La menzogne e le guerre Usa: la pianificazione di Pearl Harbor

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La menzogne e le guerre Usa: la pianificazione di Pearl Harbor

 

Da Marx21.it

 

Dopo la recensione dell’ultimo libro di Alessandro Pascale pubblichiamo, su gentile concessione dell’Autore, questo testo che affronta la vicenda di ‘Pearl Harbor’ e il conseguente ingresso in guerra degli Stati Uniti. La menzogna è una costante che torna nelle guerre combattute dagli USA nel XX e XXI secolo, basti pensare al famoso ‘incidente del Tonchino’ che diede il via alla guerra in Vietnam o all’altrettanto famosa provetta che il mai compianto Colin Powell mostrò alle Nazioni Unite per dimostrare l’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Anche oggi il sempre maggiore impegno nella guerra ucraina viene giustificato con notizie, pensiamo a Bucha, sulla cui fondatezza ci sarebbe molto da dire.

[Il testo che segue è tratto da A. Pascale, Ascesa e declino dell’impero statunitense, Tomo 1 – Genesi di un impero elitario (dalle origini al 1945), La Città del Sole-L’AntiDiplomatico, Napoli-Potenza, 2022, cap. X.2 – La pianificazione di Pearl Harbor, pp. 540-549]

Gli USA avevano ormai la certezza che la guerra con il Giappone sarebbe stata questione di tempo. Riguardo all’attacco di Pearl Harbor la storiografia sovietica è netta ma inesatta: il comando delle Hawaii era stato «informato della comparsa di sommergibili non identificati e di un grande numero di aerei che volavano verso Pearl Harbor, non vi prestò soverchia attenzione». Ne consegue per il Giappone «un successo di notevoli proporzioni» [SU] che consente a Roosevelt di ottenere l’unanimità del Congresso sulla dichiarazione di guerra al Giappone. Sulla questione Losurdo aggiorna così:

«ormai è largamente accolta negli Stati Uniti la tesi secondo cui l’attacco di Pearl Harbor è stato ben previsto (e in realtà provocato con un embargo petrolifero che lasciava al Giappone ben poche alternative). Ma, una volta che l’attacco si verifica, la guerra è condotta da Washington all’insegna di un’indignazione morale certamente ipocrita, alla luce di quello che ora sappiamo, ma tanto più micidiale. Non si tratta solo della distruzione delle città. Si pensi alla mutilazione dei cadaveri e persino alla mutilazione del nemico che ha ancora gli ultimi sussulti di vita, in modo da ricavarne souvenir, spesso ostentati in modo tranquillo od orgoglioso. È soprattutto significativa l’ideologia che presiede a queste pratiche: i giapponesi sono bollati in quanto “subumani”, col ricorso ad una categoria centrale del discorso nazista».1

 

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Approfondiamo la questione. Su Wikipedia esiste un’apposita pagina dedicata alla “Teoria del complotto sull’attacco di Pearl Harbor”2, utile per mostrare l’evoluzione storiografica della questione. Già durante la guerra ci sono le prime contestazioni della versione ufficiale, con il contrammiraglio Robert Theobald che arriva ad accusare soprattutto il presidente Roosevelt di aver favorito l’attacco nemico per superare l’opposizione popolare all’ingresso in guerra (ancora nel settembre ’40 un sondaggio mostra come quasi il 90% degli americani sia ben deciso a rimanere fuori dal conflitto) e di aver negato (pur essendo informato dettagliatamente dei progetti nipponici) qualsiasi informazione utile all’ammiraglio Kimmel, comandante la flotta del Pacifico. Questa tesi per lungo tempo è stata respinta da studiosi come Barbara Wohlstetter, Gordon Prange, Basil Liddell Hart e Peter Herde, che pure hanno sottolineato il desiderio di Roosevelt di subire un attacco per superare i sentimenti pacifisti della popolazione, da lui stesso peraltro fomentati opportunisticamente per vincere la campagna presidenziale del 1940. Per decenni la tesi più accreditata è stata insomma che le forze armate e politiche abbiano sottovalutato le capacità belliche giapponesi, capaci di avanzare con le proprie portaerei in direzione delle Hawaii nel silenzio più assoluto. A suffragare queste tesi anche l’affermazione che i documenti giapponesi non fossero ancora stati decodificati dalle spie statunitensi e che quindi non vi fosse stato mai alcun cenno a Pearl Harbor. Il fatto che i servizi segreti inglesi avessero avvisato l’FBI di Hoover del rischio di un attacco nelle Hawaii (12-14 agosto ’41) viene considerato non risolutivo, data la conflittualità presente tra Hoover e Roosevelt (?) e il carattere interessato degli inglesi a fomentare i dissidi tra Giappone e USA.

