La grande casa perduta: il referendum del marzo 1991 per il mantenimento dell'Unione Sovietica e il dato ucraino

La grande casa perduta: il referendum del marzo 1991 per il mantenimento dell'Unione Sovietica e il dato ucraino

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di Daniele Lanza

 

L’effetto domino ci spiega come un evento sia sempre il risultato degli eventi che lo precedono in ordinata successione come tanti tasselli: questi ultimi sono innumerevoli, il che impone a chi legge la storia di fare una scelta e individuare l’elemento della serie sul quale soffermarsi maggiormente per decifrare il presente. Più vicino e nitidamente visibile? Più lontano e indistinto? Oppure del tutto remoto…? Sono interrogativi la cui risposta dipende dalla sensibilità specifica di chi indaga gli eventi, dalla visione di insieme cui punta.

Il dramma odierno, quello che osserviamo sui bollettini di guerra che si focalizzano con dovizia di dettaglio sul settore orientale d’Europa, i suoi confini ed i suoi stati, altro non è che conseguenza di una tragedia  con un ordine di grandezza che travalica la dimensione semplice degli stati nazionali: ci si riferisce qui all’implosione di quella che potremmo denominare “civilizzazione sovietica”. Una descrizione sintetica ma comprensibile ai più la può presentare come un “cosmo culturale” unico nel suo genere plasmato da una rivoluzione di modernissima matrice per i tempi, in cui il verbo socialista va ad adagiarsi su uno spazio sterminato ereditato dagli tsar che l’avevano costruito in ere passate e il cui risultato sarà unico nel suo genere: un blocco politico forte che, nella sua pur indiscutibile unità, abbraccia l’eterogeneità di uno strabiliante particolarismo a cavallo di differenti continenti.

Un sub-continente, meglio dire, che nella sua estensione fisica racchiudeva Asia ed Europa e il cui peso morale arrivava persino a superare tali coordinate di spazio, fatto salvo il proprio ruolo di alfiere e guida dell’umanità sul sentiero del progresso: ideale, quello di faro dei popoli, che trascendeva il concetto stesso di geografia.

Tutto questo, certo, è quanto voleva l’entusiasmo rivoluzionario degli esordi, standardizzatosi poi in ingenua retorica di regime, la quale a sua volta si ridimensiona gradualmente con l’andare del tempo, fino alla disillusione generale che accompagna la conclusione storica di quest’era. Quindi il buio…o la luce? Dipende da opposti punti di vista forse. Un sipario cala mentre se ne alza un altro che schiude un inedito torrente di colori, luci, suoni: quelli della libertà. Una libertà del tutto nuova, diversa da quella che si conosceva fino a quel momento: qualcosa che conquista, travolge, ma soprattutto che si muove con velocità sconosciuta ai ritmi lenti e consueti della psiche sovietica. Un fenomeno tanto intenso da accelerare vertiginosamente la successione degli eventi scardinandone l’ordine e trasformando quella che doveva essere una transizione in implosione.

Il termine con cui si conclude l’ultima riga è la chiave, il vero tassello dell’effetto domino sul quale richiamo un momento di attenzione e riflessione. Di fatto un biennio frenetico di eventi (1989-1991) si rivela sufficiente ad archiviare una fase settantennale del tragitto storico della Russia e dei molti popoli ad essa aggregati e talvolta amalgamati, provocandone un collasso di innumerevoli sfaccettature…un’emorragia i cui rigagnoli si disperdono lungo la generazione a venire,di episodio in episodio, sino al più grande di tutti – quello presente – destinato a ridisegnare la diplomazia globale.

La rapidità, il peso degli avvenimenti che si avvicendano in questa limitata finestra di tempo, quasi ne cancella uno il cui anniversario – quasi del tutto dimenticato – ricorreva alcuni giorni orsono: il 17 marzo del 1991, per la prima ed ultima volta nella sua storia, l’Unione Sovietica invitava i propri cittadini ad esprimersi direttamente sulla forma politica da dare al proprio futuro, partendo da quella grande “casa” multinazionale dove erano nati e cresciuti. In termini più chiari, i vertici dello stato sovietico - nell’ultimo anno legale di esistenza - decidono di indire una consultazione referendaria in modo che la popolazione possa per la prima volta esprimersi: il testo completo era più articolato di quanto sembra, ma la domanda essenziale riguardava l’essere o meno a favore della CONTINUAZIONE di tale unità sovranazionale pur con gli aggiustamenti e riforme indispensabili per la sua sopravvivenza. Riformare l’URSS senza disgregarla, questa era la questione di fondo.

