La nuova naval’niade

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di Fabrizio Poggi

 

La morte il 16 febbraio di Aleksej Naval’nyj nella colonia correzionale N.3 nel Circondario autonomo di Jamalo-Nenets è una tragedia. Ma non per i “motivi” addotti dai megafoni mediapolitici occidentali. Il pregiudicato filo-fascista Aleksej Naval’nyj, da una decina d’anni santificato all’estero quale «principale oppositore di Putin», è deceduto (le prime notizie diffuse dal Servizio penitenziario federale russo parlano di un trombo, ma si attende ancora la conclusione dei medici patologi) a poco più di un mese dalle elezioni presidenziali russe e nel bel mezzo della conferenza sulla sicurezza di Monaco.

Con la rapidità propria di quella cristiana misericordia di cui danno prova dallo scorso 7 ottobre, i rispettabili uomini (e donne) d’onore di cui Naval’nyj era diretta filiazione hanno versato e continueranno ancora per settimane a versar lacrime per l’ennesimo «crimine del regime putiniano», che avrebbe «assassinato sotto tortura» il rappresentante in Russia del banderismo neonazista di Kiev.

Ora, parafrasando le parole del compianto Vladimir Vysotskij che, interpellato (è scomparso nel 1980, tanto per precisare) dai media occidentali in qualità di “dissidente”, rispondeva di avere varie «recriminazioni da muovere al mio governo. Ma non è con voi che ne discuterò», potremmo dire che, da accaniti contro-liberali, avremmo diverse recriminazioni da muovere al governo russo (la detenzione di Boris Kagarlitskij o il nuovo arresto di Sergej Udal’tsov, per dire: chi non li conosce, che si informi) ma non certo per i motivi addotti dai Tajani, dai Biden o Von der Leyen & Co.

Se il vice rappresentante russo all’Onu, Dmitrij Poljanskij, ha messo l’accento sul tempismo con cui, alla notizia della morte di Naval’nyj, la conferenza di Monaco abbia dato la parola alla di lui consorte Julija, quasi come nell’aneddoto del “pianoforte in un cespuglio” (espressione russa che sta a significare un artificioso colpo di scena, chiaramente preparato in anticipo), il politologo Sergej Markov ha dichiarato espressamente a Svobodnaja Pressa di temere per la sorte in carcere (da pochi giorni i domiciliari gli sono stati tramutati in colonia penale) di Kagarlitskij: perché?

«Conoscevo personalmente Naval’nyj» dice Markov; «era senz’altro una persona molto intelligente e preparata; un  intellettuale brillante, coraggioso, originale, ma con un percorso politico a zigzag: dapprima coi nazionalisti radicali, poi coi socialdemocratici, quindi i liberali. Aveva lavorato anche in organi governative, prima di iniziare la carriera politica. Era pieno di ambizione. Circa 12 anni fa era visto da molti come un’alternativa giovane e moderna a Putin».

Poi la svolta, che Markov definisce “faustiana”: un patto col diavolo. La “carriera politica” di Naval’nyj termina nel 2014; mentre «la stragrande maggioranza della popolazione russa sosteneva l’annessione della Crimea, lui no. Rimase senza seguaci. Invece di un enorme gruppo di sostegno» - che indubbiamente poteva vantare all’epoca delle manifestazioni del 2012 - «non gli rimase che una piccola setta, chiamata ironicamente “testimoni di Naval’nyj”» con cui tifava per gli attentati ucraini alle città russe e l’aperta russofobia, lui nazionalista reazionario.

A questo punto Markov non ha remore e dice all’intervistatore: «Lei non mi ha chiesto delle cause della morte di Naval’nyj. Ciononostante, voglio riportare una delle versioni. Aleksej l’hanno ucciso scientemente i Servizi occidentali, apposta alla vigilia delle presidenziali in Russia. E se tale versione ha fondamento, allora è probabile che trovino il modo di uccidere anche Kagarlitskij. È urgente tirarlo fuori di galera».

Si potrebbe certamente controbattere: “ma che razza di regime duro di detenzione c’hanno in Russia, se si fanno ammazzare fra le mani i detenuti che hanno sotto custodia?”; certo, si potrebbe controbattere anche questo, ma siamo purtroppo testimoni quasi quotidiani di ben altre capacità, già alle nostre latitudini.

Si potrebbe anche obiettare, come qualcuno aveva azzardato all’epoca del suo presunto “avvelenamento aereo”, quattro anni fa, di complotti ai vertici russi. Per ora, ci limitiamo però a prendere atto della cosa e a non escludere del tutto la “versione Markov”.

E a proposito di alcune dichiarazioni euro-liberali, la moglie di Julian Assange, Stella, commentando le parole del primo ministro britannico Rishi Sunak, ha detto che se fosse davvero sincero, allora le autorità britanniche libererebbero suo marito. Stella Assange ha criticato anche Ursula von der Leyen, scrivendo che le sue parole sulla morte di Naval’nyj «suonano false», dato il silenzio sulla persecuzione politica di Assange. «Non potete aiutare Naval’nyj» ha detto Stella; ma «potete salvare Assange. La difesa della libertà e della sicurezza inizia in casa propria». Una tale risposta suonerebbe bene anche nei confronti dell’ineffabile Ministro degli esteri Antonio Tajani che si proclama «sempre a fianco di chi lotta per democrazia» e lo fa dalla tribuna del forum forzitaliota sulla sanità italiana, che è un po’ come quelle famose parole dette dal boia al condannato, «ti ammazzo, ma è per il tuo bene».

RIA Novosti ricorda che Aleksej Naval’nyj era detenuto dal 2021 (di sfuggita, ricordiamo che qualche anno prima, a sprezzo del ridicolo, gli era stata accordata una seconda condanna condizionale) allorché la condizionale per la causa “Ives Rocher” (prima condizionale: nel 2014) gli era stata tramutata in reclusione per violazione del regime della condizionale. Dopo vari processi con altre accuse (frode; oltraggio alla corte; estremismo) la pena inflitta era salita a 19 anni e il regime di colonia, da normale a speciale. E tanto per non dimenticare proprio nulla, osserviamo che già nel 2015 un tribunale moscovita aveva presentato a Naval’nyj un conto da 16 milioni di rubli come risarcimento per una truffa operata ai danni dello stato: anni prima, allorché era consigliere del governatore della regione di Kirov, Naval’nyj aveva acquistato legname a prezzo statale, per rivenderlo a prezzo di mercato. Un galantuomo e uomo d’onore, insomma, «ingiustamente perseguitato dal regime».

 

 

 

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