Questo il quadro tuttora riportato più o meno esplicitamente nella manualistica scolastica e accademica. Un quadro che però non regge più a seguito delle prove portate in studi ormai vecchi di 20 anni. L’allusione è soprattutto ai risultati presentati da Robert Stinnett nell’opera Day of Deceit: The Truth About FDR and Pearl Harbor, pubblicata nel 1999 dopo aver setacciato per 14 anni documenti desecretati dall’amministrazione Carter. Sono ormai molte le analisi, gli studi e perfino gli articoli divulgativi3, come attestato già da Losurdo, che mostrano la verità sulla questione, e cioè che ci sia stata una costruzione pianificata da parte dell’amministrazione Roosevelt di un percorso che doveva necessariamente e consapevolmente portare al disastro di Pearl Harbor. Naturalmente su questo tema e sulle “prove” che andiamo a presentare, ancora nel 2016 uno speciale del Corriere della Sera si mostra assai scettico, seppur incapace di chiudere completamente ogni dubbio: «non esistono documenti che provino in maniera confutabile o inconfutabile questa tesi. Né, a parere di chi scrive, se ne troveranno mai: queste macchinazioni, se esistono, non vengono messe per iscritto e neppure se ne parla apertamente, nemmeno ai più alti livelli. Può esistere, invece, un comune sentire di un gruppo dirigente che lentamente e con piccoli aggiustamenti tenta di pilotare gli eventi verso un obiettivo ritenuto fondamentale». Sulla base dei dati che verranno di seguito presentati, il lettore potrà concludere come meglio crede. Occorre anzitutto ricordare che gli Stati Uniti hanno iniziato fin dal 1932, cioè dopo l’invasione nipponica della Cina, a fornire al Kuomintang aerei, piloti e relativo addestramento per la guerra con il Giappone. Come sappiamo gli interessi statunitensi in Cina e nell’intero sud-est asiatico sono storicamente molto forti, motivo per cui era inaccettabile per Washington l’affermazione di un’egemonia giapponese. Il salto di qualità viene fatto però nel 1940: il 7 ottobre Arthur McCollum, capitano di fregata della Marina statunitense, agente del NIO (Naval Intelligence Office di Washington) e profondo conoscitore del Giappone, paese in cui era nato e cresciuto da genitori statunitensi, consegna un rapporto che finisce dritto alla Casa Bianca. Dopo aver tracciato uno scenario apocalittico conseguente ad una vittoria tedesca e giapponese, suggerisce un piano in 8 punti da adottare per provocare la dichiarazione di guerra nipponica: 1) accordarsi con la Gran Bretagna per utilizzare le basi inglesi nel Pacifico, soprattutto Singapore; 2) accordarsi con l’Olanda per utilizzare le attrezzature della base e poter ottenere provviste nelle Indie Orientali olandesi; 3) dare tutto l’aiuto possibile al governo cinese di Chiang Kai-Shek; 4) mandare in Oriente, nelle Filippine o a Singapore, una divisione di incrociatori pesanti a lungo raggio; 5) mandare due divisioni di sottomarini in Oriente; 6) tenere la flotta principale degli Stati Uniti, attualmente nel Pacifico, nei pressi delle isole Hawaii; 7) insistere con gli olandesi perché rifiutino di garantire al Giappone le richieste per concessioni economiche non dovute, soprattutto quelle riguardanti il petrolio; 8) dichiarare l’embargo per tutti i commerci con il Giappone, parallelamente all’embargo simile imposto dall’impero britannico. Il piano viene ben accolto. Laddove non si era già provveduto, si procede ad attuarlo entro il 12 novembre, lasciando solo l’ultimo punto come arma finale da giocare con cautela. Nel frattempo si implementa il terzo punto, prestando alla Cina un centinaio di milioni di dollari e iniziando a preparare piani per affiancare equipaggi USA alla flotta aerea cinese con l’obiettivo di bombardare Tokyo e altre città giapponesi. Quando nel 1946 saranno aperte le indagini della commissione d’inchiesta sulle responsabilità di Pearl Harbor, sarà esclusa ufficialmente qualsiasi responsabilità diretta di Roosevelt sulla base dell’assunto che il Presidente non conosceva il piano McCollum. In realtà sappiamo oggi per certo che lo conoscesse bene. Sono state fatte perizie scientifiche che hanno accertato la presenza delle sue impronte digitali su ognuna delle cinque pagine del piano. D’altronde Roosevelt ha ordinato di spostare buona parte della flotta USA alle Hawaii proprio il giorno successivo alla divulgazione del bollettino. Sono molteplici inoltre le prove sul fatto che un attacco a Pearl Harbor fosse prevedibile. L’intelligence statunitense era venuta a conoscenza di piani giapponesi aventi questo obiettivo fin dal 27 gennaio, quando il segretario di Stato Cordell Hull viene informato dall’ambasciatore J. Grew da Tokyo, che chiariva così:

