La dottrina Brzezinski e le (vere) origini della guerra russo-ucraina - Intervista a Salvatore Minolfi

La dottrina Brzezinski e le (vere) origini della guerra russo-ucraina - Intervista a Salvatore Minolfi

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di Francesco Santoianni

Pubblicato dall’Istituto italiano per gli studi filosofici e presentato in una davvero affollata serata trasformatasi in una appassionata assemblea (con interventi di de Magistris, Santoro, Basile…) il libro di Salvatore Minolfi  “Le origini della guerra russo-ucraina”. Un libro basato anche su documenti diplomatici, quest’anno resi pubblici da Wikileaks e che attestano come la guerra, lungi dal nascere da “mire imperiali di Putin” (come sbandierato dai media mainstream e da qualche “anima bella” della “sinistra”) è la inevitabile conseguenza, in primis, di un accerchiamento della Russia, mirante ad impossessarsi delle sue risorse, e, poi, dall’esigenza di sottomettere una Unione europea “colpevole” di commerciare con partner ostili agli USA.

Di questo e di altro abbiamo parlato con l’autore del libro.

 

Poco prima di quel fatidico 24 febbraio 2022, davanti al protrarsi (avrebbe dovuto concludersi il 20 febbraio) dell’esercitazione militare congiunta Russia-Bielorussia ai confini con l’Ucraina, da una parte la CIA e alcuni organi di stampa davano come imminente una invasione russa, dall’altra il governo di Kiev e parte del governo USA smentivano questa ipotesi. Perché questa strana situazione?

 

<<Sulle circostanze in cui prende forma l’invasione russa dell’Ucraina circolano le più diverse e contraddittorie ricostruzioni. Ad esse si aggiungono sempre nuove rivelazioni sulla presenza e sulla consistenza di gruppi militari stranieri in Ucraina sin dall’inizio della guerra o addirittura prima. La verità è che, allo stato delle attuali conoscenze, mancano gli elementi per ricostruire in modo documentato ed attendibile il contesto in cui il conflitto esplode ufficialmente. Inoltre, nessuno dei protagonisti in gioco può essere caratterizzato in modo chiaro ed inequivocabile, poiché differenze di percezione e di approccio hanno attraversato i diversi soggetti coinvolti: pensiamo, in particolar modo, al presidente Zelensky che tra il maggio 2019 (anno della sua elezione) e il febbraio 2022 capovolge completamente le proprie posizioni e il proprio orientamento sulla questione dei rapporti con la Russia ed il futuro della regione del Donbass.

Ciò nondimeno, è abbastanza chiaro che il percorso verso la guerra inizia nel febbraio del 2021 (dunque, un anno prima), con l’arresto dei rappresentanti dell’opposizione a Kyiv, la chiusura dei canali televisivi anti- governativi e un generale restringimento dei margini di agibilità politica in Ucraina. Nel frattempo, la neo-eletta Amministrazione Biden non fa mistero della propria volontà di dare un rilievo centrale al proprio orientamento anti-russo: in un modo irrituale e senza precedenti nella storia diplomatica, Biden, nel corso di un’intervista, definisce Putin “un killer”. Non era mai successo, neanche nelle fasi più acute della guerra fredda. Pochi giorni dopo, sempre nel marzo del 2021, cinque mesi prima del caotico ritiro dall’Afghanistan, il presidente americano insedia ai vertici della CIA William Burns, un ex-diplomatico di carriera, ex- ambasciatore in Russia e profondo conoscitore della lingua e della politica russa: una scelta piuttosto curiosa per una superpotenza che ha deciso di svincolarsi dal ventennale impegno nella “Global War on Terror” in Medio Oriente, per concentrarsi sulla priorità strategica assegnata al confronto con la Cina nel Pacifico occidentale.