Svariate sarebbero le note da fare in merito all’evento, in nome della precisione e dell’onestà storica: soltanto 9 delle 15 repubbliche sovietiche parteciperanno al referendum (questo poiché quelle già fermamente orientate per un’indipendenza totale rifiutarono la consultazione generale a favore di una indipendente sul proprio territorio con un quesito differente e specifico: rientrano in questa categoria i paesi baltici in primo luogo, seguiti da Georgia, Moldavia e Armenia), in secondo luogo il testo del quesito referendario sarà modificato terminologicamente nelle repubbliche dell’Asia centrale– si parla di “stati” della futura Urss anziché l’usuale “repubbliche” (denominazione quest’ultima che identificava meglio il concetto ai tempi), cosa che può aver portato parte dei votanti a pensare che si prospettasse un progetto di maggiore autonomia di quanto non si intendesse, inducendo così una quota di elettorato maggiore del normale ad esprimersi in senso favorevole.

Si potrebbe inoltre discutere (osservazione doverosa) su quale grado di libertà – su un piano psicologico – potesse godere un elettorato bene o male nato e cresciuto dentro tale sistema e chiamato ora a giudicarlo: come dire che la casa in cui si è cresciuti, per quanto imperfetta e pericolante è pur sempre un luogo cui si è abituati da sempre. Eppure – si potrebbe rispondere -è mai esistito un qualche contesto referendario non viziato da questo fatto? Ossia in cui non si chieda alla società di esprimersi proprio su un sistema che è sempre stato l’ordine naturale delle cose sino a quel momento?

Il punto è che anche tenendo in considerazione tutti i punti menzionati, il risultato complessivo fu chiaro: su quasi 120 milioni di elettori chiamati per la prima volta alle urne - ovvero l’80% di affluenza - la grande maggioranza si espresse per il mantenimento di tale unità sovranazionale chiamata Unione Sovietica (denominazione formale del resto, che probabilmente sarebbe stata modificata, aggiornata, strada facendo). In ognuna delle repubbliche partecipanti la maggioranza è nettissima, in particolare nelle entità più grandi e importanti: in quel trio “sacro” che compone l’universo slavo orientale (ancor prima che sovietico) che consiste in Bielorussia, Ucraina e Russia stessa. Il dato ucraino è eloquente di per sé.

 

 

 

Incredibilmente, l’esito di questa consultazione referendaria scompare come se non fosse mai esistito: il precipitare degli eventi, il tentato golpe dell’estate successiva, l’affermazione di Boris Eltsin, imprimono una svolta nella storia del paese che scavalca qualsiasi suffragio del quale potesse ora godere la società sovietica, portando all’estinzione giuridica dello stato in carica alla fine di quello stesso anno, quando il giorno dopo Natale è ammainata la bandiera. Un senso di perplessità emerge dall’osservare i grafici del voto conoscendo in anticipo il corso successivo delle cose: come se in fondo esistano veramente imprevedibili leggi della storia che si manifestano in maniera fulminea e inesorabile indipendentemente dalla volontà collettiva: se si accetta questa visione dell’esistenza, allora significherebbe che le sabbie del tempo erano già terminate a prescindere dall’esito di un semplice voto. Significherebbe che il cosmo sovietico era già morto e assieme ad esso la società che lo costituiva, benché quest’ultima fosse stata ancora chiamata ad esprimersi in merito e per la PRIMA volta! (in questo la massima contraddizione, l’ironia e la beffa): milioni di persone chiamate ad esprimersi per un qualcosa che in realtà aveva già cessato di esistere a quella data.

Impietosamente, anche loro stessi – gli oltre 100 milioni di individui chiamati alle urne quel giorno - avevano già cessato di esistere (in quanto cittadini del vecchio ordine). Analogamente a come quasi 70 anni prima, nel 1924, il granduca Kirill – cugino primo del defunto Nicola II –si proclamò formalmente suo successore e legittimo imperatore in esilio: applaudito da un esercito di fantasmi.

La storia spesso funziona così. Utile, tuttavia, osservare ancora una volta questa testimonianza, consegnata troppo in fretta all’oblio, di perduta e ingenua (ma probabilmente sincera) armonia: un minuscolo testamento perduto.

Quanto si desiderava realmente questa libertà? L’interrogativo più singolare di tutti probabilmente, uno di quelli cui non si può dare risposta definitiva: domanda arrogante per un verso (cioè che presuppone da parte di chi la pone la non completa capacità di decidere di chi ha fatto la scelta in questione) e che rientra di certo nel novero degli interrogativi accademici sul tema, richiamandone necessariamente un altro – quello ultimo - che concerne il cuore insolubile del problema. La natura della libertà.

Sorvoliamo il quesito diretto, irrisolto dal principio dei tempi (o meglio risolto sì, ma sempre in maniera diversa a seconda dell’ottica di chi vi era coinvolto), soffermandoci su una testimonianza storica che ci consente di individuare uno di quei tasselli del domino che abbiamo menzionato all’inizio: una delle chiavi – ormai lontane nel tempo – che determinano le circostanze attuali.

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