«un collega peruviano ha rivelato a un membro del mio staff di aver sentito diverse fonti, compresa una fonte giapponese, che le forze militari giapponesi hanno progettato, in caso di problemi con gli Stati Uniti, di tentare un attacco a sorpresa su Pearl Harbor impiegando tutte le strutture militari a loro disposizione. Ha aggiunto inoltre che, sebbene il piano possa sembrare una fantasia, il fatto che lo abbia sentito da più parti lo ha indotto a passare l’informazione. – Grew».

A Washington si inizia a discutere sempre più ardentemente su come procedere. Roosevelt vuole far crescere la tensione, facendo navigare incrociatori statunitensi in acque giapponesi in «missioni a sorpresa». Si tratta di provocazioni che violano il diritto internazionale e che scatenano le obiezioni dell’alto ufficiale Husband Kimmel, che reagisce duramente: «è una mossa sconsiderata e compierla porterà alla guerra». Compreso che la decisione sia non militare ma politica, Kimmel cessa l’opposizione, chiedendo unicamente di essere tempestivamente informato sulle manovre giapponesi, e viene promosso al grado di ammiraglio con la nomina di comandante in capo della flotta del Pacifico. Non tutti gli ufficiali però accettano di scendere a compromessi con il gioco pericoloso di Roosevelt, che riesce a sbarazzarsi del comandante della flotta James O. Richardson e delle altre opposizioni militari riorganizzando le forze navali in due contingenti distinti (Atlantico e Pacifico), spostando opportunamente i dissenzienti sul ramo atlantico (1° febbraio). Pochi giorni dopo (5 febbraio), anche il ministro della guerra Henry Stimson viene informato dal Contrammiraglio Richmond Kelly Turner della possibilità di un attacco a sorpresa a Pearl Harbor. Mentre iniziano le provocazioni in acque marittime giapponesi, il commercio tra i due paesi procede ininterrotto: tra il luglio 1940 e l’aprile 1941 risulta accertato che i rifornimenti petroliferi “americani” a Tokyo, accuratamente monitorati dai servizi statunitensi, ammontano a quasi 9.200.000 barili. Perché continuare a rifornire il futuro nemico? L’ipotesi principale è stata fatta da George Morgenstern, che nel suo libro Pearl Harbor, The Story Of The Secret War ha descritto come il Giappone sia stato volutamente preparato e trascinato in guerra dalla strategia d’azione dei membri del Council on Foreign Relations (CFR), il think tank specializzato in politica estera e affari internazionali, finanziato dalle big companies statunitensi. La sua tesi è semplice: alle lobby guerrafondaie serviva disperatamente che fosse il Giappone ad attaccare per primo, ma per fare ciò occorreva prima che si convincesse di poter vincere la guerra contro il colosso americano. Le manovre vanno avanti in maniera stanca e l’attenzione sembra distratta dall’operazione Barbarossa, ma mentre Stalin tiene un milione di uomini in estremo oriente a fronteggiare un’eventuale invasione giapponese, a Tokyo si decide di proseguire nella costruzione della propria «grande sfera di coprosperità dell’Asia orientale»: il 25 luglio il Giappone invade l’Indocina. Il giorno dopo Roosevelt congela le attività finanziarie giapponesi negli USA e ordina di cessare il commercio imponente con Tokyo (le esportazioni giapponesi verso gli USA erano il 40% del totale nazionale e le importazioni sfioravano il 50%), che però non viene interrotto del tutto. Intanto le trattative diplomatiche vengono sistematicamente sabotate dalla Casa Bianca, che procede a chiudere il canale di Panama alle imbarcazioni giapponesi. Gli inglesi e gli olandesi seguono a ruota