La motosega si inceppa: Milei guarda a Pechino
Il presidente anarco-liberista argentino che aveva sfilato in campagna elettorale sfoderando una motosega, simbolo della sua lotta contro tutto ciò che è pubblico e statale – tracce ematiche di comunismo – si trova costretto a limare non poco il proprio programma sul piano dei rapporti internazionali. Sono quest'ultimi, nella loro innegabile concretezza e mutazione, a richiamare alla realtà il Milei che si era presentato come alfiere senza incertezze del Washington Consensus e impantanato nella visione di un mondo attraversato dal conflitto tra bene e male. Un totale allineamento che lo vedeva impegnato in prima linea nella lotta con il “comunismo decadente” rappresentato da Brasile, Cuba, Nicaragua, Venezuela e, a maggior ragione, Cina. Con i comunisti, promise in campagna elettorale, “non si sarebbero più fatti accordi” anche perché in Cina “le persone non sono libere, non possono fare quello che vogliono, e quando fanno quello che vogliono, le uccidono”. In coerenza con tali premesse astrattamente ideologiche il neo presidente argentino aveva sdegnosamente rifiutato un possibile ingresso nei Brics. Certo a buon ragione lo studioso Patricio Giusto (direttore dell'Osservatorio Sino-Argentino), all'indomani della sua elezione, aveva sottolineato che nel mondo di Milei la “Cina non ha e non avrà alcuno spazio”. Ma la ragione pare essersi infilata nella materia magmatica e in continuo movimento dei rapporti internazionali, ai quali poco piace l'astrattezza ideologica e la fumisteria della propaganda.
Cosa ha determinato il “ravvedimento” - anche se parziale, resta interessante segnale – del presidente argentino, ora intenzionato a organizzare una visita ufficiale a Pechino in occasione del Forum Cina-Celac (Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici) per il 2025? Senza dubbio, da un lato, il crescente ruolo di finanziatore di Pechino nel continente, con oltre 155 miliardi di dollari impegnati, a partire dal 2005, in progetti infrastrutturali e, dall'altro, una disponibilità rivelatasi tiepida da parte di Washington nonostante il totale allineamento politico. Inoltre la prioritaria lotta all'inflazione della “motosega” di Milei si scontra sul terreno con il macigno di quasi il 53% degli argentini in condizioni di povertà.
Il commercio bilaterale è notevolmente cresciuto nell'ultimo ventennio con le esportazioni argentine (prodotti agricoli, litio e altri minerali) agricoli che sono passate dal poco più del miliardo di dollari del 2002 ai quasi 8 del 2022, mentre le importazioni dal gigante asiatico (beni e servizi ad alto valore aggiunto) sono cresciute dai 330 milioni ai quasi 18 miliardi nello stesso intervallo di tempo.
Gli investimenti cinesi in Argentina rigiardano i settori minerario (litio su tutti), quello automobilistico, agricolo (l'80% della carne bovina è indirizzata a Pechino), elettrico (interessati sono il parco voltaico Cauchari, il più grande del Paese, e due progetti idroelettrici), dei trasporti ferroviari e autostradali, quello strategico dell'infrastruttura digitale (impegnate Huawei e Xiaomi) e in quello aereospaziale con un accordo da 300 milioni di dollari per la costruzione di una stazione radar per lo spazio profondo a Neuquen e gestita da China Satellite Launch and Tracking Control, parte della Chinese Strategic Support Force dell'Esercito Popolare di Liberazione. Nel settore bancario, fondamentale per dare respiro all'economia argentina, è stato rinnovato un accordo di swap valutario di oltre 18 miliardi di dollari per sopportare l'interscambio commerciale senza passare dal dollaro. Sebbene Milei abbia rifiutato ogni discussione sull'ingresso nei Brics, eredita comunque l'ingresso argentino nella Belt&Road Initiative e la partecipazione – ma manca ancora il pagamento della quota associativa – nella Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib). Il futuro prossimo, pur tra prevedibili rallentamenti e possibili incomprensioni politiche, dovrebbe confermare un graduale aumento delle relazioni economiche e commerciali tra i due Paesi.
Come si può capire si tratta di una parziale e timida “conversione dello sguardo” - Cina definita in questi giorni come “interessante partner commerciale” - da parte di Milei, tuttavia deve essere affrontata con interesse perché segnala la forza, per quanto relativa, della capacità contro-egemonica di Pechino, in riferimento alla persistente egemonia di Washington, con il suo ampio e variegato reticolato di banche, aziende, enti governativi e culturali e istituzioni/organismi internazionali[1]. Un complesso ricco, in constante crescita e allargamento, che agli occhi di Paesi in via di sviluppo o in difficoltà economiche può presentarsi come un utile approdo in alternativa ad un adeguamento puramente passivo alle tradizionali istituzioni del Washington Consensus, sempre più in affanno e costrette a cedere il passo al dominio della coercizione e della violenza.
[1] Va sottolineato che qui per “egemonia” non si vuole intendere sic et simpliciter “dominio”, ma più precisamente, e in linea con quanto inteso da Gramsci, ma un concetto che travalica il semplice rapporto tra Stati per coinvolgere la struttura economica, sociale e politica e che si esprime attraverso norme, istituzioni e accordi che stabiliscono regole generali, ritenute valide universalmente, per Stati, aziende e attori privati della società civile internazionale.