La profezia di Mann è realtà: l'Europa a 100 anni di Der Zauberberg

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La profezia di Mann è realtà: l'Europa a 100 anni di Der Zauberberg

 

 

 «Volere, si vuole sempre soltanto il destino.

L’Europa capitalistica vuole il suo»

 Thomas Mann, La montagna incantata

 

 

di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico

Cento anni fa, nel 1924, vide le stampe quello che è – a mio modo di vedere – il romanzo più significativo del 900 europeo: Der Zauberberg di Thomas Mann, tradotto in italiano con il titolo “La Montagna incantata”.

Molti considerano quest'opera un bildungsroman, un  romanzo di iniziazione. Apparentemente così stanno le cose, visto che la storia tratta del giovane ingegnere Hans Castorp - rampollo di una ricca famiglia amburghese – il quale, andato in visita al cugino ricoverato per tubercolosi in un sanatorio nella località svizzera di Davos, rimane lì per lunghi sette anni anch'egli colpito da una forma di tubercolosi, peraltro considerata leggera dai medici del sanatorio.

Già la collocazione geografica della storia, ci fa capire che non è solo un bildungsroman ma un vero e proprio “romanzo cosmogonia” che ha l'ambizione di affrescare – secondo logiche europee e occidentali - il senso della vita, della morte e della malattia, così come il senso del tempo ma anche le domande sulla scienza, sulla tecnologia e sul corretto governo della polis. E “nell'alto”, nell'Arcadia della montagna - lì dove è posto il lussuoso sanatorio Berghof di Davos - che si svolge la storia della maturazione di Hans; luogo certamente in contrapposizione “al basso” della pianura, dove si affollano le persone comuni con i loro patemi tipici della vita quotidiana.

Temi alti che possono essere trattati solo da personaggi al di fuori del comune che – in qualche modo – hanno il compito di educare e preparare alla vita il giovane rampollo amburghese. E infatti Thomas Mann riesce ad offrirci personaggi davvero indimenticabili che, a prima vista, sembrano degli dei dell'Olimpo, ma che poi - pagina dopo pagina - sempre più appaiono come degli sfortunati titani, figli di Gea e Urano, destinati ad un'impari lotta con Zeus per la conquista dell'Olimpo.  Quell'Olimpo che è innanzitutto la capacità di intelligere, di capire la vita e il mondo e successivamente di trasformarlo per come si ritiene giusto.

Un'opera titanica che – pagina dopo pagina - vede impegnati personaggi come il gesuita reazionario e comunista Leon Naphta che ci da un'interpretazione cristiano-marxista del mondo così fuori dagli schemi da lasciarci senza fiato. E che dire della sua spina nel fianco, il massone italiano Ludovico Settembrini, convinto che solo il progresso salverà l'uomo dalle barbarie? E poi il dionisiaco olandese Peeperkon  che suggerisce che la salvezza per l'uomo sta nel “sentire” la Natura mentre la sua compagna, madame Clavdia Chauchat, la natura e la vita le sente veramente e non ha certo bisogno di razionalizzare.

E così, mentre i nostri personaggi titanici si susseguono uno dopo l'altro nella scalata all'Olimpo, ci rendiamo conto che è la montagna ad essersi rovesciata e la scalata alle vette è diventata la discesa all'abisso del Tartaro. Se l'Olimpo è fatto di razionalità euclidea e cartesiana l'abisso del Tartaro è fatto di una dimensione irrazionale che giunge ad essere escatologica, da rivelazione quasi apocalittica.

Una dimensione escatologica certamente rappresentata dalla seduta spiritica diretta dal dottor Krokowski, che ci ritroviamo nel ruolo di sacerdote esoterico dopo che per tutta la storia è stato un cantore del metodo scientifico. Ma è soprattutto nella commovente scena finale che questa dimensione escatologica è espressa con una potenza narrativa senza pari:  il narratore – come in un sogno, come in una premonizione – si commiata dal protagonista Hans Castorp, che viene immaginato e descritto nelle trincee della Grande Guerra.

Un romanzo cosmogonia  che tramite personaggi-metafora indaga l'origine e l'evolversi del pensiero europeo e occidentale in tutte le sue sfaccettature; da quelle ottimistiche fondate sul mito del progresso di Settembrini fino a quelle contrapposte del suo antagonista Leon Naphta così profondamente pessimistiche e conservatrici ma assolutamente originali essendo una inaspettata commistione cristiano-marxista (ma sempre fondate sulla razionalità). Certo, il lettore, leggendo le memorabili pagine del primo incontro tra i due alla presenza di Hans, sarà rimasto colpito dalla freschezza e dall'attualità della discussione sul giusnaturalismo e il giuspositivismo anche dopo cento anni da quando sono state scritte. Tanto più questo sarà accaduto se la lettura è avvenuta durante la pandemia di Covid...

Sbalorditive e attualissime sono tutte le riflessioni sulla malattia, sul tempo e sulla morte, ma anche quelle sul potere (vero o presunto) della scienza. E poi, leggendo dei tratti caratteristici dei vari personaggi di tutte le nazionalità  e dei loro discorsi, non si può far altro che constatare che, in realtà, siamo noi – esattamente noi – che, in un eterno ritorno nietzschiano, durante la nostra Belle Epoque (quella che va dalla caduta del muro di Berlino alla grande crisi di Wall Street del 2008) stavamo costruendo la nostra Arcadia Europea apparentemente fondata sulla razionalità, così come gli avventori del lussuoso Berghof  di Davos stavano costruendo la loro, esattamente con gli stessi metodi, gli stessi pensieri e le stesse logiche.

E infatti, esattamente allo stesso modo - sia loro che noi - non ci siamo accorti che la montagna magica si era rovesciata e che la scalata titanica verso l'Olimpo (verrebbe da dire, “il giardino europeo” imitando lo spagnolo Borrell) era diventata una discesa verso l'abisso dell'irrazionalismo.

In quest'opera meravigliosa scrisse profeticamente Mann: «Il progresso? Ahimè, si tratta del famigerato infermo che muta lato continuamente perché spera di trarne sollievo. Il non confessato, ma in seguito universalmente diffuso desiderio di guerra ne è la manifestazione. Verrà, questa guerra, ed è bene, anche se recherà conseguenze diverse da quelle che se ne ripromettono i suoi organizzatori.»

Non c'è altro da aggiungere, tutto è stato già scritto.

Giuseppe Masala

Giuseppe Masala

Giuseppe  Masala, nasce in Sardegna nel 25 Avanti Google, si laurea in economia e  si specializza in "finanza etica". Coltiva due passioni, il linguaggio  Python e la  Letteratura.  Ha pubblicato il romanzo (che nelle sue ambizioni dovrebbe  essere il primo di una trilogia), "Una semplice formalità" vincitore  della terza edizione del premio letterario "Città di Dolianova" e  pubblicato anche in Francia con il titolo "Une simple formalité" e un  racconto "Therachia, breve storia di una parola infame" pubblicato in  una raccolta da Historica Edizioni. Si dichiara cybermarxista ma come  Leonardo Sciascia crede che "Non c’è fuga, da Dio; non è possibile.  L’esodo da Dio è una marcia verso Dio”.

 

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