ponendo sotto embargo le esportazioni verso il Giappone provenienti dalle loro colonie del Sud-est asiatico. Il 31 luglio il Ministro degli Esteri Tijiro Toyoda comunica all’Ambasciatore Kichisaburo Nomura che «i rapporti economici e commerciali fra il Giappone e i paesi terzi, guidati da Inghilterra e Stati Uniti, stanno gradualmente diventando così orribilmente tesi da non poterli più sopportare a lungo. Pertanto, il nostro Impero, per salvaguardare la propria esistenza, deve prendere le misure per assicurarsi le materie prime dei Mari del Sud». Roosevelt sa benissimo che il Giappone non può reggere la guerra con la Cina, e nessun’altra guerra di espansione, se non arrendendosi o tentando l’equivalente del blitzkrieg tedesco, cioè lanciandosi in una guerra dalle dimensioni più ampie sperando di vincerla fulmineamente. Non si tratta di semplici congetture politiche, ma di dati certi di cui Roosevelt dispone avendo da tempo i servizi statunitensi decriptato il codice di decifrazione giapponese “Magic”. I servizi informativi statunitensi sono organizzati in modo che tutte le intercettazioni arrivino direttamente alla Casa Bianca bypassando gli stessi vertici militari. Il 18 agosto a Londra Churchill informa il suo gabinetto, secondo il verbale, che «il presidente [Roosevelt, ndr] ha detto di voler la guerra, ma senza dichiararla. […] Tutto doveva essere fatto in modo da forzare un incidente». Agli inizi di ottobre Washington decide di rendere effettivo il divieto completo di esportazione di petrolio in Giappone. Il fallimento delle trattative, che porta alla formazione del governo guidato dal generale Tojo, è un segnale evidente della prossimità della guerra, anche se qualche analista si può essere illuso ritenendo che l’aggressività giapponese si sarebbe rivolta contro l’URSS. Gli ultimi strascichi diplomatici costituiscono un dialogo tra sordi, con gli USA ben consapevoli che le loro richieste, fondate su un ritorno ai confini precedenti il 1931 e alla dottrina della “porta aperta”, siano totalmente inaccettabili.4 È abbastanza sintomatico che dopo l’ultimo colloquio avuto con i diplomatici giapponesi, il segretario di Stato Hull abbia comunicato al governo inglese che «la parte diplomatica delle nostre trattative con il Giappone è praticamente finita e da ora in poi la cosa passerà nelle mani del comando delle forze armate» [SU]. L’embargo messo in atto dagli olandesi e dagli statunitensi comincia a mettere alle corde il Giappone, le cui riserve scarseggiano. A Tokyo si decide per l’invasione delle Indie olandesi per assicurarsi nuove fonti di approvvigionamento. Il piano necessita però di “immobilizzare” la flotta statunitense. Fin da settembre l’ammiraglio Isoroku Yamamoto comincia a pianificare l’attacco che prevede due direttrici principali: la prima avrebbe colpito Pearl Harbor con una serie di bombardamenti aerei; la seconda, poche ore dopo le Hawaii, avrebbe comportato lo sbarco anfibio di un’armata d’occupazione nelle Filippine. Il 2 novembre l’Imperatore Hirohito dà il proprio assenso. Comincia un incessante scambio di messaggi cifrati (oltre 100 mila fino al giorno prima dell’attacco) tra ambasciate, consolati, comandi navali e truppe. Viene anche individuata la baia di Hitokappu (nell’arcipelago delle Curili) come località di concentramento per la flotta che avrebbe attaccato Pearl Harbor. Oggi sappiamo che tutti i messaggi sono stati intercettati dallo “Splendid arrangement”, decriptati e consegnati a Roosevelt e a pochissimi intimi. Tra questi non ci sono né l’ammiraglio Kimmel né il generale Short, che