La guerra è pace:... il nuovo linguaggio fabbricato dai burocrati euroinamani

Con una brutale torsione, tramite un ribaltamento semantico che ubriaca i parlanti si costruisce, con opportune strategie comunicative, una nuova cultura di regime cui assimilare tutto e tutti, si impongono dall’alto nuovi significati alle parole.

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La guerra è pace:... il nuovo linguaggio fabbricato dai burocrati euroinamani

 

di Angela Fais per l'AntiDiplomatico

 

Sembrano piuttosto confusi ‘gli euroinomani’ che giorno 15 hanno manifestato. E’ la piazza blu “di quelli che non sanno cosa fare, ma che vogliono esserci, e chiedersi che cosa devono fare sul tema della pace e della difesa”, come ha detto Serra dal palco. Tutti insieme per l’Europa, le armi e la pace. Dando per scontata la buona fede della gente comune lì presente, prevalentemente anziani che descrivono un’ Europa che di fatto non è mai esistita e ai quali verrebbe da dire quasi che hanno sbagliato piazza, concentriamoci sugli altri: politici, artisti, giornalisti che attraverso una retorica disgustosa hanno evocato la pace, ribadendo contestualmente la necessità del riarmo e di un esercito europeo. 

Interessante sarebbe capire quale pace. Si fa presto infatti a dire ‘pace’. Quando Serra nel suo discorso dice “abbiamo questa parola preziosa tra le mani ma non sappiamo bene come usarla”, in realtà ammette il grande e delirante, pericoloso controsenso che esplode quando si pretende di parlare di pace e insieme di armi, pur sapendo che sono due polarità inconciliabili. Si vorrebbe giustificare l’uso delle armi al fine di ottenerne non una qualsiasi ma “una pace giusta”, come ha detto la Schlein. Come se se ne potesse concepire una ingiusta.

Ma può essere ‘ingiusta’ una pace?  La Von der Lyen nei giorni precedenti aveva parlato addirittura di “pace attraverso la forza”. Costoro forniscono così le istruzioni per l’uso di una pace che si ispira al celebre: “Si vis pacem, para bellum”, se vuoi la pace prepara la guerra, il motto di Vegenzio che, si noti bene, di guerra in realtà sapeva pochino non essendo un militare di professione, ma un funzionario imperiale vissuto tra il IV e V secolo a.c. Motto che nei secoli sino ai tempi della Guerra Fredda ha largamente legittimato ‘il principio della deterrenza’. Ora però considerando che la Russia possiede circa 8000 testate nucleari e l’Europa zero, 200 se includiamo quelle francesi, e che il piano di riarmo (grazie a Dio) non prevede il nucleare, non è fuori luogo ammettere che tutto questo susciti una certa tragica ilarità. La Deterrenza si concretizza dunque in una serie di tattiche fatte di minacce e calcoli all’interno di una strategia coercitiva basata sul ricorso alla forza per influenzare e vincolare le scelte strategiche dell’avversario; ponendo così in essere una pace che altro non è che la continuazione della guerra con altri mezzi. La deterrenza mina il concetto stesso di pace.

Elemento imprescindibile di quest’ultima infatti è la sicurezza. Quale pace potrebbe esserci nella precarietà? esposti al rischio costante che la vita possa interrompersi da un momento all’altro? Si comprende quanto fragile e poco duratura possa mai essere una pace ispirata da questi presupposti. E quanto facilmente essa possa tramutarsi in guerra.

Ottenerla con la forza è solo una contradictio in adiecto. I nostri politici allora non dicano ‘pace’, dal momento che non la vogliono. Se vuoi la pace resti nell’orizzonte della diplomazia e della politica, non metti mano alla fondina. Quando Mattarella parla infatti di “pace duratura”, per definizione, non è pace; al massimo si tratta di una tregua, distinguo non da poco che già Kant operava nella “Pace perpetua”. Come scriveva la filosofa Maria Zambrano, bisogna intendere la pace come un imperativo cui tendere inesorabilmente, bene positivo e al tempo stesso necessario, come la conditio sine qua non “per la marcia della storia”. E “affinché questo sia uno stato e non una situazione come si è verificato sinora, è necessario che se la guerra è qualcosa di congenito alla natura umana, questa venga annullata da una specie di seconda natura, autentica, stabile”. Ma i folli proclami della Von der Lyen che definiscono Putin il nemico ostile del quale “non ci si può fidare” inchiodano l’Europa in una posizione schizoparanoide; per cui sulla scorta della convinzione quasi magica che esista sempre e comunque un persecutore esterno, un nemico da combattere, si scarica su di lui e sulla Russia, con dinamiche proiettive da manuale, tutto l’odio possibile. 

Qui come in tutti i regimi totalitari comunicazione e linguaggio acquisiscono un ruolo chiave, divengono strumento del potere. Viene così fatto un uso molto sapiente di slogan volti a imbarbarire l’opinione pubblica, indirizzarla a pensare “correttamente” e secondo ‘le linee guida’. Ma sopratutto si mira a imporre un nuovo significato delle parole, congeniale e funzionale alla ideologia imperante. Si converrà infatti che non si può certo esordire urlando “W la guerra!”. Non si avrebbe successo. Piano piano invece si lavora con le parole e sulle parole; i burocrati euroinomani e, a seguire, i loro fedeli servitori fabbricano un linguaggio. Nel racconto “Le jardin d’Epicure” di Anatole France, scrittore premio Nobel per la letteratura nel 1821, si narra dell’impegno di alcuni personaggi a cancellare dalle monete l’esergo, l’annata e l’effigie, come gli arrotini, di modo che “quando hanno tanto fatto che non si vede più sulle loro monete da 100 soldi né Vittoria, né Guglielmo, né la Repubblica, dicono: “queste monete non hanno più nulla di inglese, di tedesco, né di francese; le abbiamo tratte fuori dal tempo e dallo spazio; esse non valgono più 5 franchi: esse hanno un valore inestimabile”. Con questo lavoro da pochi soldi -conclude France- le parole  vengono portate dal fisico al metafisico”.

Allo stesso modo gli alfieri del regime fanno un lavoro da pochi soldi che però procura smisurati vantaggi dal momento che il nuovo significato, l’unico riconosciuto come valido e “vero”, entra a far parte del linguaggio d’uso comune, appartiene alla comunità dei parlanti. Si svuota la parola della sua plurivocità ammettendo un unico significato. Ma laddove è previsto un solo significato la parola diventa parola d’ordine, ordine e comando. E i cittadini diventano soldati. Costruendo con opportune strategie comunicative una nuova cultura di regime cui assimilare tutto e tutti, si impongono dall’alto nuovi significati alle parole. Ed ecco che queste servono a dire questo o quello. Con una brutale torsione, tramite un ribaltamento semantico che ubriaca i parlanti oggi servono a sostenere che la guerra è pace, la scienza è fede e domani chissà.

 

Angela Fais

Angela Fais

Laureata in filosofia del linguaggio alla Sapienza di Roma e Dottoressa in psicologia scrive per varie riviste e collabora con l'Antidiplomatico

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