La piazza della finanza e delle multinazionali
di Fabrizio Verde
Quest’oggi in quel di Roma è scesa in piazza l’opposizione di destra al governo del cambiamento composto da Lega e Movimento 5 Stelle. La peggiore destra liberista, in Italia ben rappresentata dal Partito Democratico sempre più avviato sulla strada del Pasok greco, ha mobilitato la (poca) propria gente per opporsi ad alcune timide misure che rappresentano un primo passo nel senso opposto all’austerità neoliberista imperante in Italia da oltre vent’anni.
Il segretario del Partito Democratico, Maurizio Martina, nel proprio intervento ha citato il leader laburista inglese Jeremy Corbyn. Ma può al massimo arrivare alla citazione. E fermarsi. Il programma di Corbyn - secondo tutti i sondaggi ormai in testa alle preferenze del popolo britannico - prevede un massiccio programma di nazionalizzazioni, una Brexit declinata in favore dei ceti popolari, la fine dell’austerità, una rottura netta con il nefasto blairismo che aveva portato la sinistra britannica ai minimi termini.
Quello che è accaduto anche in Italia dove una sinistra ancora in piena ubriacatura neoliberista vi avvia allegramente verso la totale irrilevanza. Non è detto che questo sia un male. Anzi.
Tra i presenti in piazza, l’ex presidente del Consiglio e segretario del partito Matteo Renzi. Il quale si è detto intenzionato a fermare la «deriva venezuelana» verso cui starebbe scivolando il governo italiano.
Farneticazioni a cui ha efficacemente risposto il professor Francesco Erspamer attraverso un post su Facebook: «Chi è andato in piazza per fermare "la deriva venezuelana" (parole di Renzi) non è evidentemente di sinistra e tanto meno socialista. È un liberista all'americana, un apostolo del libero mercato, del consumismo compulsivo e della globalizzazione. Poi, si può discutere se a salvare il mondo saranno la finanza, le multinazionali da un bilione di dollari e la loro deregulation oppure i popoli, le idee, la legge e la morale. Ma mi sono stufato di sentire pariolini e vincenti di vario tipo riempirsi la bocca di parole come antifascismo ed eguaglianza mentre auspicano un golpe militare o economico contro Maduro e qualunque altro governo che si rifiuti di obbedire ai diktat di Wall Street».
Questa corrente politica in via d’estinzione che continua abusivamente a definirsi sinistra, quando in realtà si tratta della peggiore destra neoliberista, possiede un’altra caratteristica: vede il fascismo ovunque. Tranne quello insito tra le proprie fila. Il fascismo dell’austerità, del neoliberismo, del capitale finanziario e della Troika che vorrebbero vedere arrivare in Italia per vincere le ultime resistenze.
Come altro definire il neoliberismo se non fascismo? In regime neoliberista a spadroneggiare è la finanza con lo Stato ridotto a un semplice subordinato. L’austerità richiesta dal settore finanziario diviene un valore supremo, che va a collocarsi al di sopra finanche della politica. Il principio del pareggio di bilancio arriva ad essere inserito in Costituzione (proprio come avvenuto in Italia) rendendo di fatto impossibile ogni cambiamento. Anche timido e di poco conto.
I nostri prodi difensori dell’Italia dal fascismo dovrebbero conoscere quale fu il primo paese ad adottare il regime neoliberista. Il Cile fascista guidato dal generale golpista Augusto Pinochet. Scrive in merito il politologo marxista David Harvey nel saggio ‘Breve storia del neoliberismo’: «Il primo esperimento di creazione di uno stato neoliberista, vale la pena ricordarlo, si verificò in Cile dopo il golpe di Pinochet, avvenuto l’11 settembre 1973 (quasi trent’anni esatti prima che Bremer chiarisse quale regime doveva essere instaurato in Iraq). Il colpo di stato contro il governo democraticamente eletto di Salvador Allende fu organizzato dalle élite economiche nazionali – che si sentivano minacciate dalla politica socialista promossa dal presidente – con l’appoggio delle grandi società americane, della CIA e del segretario di Stato Henry Kissinger. Il golpe represse con la violenza tutti i movimenti sociali e le organizzazioni politiche della sinistra e smantellò qualsiasi forma di organizzazione popolare (come i centri sanitari di comunità nei quartieri più poveri), mentre il mercato del lavoro veniva «liberato» dalle restrizioni derivanti da regolamenti e istituzioni (come i sindacati)».
Spiega inoltre Harvey: «Per contribuire alla ricostruzione dell’economia cilena fu convocato un gruppo di economisti noti come ‘Chicago boys’, in virtù della loro adesione alle teorie neoliberiste di Milton Friedman, che allora insegnava all’Università di Chicago. Lavorando a fianco dell’FMI, i ‘Chicago boys’ ristrutturarono l’economia secondo le loro teorie. Revocarono le nazionalizzazioni e privatizzarono beni pubblici, resero le risorse naturali (pesca, legname ecc.) accessibili a uno sfruttamento del tutto privo di regole (che in molti casi calpestò senza alcuno scrupolo i diritti delle popolazioni locali), privatizzarono la previdenza sociale, agevolarono gli investimenti stranieri diretti e il libero scambio; fu garantito il diritto delle società straniere al rimpatrio dei proventi delle loro operazioni in Cile; alla sostituzione delle importazioni si preferì una crescita basata sulle esportazioni».
Le analogie con le politiche propugnate da chi oggi era in piazza a protestare sono inquietanti.