ha l’incarico di difendere le installazioni militari delle Hawaii. Il 15 novembre il Capo di Stato Maggiore George Marshall informa i media di una cosa inaudita, chiedendo di mantenere il segreto: «stiamo preparando una guerra offensiva contro il Giappone». Dieci giorni dopo, il Segretario di Guerra Henry Stimson annota nel suo diario di aver incontrato nello Studio Ovale Marshall, il presidente Roosevelt, il Segretario della Marina Knox, l’ammiraglio Harold Stark, e il Segretario di Stato Hull. Roosevelt li avvisa che i giapponesi sono probabilmente in procinto di attaccare, questione di giorni… «La questione è stata su come dovremmo manovrare per sparare il primo colpo, senza consentire troppo pericolo per noi stessi», ha scritto Stimson. A questa data sono oltre una decina i messaggi “sensibili” di Yamamoto intercettati dagli statunitensi, che riescono così a monitorare la sua rotta attraverso il Pacifico fino al punto di concentramento e a conoscere per tempo e con certezza l’obiettivo delle Hawaii, anche se non ne conoscono ancora il giorno. Forse casualmente, forse subodorando qualcosa, Kimmel aveva previsto dal 21 al 24 novembre un’esercitazione, la “Exercise 191”, che ipotizzava un attacco nipponico alla flotta di stanza alle Hawaii. Quindici ore prima dell’inizio la Casa Bianca interviene prontamente ordinando di annullare l’esercitazione per non «provocare i giapponesi». Gli viene inoltre comunicata una vaga notizia riguardante una flotta giapponese salpata da Hitokappu con probabile destinazione le Filippine o la Malacca. Il 26 novembre la flotta imperiale giapponese, terminato il proprio concentramento, salpa verso il proprio obiettivo. Il 27 e 28 novembre 1941 gli alti ufficiali statunitensi ricevono un ordine eloquente: «Gli Stati Uniti desiderano che il Giappone compia il primo atto diretto». Il 28 novembre Washington dà l’ordine di partenza alla portaerei Enterprise e ad 11 navi da scorta tra incrociatori e cacciatorpediniere. Il loro compito è quello di portare 12 aerei ai marine di stanza nell’isola di Wake (molto distante dalle Hawaii). Il 5 dicembre riceve un ordine simile da Washington la portaerei Lexington: partire con 18 aerei e 8 navi di scorta per le Midway. Con queste apparentemente inutili missioni Washington mette in salvo tutte le portaerei e altre 21 moderne navi da guerra. A Pearl Harbor rimangono 90 unità, tutte relativamente vecchie, comprese 8 corazzate con oltre trent’anni di “carriera” ma assai utili per fare da esca. Si è parlato di una casualità fortunata e del fatto che dopo il 26 novembre si sarebbero perse le tracce della flotta giapponese, caduta in un rigoroso silenzio. In realtà il silenzio radio è stato ripetutamente violato dai giapponesi: ancora la sera del 30 novembre viene intercettato l’ennesimo messaggio che indica l’obiettivo finale. È noto poi il caso del radiotelegrafista della nave americana Mariposa, che ha ripetutamente intercettato le trasmissioni della flotta giapponese in navigazione verso le Hawaii, comunicandone la rotta alla Marina. Questo fatto era ben noto, durante la guerra, ai marinai della marina mercantile americana del Pacifico ed è riportato in numerosi resoconti pubblici. A smentire la versione ufficiale propagandata dall’indagine politica del Congresso esistono anche altre prove schiaccianti come le registrazioni dei servizi informativi olandesi. Nelle prime ore del 2 dicembre viene intercettato un messaggio che indica il giorno preciso dell’attacco: 7 dicembre 1941. La settimana che precede l’attacco i giapponesi vengono informati da un agente