La lezione statunitense e la crisi (annunciata) di Volksvagen
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di Federico Giusti
Meno di tre settimane fa, il sindacato meccanico tedesco Ig Metal inviava una proposta alle principali case produttrici tedesche: rinunciamo al 20 per cento del salario, disponibili alla settimana corta con perdita retributiva in cambio della salvaguardia dei posti di lavoro. Scongiuriamo i licenziamenti insomma con perdite salariali da compensare con qualche aumento delle retribuzioni.
La risposta delle associazioni datoriali non si è fatta attendere, dovevano solo arrivare i risultati delle vendite degli ultimi mesi, preso atto allora del calo delle esportazioni, Volksvagen ha rifiutato l'offerta sindacale annunciando tagli occupazionali, la chiusura di almeno 3 stabilimenti e due anni senza contrattazione e aumenti salariali.
Nell’Unione Europea le immatricolazioni di auto sono calate del 6,1% su base annua, in leggera ripresa rispetto a Luglio ma in vistoso calo ormai da mesi con risultati negativi in ogni segmento di mercato.
Le immatricolazioni sono diminuite ovunque, in Germania meno di altri paesi come Francia e Italia che si attestano a un meno 11 per cento
La speranza delle case produttrici renane era quella di recuperare su alcuni mercati ad esempio le auto elettrice le cui vendite sono senza dubbio cresciute ma in misura assai minore delle previsioni.
Ancora sconosciuti i dettagli del piano riorganizzativo di Volksvagen ma è indubbio lo smacco del sindacato tedesco ancora oggi legato a quel modello concertativo che nella fase capitalistica attuale viene sostanzialmente rifiutato dalle aziende.
Quanto accade oggi in Germania si è già verificato negli Usa un anno fa quando un lungo sciopero sindacale aveva fermato per settimane le produzioni. Le case automibilistiche accordarono sensibili aumenti ma al contempo, finito lo sciopero, iniziarono a ridimensionare le produzioni mandando a casa interinali e precari e chiudendo alcuni stabilimenti. Le prime fabbriche ad essere colpite furono quelle dell'indotto e la scelta sindacale statunitense si rivelò del tutto inadeguata portando a casa aumenti salariali ma accogliendo allo stesso tempo licenziamenti e il forte calo delle produzioni.
In questo anno molti stabilimenti sono stati ridimensionati o chiusi, migliaia di esuberi , prima tra la forza lavoro interinale e precaria e poi anche tra impiegati e operai a tempo indeterminato.
La lezione statunitense insegna che i padroni in fase di crisi non hanno alcuna intenzione, e interesse, a concludere accordi con il sindacato specie se i dati economici risultano impietosi. Da decenni le fabbriche meccaniche tedesche non licenziavano i propri dipendenti, anche la soluzione, adottata inizialmente negli Usa, di ridurre la forza lavoro precaria in Germania non sarebbe sufficiente perchè gran parte delle maestranze del settore in questo paese sono a tempo indeterminato.
Perfino la Porsche sta rivedendo le proprie politiche industriali dopo il forte calo delle vendite sui mercati di Cina e dell'area Orientale, sovrapproduzione e mancati sbocchi sul mercato spingono il capitalismo tedesco ai tagli occupazionali e produttivo chiedendo al contempo alla Ue di posticipare i termini entro i quali le macchine prodotte e commercializzabili nel vecchio continente saranno esclusivamente elettriche. La Germania in estate era stata contraria alla adozione di feroci dazi protezionistici determinando un feroce scontro interno alla Ue, i ritardi nella produzione e commercializzazione dell'elettrico sono solo una parte del problema se si arriva a dei licenziamenti nell'aristocrazia europea inimicandosi un tradizionale alleato come il sindacato meccanico renano. E non dimentichiamo che gli addetti alle manifatture tedesche presentavano fino ad oggi i migliori salari del continente e un forte sistema di welfare.
Sarebbe errato pensare di ridurre la questione ai ritardi nella produzione di auto elettriche, del resto solo un terzo delle auto esportate dalla Cina rientrano in questi canoni, 10 anni fa il Governo di Pechino adottava una strategia destinata ad accrescere nell'arco di un decennio le esportazioni dando vita a un programma di corposi investimenti pubblici per innovare tecnologicamente la produzione.
Il capitalismo del vecchio continente fa quindi i conti con la inadeguatezza delle proprie strategie, eccessivi i regali accordati alle imprese senza che queste abbiano nel frattempo reinvestito parte dei loro lauti profitti in processi innovativi produttivi, per questo oggi battono cassa a Bruxelles perchè siano i fondi comunitari a sostenere i processi tecnologici dopo anni nei quali i dividendi degli azionisti hanno raggiunto livelli mai visti dal secondo dopo guerra ad oggi.