È in relazione a questi segnali inequivocabili che si dispiega l’iniziativa di “diplomazia coercitiva” da parte della Russia, con l’avvio delle esercitazioni militari e l’ammassamento delle truppe ai confini dell’Ucraina. Decisione che non porta a nulla: Mosca colleziona una lunga serie di rifiuti e di ostentata indisponibilità al dialogo e al negoziato. Dinanzi alla proposta di trattato, Antony Blinken risponde pubblicamente e seccamente: “There is no change, there will be no change”. È come sbattere la porta in faccia a Putin.

 Infine, è proprio in questo contesto che tra il 18 e il 20 febbraio 2022 – cioè pochi giorni prima dell’avvio della cosiddetta “Operazione Militare Speciale”, le violazioni della tregua sulla linea di confine che delimita il territorio dei separatisti passano da circa 60 a circa 2000 episodi al giorno.

Al riguardo, i rapporti della “Special Monitoring Mission to Ukraine” dell’OSCE sono chiari ed inequivocabili: le iniziative di violazione della tregua partono dal versante ucraino della linea di confine. Non sappiamo se Zelensky ne fosse o meno a conoscenza: ma i suoi comandanti sul campo stavano avviando l’escalation.>>

 

 

Da quando l’Ucraina era stata scelta dagli USA come testa di ariete contro la Russia?

 

<<L’idea di includere l’Ucraina nel progetto di allargamento della NATO affiora a più riprese nella seconda metà degli anni Novanta, ma non viene mai esplicitamente dichiarata. Nel più importante e documentato studio sull’argomento (il libro di Mary Elise Sarotte “Not One Inch”) si afferma che, in quel periodo, la sola idea di dare le garanzie dell’articolo 5 alla più grande ex-repubblica sovietica faceva impallidire anche i più convinti assertori della politica di allargamento. Di conseguenza, per l’intero decennio, non se ne fa nulla (ad eccezione della “Charter on a Distinctive Partnership between NATO and Ukraine” del 1997).

È tra il 2003 e il 2004 che accadono due cose importanti. La prima è che l’Ucraina decide di associarsi alla cosiddetta “Nuova Europa”, quel gruppo di paesi dell’Europa centro-orientale che prendono parte all’invasione americana dell’Irak attraverso la cosiddetta “Coalition of the willing”, proprio mentre Francia e Germania manifestano pubblicamente la loro opposizione, determinando una frattura politica senza precedenti nella storia dell’Alleanza Atlantica.   

L’anno successivo, nel mentre si verifica una nuova tornata nell’allargamento della NATO (con l’ingresso di altri quattro paesi dell’ex Patto di Varsavia e delle tre ex-repubbliche sovietiche di Estonia, Lettonia e Lituania) prende avvio la cosiddetta “rivoluzione arancione” in Ucraina, che porta al governo di Kyiv delle forze politiche intenzionate ad abbandonare la neutralità del paese per spingerlo in una relazione organica con l’Occidente (Unione Europea e NATO). Francia e Germania restano fortemente ostili, cosicché, quando nell’aprile del 2008, al Vertice Atlantico di Bucarest, gli Stati Uniti impongono una forzatura e chiedono formalmente il varo di un “Membership Action Plan” per l’Ucraina e per la Georgia, sono proprio quei due paesi della “Vecchia Europa” a porre il veto. Ma la frittata è ormai fatta. La nuova Russia di Putin, messa in allarme, risponde a tono ed alla prima crisi, pochi mesi dopo, usa la forza militare in una breve guerra contro la Georgia.

Mentre la prospettiva atlantica entra in una lunga fase di stallo, è l’Europa a prendere l’iniziativa, elaborando un “Accordo di Associazione” con l’Ucraina, pensato però come alternativa ad un vero e proprio ingresso del paese nell’Unione Europea (per il quale, come nel caso della NATO, non c’è il necessario consenso). Il problema è che – pur non prefigurando la prospettiva della membership – la bozza di Accordo viene escogitata (dal polacco Radek Sikorski e dallo svedese Carl Bildt) in termini giuridicamente così precisi, dettagliati e vincolanti da costituire un ostacolo effettivo ad ogni ulteriore prosecuzione delle normali relazioni economiche e politiche che l’Ucraina intrattiene con la Russia, la quale a sua volta aspira a coinvolgere Kyiv nel suo nascente progetto di Unione Economica Eurasiatica. L’Ucraina – un paese notoriamente composito dal punto di vista demografico, etno-culturale e socio-politico – viene irragionevolmente posta dinanzi a un bivio, ad un aut aut, destinato a generare una prevedibile lacerazione sociale. I negoziati vanno avanti per anni, ma quando, alla scadenza concordata, Yanukovych si rifiuta di firmare, le proteste di piazza innescano un periodo di disordini che dura circa tre mesi e culmina prima in un torbido massacro e poi in un colpo di stato che destituisce il presidente.