infiltrato che riferisce la totale mancanza di allerta nella base di Pearl Harbor. Intanto tutti cercano di rassicurare Kimmel sull’improbabilità di un attacco ormai certo, tant’è che nonostante la proclamazione di un generico stato d’allerta per tutte le forze armate dell’area pacifica, non vengono presi provvedimenti specifici. Il risultato è infine il bombardamento aereo che trova completamente impreparate le postazioni della base, provocando la morte di 2476 uomini, la distruzione di 178 aerei e la messa fuori combattimento di 18 navi, tra cui le otto corazzate. Stinnett ha commentato così: «il Gruppo da Battaglia di Pearl Harbor, con le sue vecchie e fatiscenti navi da guerra, era un obiettivo da leccarsi i baffi. Ma è stato un grande errore strategico per l’Impero. I 360 aerei giapponesi avrebbero dovuto concentrarsi sugli enormi depositi petroliferi di Pearl Harbor … e distruggere la capacità industriale dei bacini di carenaggio, delle officine e degli impianti di riparazione della Marina». Una vittoria di Pirro insomma, che manca l’obiettivo primario di colpire le portaerei Enterprise, Lexington e Saratoga e che rallegra Winston Churchill: «mi misi a letto eccitato e felice e con l’animo grato dormii il sonno di chi è stato salvato da un grave pericolo». Le otto indagini avviate dal Congresso durante e dopo la guerra si accompagneranno all’insabbiamento dei fatti: al deferimento alla corte marziale dell’ammiraglio Kimmel e del generale Short, capri espiatori gettati in pasto all’opinione pubblica, seguiranno l’eliminazione e la negazione del rilascio di documenti essenziali e le false testimonianze dei protagonisti della vicenda, proseguite ancora dopo le audizioni del Congresso presiedute da Strom Thurmond nel 1995. Un segreto rimasto a lungo essenziale nella costruzione del mito di quell’“infamia” denunciata da Roosevelt nel suo famoso discorso con cui ottiene il consenso pressoché unanime per dichiarare l’ingresso in guerra degli USA. Il razzismo verso i giapponesi trova sfogo nell’Executive Order 9066, con cui Roosevelt autorizza la deportazione e reclusione in campi di concentramento dei giapponesi statunitensi dalla Costa Occidentale per motivi di sicurezza. Ad essere “evacuati” nei “relocation camps” non sono solo gli “aliens”, ossia i giapponesi stranieri presenti sul territorio, ma anche i cittadini statunitensi di origine giapponese, già naturalizzati da tempo. Circa 110 mila persone vengono alloggiate in 10 siti localizzati in «terreni statali per lo più desertici e disabitati come ex riserve degli indiani d’America o valli di laghi prosciugati», circondati da filo spinato e guardie armate. Tra i deportati, che perdono ogni proprio bene e proprietà, con pesanti conseguenze psicologiche e sociali, ci sono paradossalmente anche le famiglie di soldati in servizio attivo a combattere sul fronte del Pacifico. Pesano, in questi provvedimenti, l’ampia diffusione di teorie razziste tra la popolazione, in continuità con le molteplici leggi di fine ‘800 e inizio ‘900 contro l’immigrazione asiatica, oltre naturalmente al cosiddetto “yellow peril” (pericolo giallo), ossia il timore di un’invasione della costa orientale, che convince della necessità di procedere a “purghe” interne.In realtà già dal 1943 le autorità statunitensi si rendono conto dell’infondatezza di tali provvedimenti, senza però porre termine al fenomeno, che prosegue fino al termine della guerra (l’ultimo campo verrà chiuso nel marzo 1946). Su questi fatti è a lungo calato il silenzio, su pressione delle stesse autorità. È significativo che

