: ciò, quindi, alterando solo accidentalmente la massa di neovalore prodotta, specie in una fase acuta di crisi come quella attuale, va a danneggiare simmetricamente le possibilità di accumulazione degli altri capitali in situazione altrettanto asfittica.

 

[1] Vedi anche Schettino (2010), Metti una sera a Manhattan, La Contraddizione, no.131.

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