 La Russia reagisce annettendosi la Crimea, mentre le spinte secessioniste mobilitano le regioni orientali del paese. Nel giro di poche settimane, l’Ucraina scivola in una guerra civile che i nuovi dirigenti a Kyiv non vogliono neanche riconoscere come tale, preferendo trattare gli insorti come “terroristi”. Tra alti e bassi, la guerra civile dura otto anni e fa migliaia di vittime. È nel corso di questi anni che Washington, per aggirare le riserve e le cautele dei principali partners europei ed atlantici, costruisce una relazione diretta con Kyiv e si impegna in una ristrutturazione radicale delle forze armate ucraine.>>

 

Secondo alcuni commentatori Putin, fino al 17 dicembre 2021 (quando consegnò agli USA e alla NATO la bozza di “Accordo sulle misure per garantire la sicurezza della Federazione Russa e degli Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) aveva fatto ben poco per difendere gli accordi di Minsk e la conseguente autonomia delle popolazioni del Donbass, quasi aspettasse il momento opportuno per una guerra. Qual è la sua opinione?

 

<<Il fatto che, nel corso di otto anni di guerra civile, Putin non abbia mai riconosciuto ufficialmente l’indipendenza delle autoproclamate repubbliche del Donbass, né tanto meno si sia proposto di annetterle (in una fase in cui l’operazione sarebbe stata relativamente facile), è un elemento che toglie fondamento alla tesi secondo la quale esisteva sin dal principio della crisi un progetto imperialista e annessionista russo. Il problema è che la soluzione prefigurata dagli accordi di Minsk richiedeva il consenso attivo da parte del governo di Kyiv, sul quale ricadeva di fatto l’onere dell’implementazione effettiva degli impegni sottoscritti: una riforma costituzionale che riconoscesse margini di autonomia alla regione del Donbass non la potevano di certo fare a Mosca. Era un compito del governo ucraino. Oggi sappiamo – grazie alle tardive ‘confessioni’ pubbliche di Poroshenko, di Merkel e di Hollande – che gli accordi di Minsk erano stati sottoscritti solo con l’intenzione di prendere tempo e dare all’Ucraina l’opportunità di rafforzarsi militarmente. In breve, l’attività di mediazione degli europei era parallela e complementare a quella svolta dagli Stati Uniti nella ristrutturazione dello strumento militare ucraino.>>

 

Il ruolo della Germania nella contesa Ucraina-Russia ha avuto delle modifiche negli ultimi anni?

 

<<Indipendentemente dagli esiti finali della guerra – che nessuno di noi è in grado di anticipare – possiamo già dire con certezza che la Germania è la grande sconfitta. Il modo in cui si era realizzata la riunificazione tedesca, dopo la fine della guerra fredda, implicava la riconferma della subalternità della Germania alla guida americana e la rinuncia a qualsiasi ruolo autonomo dell’Unione Europea. In questo quadro, l’elaborazione dell’interesse nazionale tedesco ha continuato a svilupparsi unicamente sul piano del primato economico, nella convinzione che il successo industriale e commerciale sarebbe stato sempre percepito come “neutro” sotto il profilo strategico e, dunque, tollerato.