«solo negli anni Ottanta fu stabilito, attraverso un report intitolato Personal Justice Deniedche l’Ordine Esecutivo 9066 non fu giustificato da alcuna necessità militare, e, sempre in quegli anni, il Presidente Reagan firmò il Civil Liberties Act che comprendeva scuse formali per l’evacuazione e l’incarcerazione e un risarcimento simbolico di 20.000 dollari per i superstiti dei relocation camps. È interessante notare come né gli italiani né il tedeschi vennero internati (tranne alcuni casi isolati di individui arrestati perché dichiaratamente pro Hitler), né furono oggetto di movimenti anti italiani o anti tedeschi; questo rafforza la tesi secondo cui l’incarcerazione dei giapponesi americani si basò esclusivamente sul razzismo, e sulla convinzione che i giapponesi o, più in generale gli asiatici, fossero troppo diversi e quindi inassimilabili in America, a differenza degli immigrati di origine europea».5

1D. Losurdo, Stalin, cit., p. 252.

2Wikipedia, Teoria del complotto sull’attacco di Pearl Harbor.

3Per la parte che segue, oltre alle tradizionali fonti fin qui usate, si sono consultati nello specifico: U. C. Iacoviello, Pearl Harbor: la vera storia dell’attacco del 7 dicembre 1941Oltrelalinea.news, 29 novembre 2019; S. Morosi & P. Rastelli, Bombe «infami» su Pearl Harbor. Così la guerra divenne mondialeCorriere della Sera (web), 5 dicembre 2016; S. Schiavi, Pearl Harbor: il grande inganno di Franklin Delano RooseveltStoriainrete.com, 2 settembre 2008; M. Pizzuti, Il caso Pearl HarborAltrainformazione.it; D. Swanson, 75 anni di bugie continue: Pearl HarborCounterpunch.orgComedonchisciotte.org, 2 dicembre 2016 [trad. italiana 10 gennaio 2017]; J. A. Powell, La verità su Pearl HarborUnz.comVietatoparlare.it, 16 giugno 2019 [traduz. Italiana 19 giugno 2019].

4Le ultime proposte giapponesi: «il Giappone e gli Stati Uniti si dovevano impegnare a non ricorrere alla forza armata, oltre i confini dell’Indocina francese, nella zona dell’Asia sud-orientale e nella parte meridionale dell’oceano Pacifico; i due Stati avrebbero sfruttato in comune le risorse naturali dell’Indonesia; le relazioni economiche nippo-americane avrebbero dovuto essere riprese al livello normale; il sequestro reciproco dei fondi doveva essere abolito; gli Stati Uniti avrebbero rifornito di petrolio il Giappone; e, infine, il governo americano non sarebbe intervenuto nel “ristabilimento della pace” tra la Cina e il Giappone. Nelle istruzioni consegnate a Nomura dal governo di Tokio si indicava anche che egli poteva promettere che se il governo americano avesse accettato le proposte giapponesi, dopo la conclusione della pace tra il Giappone e la Cina le truppe giapponesi sarebbero state evacuate dall’Indocina». [SU]

5G. Lapertosa, Relocation Camps: l’internamento dei giapponesi americaniOrizzontinternazionali.org, 11 maggio 2017; si è consultato anche, specie per i materiali visivi disponibili, B. Little, Quando gli USA deportavano i giapponesiNational Geographic Italia, 21 febbraio 2017.

 

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