Le cose sono andate diversamente. La costruzione di una potente industria che ha accumulato per vent’anni ingenti surplus commerciali è avvenuta innanzitutto a danno dei partners europei, cui è stata imposta una politica di austerity e di deflazione salariale indispensabile per sostenere i vantaggi comparati di una potenza esportatrice, ma disastrosa per lo sviluppo interno dei paesi dell’Unione. Inoltre, nella costruzione del modello tedesco, la relazione con Mosca diventa essenziale, poiché l’enorme dotazione energetica della Russia le consente di alimentare lo sviluppo tedesco a costi estremamente convenienti. Fino ad un certo punto, il gas russo arrivava in Germania attraverso le pipelines polacche ed ucraine. Poi la relazione russo-tedesca è diventata così essenziale da spingere il governo di Berlino a progettare la costruzione del Nord Stream. Non era solo una questione di aumentare la quantità di gas importato: aggirando Polonia ed Ucraina, la Germania ha provato a salvaguardare la relazione russo-tedesca dal possibile condizionamento che giurisdizioni politiche tendenzialmente anti-russe (ma anche anti-tedesche) avrebbero potuto esercitare sul transito delle risorse energetiche. Il progetto “Nord Stream” si caratterizzava come un modello di “disintermediazione”, in grado di tutelare la relazione bilaterale tra Berlino e Mosca, mettendola al riparo dalle dinamiche e dalle tensioni geopolitiche interne all’area atlantica. E sintomaticamente, quando viene varato, il ministro degli esteri polacco, Radek Sikorski, lo definisce il nuovo “Patto Molotov-Ribbentrop”.

Fermiamoci e proviamo a riflettere sull’enormità di quest’accusa: siamo nell’aprile del 2006, la Polonia è entrata nell’Unione Europea giusto due anni prima (mentre è nella NATO dal 1999) con un PIL sostanzialmente simile a quello della Grecia; e cosa fa? Prende di petto la potenza dominante dell’Europa che l’ha appena accolta, facendo carta straccia della retorica dominante nell’Unione, quella che la rappresenta come un giardino kantiano che si è lasciato alle spalle secoli di “power politics”. C’è un solo modo di spiegare questo enigma: la voce di Sikorski è la voce di Washington. Tant’è che a chi lo rimprovera di essere il cavallo di Troia degli Stati Uniti nell’Unione Europea, lui ribatte che la Germania lo è della Russia. L’assenza di adeguate risposte istituzionali – o anche solo tedesche – all’enormità delle accuse è la prova che già nel 2006 l’Unione Europea è un campo di battaglia nel quale gli americani entrano ed escono a loro piacimento. La UE come soggetto strategico si rivela semplicemente inesistente.

Nonostante l’avvertimento, la Germania fa finta di nulla. Sta zitta, incassa e continua a coltivare i suoi affari, ancora convinta che la commercializzazione della politica estera la renderà immune all’incipiente competizione strategica. La tempesta sta per arrivare, ma i tedeschi neanche se ne accorgono. In effetti, cosa fa la Germania dopo lo scoppio di Euromaidan? Dopo il colpo di Stato a Kyiv? Dopo l’annessione russa della Crimea? Dopo il varo delle sanzioni occidentali alla Russia? Raddoppia! Progetta e vara il “Nord Stream II”. La presunta confessione di Merkel alla fine del 2022 equivale ad una penosa ed insostenibile finzione.

Per quale ragione gli Stati Uniti decidono di punire la Germania? Perché oltre a fare affari con la Russia di Putin – un paese che in piena epoca unipolare intende conservare l’indipendenza strategica – la Germania inizia una lucrosa e promettente relazione industriale e commerciale con la Cina: dinanzi allo sguardo degli strateghi di Washington si dispiega l’incubo mackinderiano di un’Eurasia potente, ricca, interconnessa e sostanzialmente autonoma, che sul lungo periodo potrebbe anche emanciparsi dal potere talassocratico degli Stati Uniti.

Cosa accadrebbe, infatti, se sul lungo periodo i nuovi investimenti infrastrutturali e nuovi sistemi di trasporto ferroviario lungo tre differenti assi di sviluppo attraverso l’Eurasia, marginalizzassero le rotte marittime storicamente presidiate dalle flotte oceaniche di Washington? Ma se le cose stanno realmente prendendo questa piega, possono mai gli Stati Uniti restare immobili e contemplare lo svuotamento tendenziale del loro potere? È semplicemente impensabile. Per reagire, tuttavia, devono costruire una narrativa in grado di legittimare il ritorno di una guerra in Europa, che sia capace di spezzare nuovamente la continuità del supercontinente. E cosa fanno? Riabilitano l’immagine, storiograficamente potente, di un’Europa orientale vittima geopolitica della relazione privilegiata tra i due colossi (russo e tedesco), con  tutto quello che le memorie del Novecento significavano. In breve, per semplificare: la “Nuova Europa” (inventata da Rumsfeld) può contare sugli Stati Uniti per sconfiggere il nuovo “Patto Molotov-Ribbentrop”.>>

 

Fino a che punto la dottrina Brzezinski ha orientato la politica USA nei confronti dell’Ucraina?

 

<<Ci sono due binari paralleli. Brzezinski è il pensatore geopolitico più consapevole e più continuo della storia americana successiva all’esperienza in Vietnam. Il suo percorso incrocia, senza mai confondersi, lo sviluppo di una nuova generazione che – dopo la fine della guerra fredda – è realmente convinta del fatto che nella storia mondiale si stia producendo una discontinuità epocale, tale da consentire una ridefinizione del ruolo americano nel mondo in chiave pacifistico-imperiale. È ormai tale la distanza tra gli Stati Uniti e le altre potenze, che molti si convincono della possibilità dell’avvento di impero veramente mondiale, nel quale, in cambio della pace, tutti i paesi, anche quelli più potenti, rinunceranno alla competizione strategica, affidando agli Stati Uniti la tutela dell’ordine mondiale. Brzezinski non si fa mai contagiare da simili fantasie millenaristiche. Vuole la stessa cosa, ma sa che può essere solo il frutto di una paziente tessitura strategica.

Poiché negli anni Novanta la Cina è ancora un innocuo paese in via di sviluppo, l’unico compito americano è quello di cancellare per sempre l’indipendenza strategica della Russia post-sovietica: un compito assolutamente alla portata, vista la quasi disintegrazione del paese negli anni di Yeltsin. A quella virtuale disintegrazione (un “buco nero”, nelle sue parole) Brzezinski sa di aver fornito un memorabile contributo, con la costruzione della trappola afghana. Ma il personaggio è di origini polacche e l’ostilità anti-russa è talmente inestinguibile da tingersi di venture metafisiche. L’ossessione brzezinskiana per l’Ucraina (ne “La grande scacchiera” la cita 112 volte) nasce in relazione a questo compito: senza l’Ucraina non esiste più l’impero russo, neanche sul piano potenziale.>>

 

Un capitolo del tuo libro è intitolato “La fissione: logica dello Stato e logica del capitale”. Puoi dire qualcosa a riguardo?

 

<<La guerra russo-ucraina ha generato, prevedibilmente, un dibattito assai aspro, anche in ampi settori delle culture politiche anti-imperialistiche. Per brevità – e a rischio di semplificare eccessivamente – possiamo dire che la Russia di Putin ha cercato e realizzato, nei suoi primi anni di governo, una forte integrazione nella struttura internazionale del sistema capitalistico e, in modo particolare, nelle reti della finanza globale. D’altra parte è proprio questo elemento di novità a rendere insostenibile la pura e semplice riproduzione dello schema analitico della guerra fredda. Dalla constatazione di questa nuova realtà, molti sono stati indotti a interpretare l’invasione russa dell’Ucraina come un’aggressione imperialista, connotata dai peculiari caratteri del capitalismo politico della Russia putiniana. Il ciclo di accumulazione capitalistica realizzatosi, grosso modo, nel primo decennio del sistema putiniano, avrebbe generato un surplus di capitali la cui valorizzazione richiedeva la loro esportazione in aree di investimento, come l’Ucraina, inaccessibili senza il concorso del potere dello Stato, poiché esposte simultaneamente alla competizione di un potente capitalismo liberale transnazionale e alla resistenza delle classi medie professionali tendenzialmente liberali e votate ad un’integrazione con l’Occidente.

In questo quadro, l’Ucraina – oltre ad essere ostaggio di un’oligarchia interna della rendita – sarebbe diventata vittima della competizione tra due capitalismi esterni, quello transnazionale liberale e quello politico della Russia putiniana.

Nonostante i suoi indiscutibili elementi di pregio, questo dibattito si è avvitato sulle contraddizioni, ancora irrisolte, generate dal confronto con la realtà ed i suoi sviluppi: innanzitutto sulla natura del bonapartismo russo, sui caratteri e sui margini effettivi della sua relativa autonomia dalla struttura sociale che lo ha generato. Chi è Putin? Da dove deriva il suo potere? Di quale logica è il garante? L’inizio della crisi – cioè l’annessione russa della Crimea, nel 2014 – ha comportato la perdita significativa di capitali e mercati di esportazione, nonché di investimenti all’estero, una minore cooperazione con le società transnazionali e sanzioni personali contro molti rappresentanti di spicco del capitale russo. Otto anni dopo, la guerra del 2022 ha aggravato ad un livello inimmaginabile quella condizione. In breve, nella “lettura anti-imperialista” dovremmo mettere in scena un sistema di potere che per affermarsi deve frantumare il blocco-sociale sui cui si regge e segare il ramo su cui si siede. Credo sia un po’ troppo. Abbiamo dei fatti, ma non ancora una teoria in grado di spiegarli. Alternativamente (e ragionevolmente) che cosa possiamo dedurne, almeno per il momento? La sfida geopolitica ingaggiata in Ucraina indica che, posto dinanzi a un bivio, il Cremlino antepone, almeno nell’immediato, la logica dello Stato e della sua razionalità strategica a quella del grande capitale: una realtà che mal si concilia con la tesi secondo la quale il potere dello Stato russo non è fine a sé stesso, ma un mezzo per gestire il capitalismo russo post-sovietico e integrarlo nel sistema capitalistico globale.

Oggi non sappiamo ancora come risolvere l’enigma della scissione tra la logica dello Stato e quella del capitale. In realtà non sappiamo neanche se l’unitarietà del sistema capitalistico globale uscirà intatta dalla crisi che stiamo attraversando. Se dovesse rompersi, buona parte delle nostre categorie d’analisi diventerebbero improvvisamente inutilizzabili. Che senso avrebbe, ad esempio, distinguere tra capitalismo politico e capitalismo liberale, se il mercato mondiale venisse fratturato lungo linee di natura geopolitica e strategica?>>

 

Oggi, gli USA, considerata l’impossibilità di vincere la guerra contro la Russia, si direbbero orientati ad un “frozen conflict”, da usare come carta negoziale. Qual è la tua opinione in merito?

 

<<Semplicemente non sono in grado di anticipare alcunché. In linea di principio non sarebbe da escludere una soluzione di tipo coreano. Tuttavia non credo sia probabile. La guerra di Corea si interruppe sul 38° parallelo quando il “nuovo” sistema internazionale si era ormai consolidato in quei caratteri e in quella struttura che avrebbe conservato per circa quarant’anni. In questo senso, la guerra fredda fu una struttura d’ordine, più che un conflitto permanente (nell’ossimoro, il “fredda” pesava più di “guerra”). Oggi siamo, invece, alle fasi iniziali della decomposizione di un ordine. Siamo in una fase di “movimento”, nonostante la “guerra di attrito” prevalga sul campo di battaglia. E l’Occidente ha investito troppo del suo denaro, del suo capitale simbolico e della sua credibilità per accettare quella che si prefigura – altro che stallo! – come un’umiliante sconfitta. Spero vivamente di sbagliarmi. Ma sono queste considerazioni che mi rendono cupamente pessimista.>>

Francesco Santoianni

Francesco Santoianni

Cacciatore di bufale di e per la guerra. Autore di "Fake News. Guida per smascherarle"

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