La rivolta di Minneapolis: rischi di delegittimazione di una giusta protesta
di Sara Reginella *
George Floyd: quarantaseienne afroamericano ucciso a Minneapolis per aver usato una banconota falsa, soffocato con un ginocchio al collo.
Derek Chauvin: agente arrestato, colpevole dell’omicidio commesso senza che la vittima avesse opposto alcuna resistenza.
A seguito della tragedia, Michelle Bachalet, alto commissario dell’Onu per i Diritti Umani, invita gli Stati Uniti a fermare gli omicidi di afroamericani da parte della polizia, ma da Minneapolis scoppiano nell’immediato rivolte e scontri violenti con la polizia, che dal Minnesota si estendono ad altre città.
Oggi, al sesto giorno di protesta, in ben quaranta centri urbani statunitensi è imposto il coprifuoco. La rivolta, fatta di scontri tra polizia e manifestanti, incendi, barricate e saccheggi in negozi, va in parallelo con quella degli hackers di Anonymous, i quali rivendicano la rimozione del sito web della polizia di Minneapolis e l’introduzione nel sistema radio della polizia di Chicago.
La storia degli Stati Uniti non è nuova a questo tipo di rivolte antirazziste. Tornano facilmente alla memoria quella di Los Angeles del 1992, scoppiata dopo l’assoluzione di quattro agenti della polizia, colpevoli del pestaggio dell’afroamericano Rodney King, o quella di Detroit, risalente al luglio del 1967, innescatasi a seguito di un raid della polizia in un club privo di licenza, all’interno del quale si trovavano decine di afroamericani.
Proprio alla fine degli anni Sessanta, gli stessi afroamericani si unirono anche all’interno di movimenti rivoluzionari, come quello delle Pantere Nere, organizzate in azioni di autodifesa nella lotta, in una vera e propria forma di resistenza contro la discriminazione razziale e la repressione poliziesca nei confronti degli afroamericani.
Al di là del riferimento a movimenti organizzati, come quello delle Black Panthers, va sottolineato come la ciclicità con cui negli Stati Uniti ricorrono rivolte violente di questo tipo sia connessa a lunghi periodi di sottomissione e ingiustizie a danno della popolazione afroamericana.
Premessa la condivisione sulle motivazioni alla base di tale rivolta antirazzista, è doverosa una riflessione sulla natura aggressiva dello scontro violento.
Citando studi sul comportamento umano, come quelli celeberrimi condotti dal maestro Erich Fromm, va sottolineato come nella sua visione del mondo l’aggressività difensiva fosse concepita come una reazione naturale che scaturisce nella misura in cui la libertà individuale è minacciata: questo tipo di aggressività è dunque al servizio della vita.
Quando però, a tale aggressività difensiva si uniscono elementi propri della distruttività, si passa ad una forma di aggressività distruttiva che ha come solo scopo l’annientamento. Essa ha più probabilità di esplodere quando l’individuo, isolato e oppresso all’interno di una società disumanizzata, spinto dal dolore, si abbandona a una violenza distruttiva propria di una non-vita.
Tornando alla rivolta nata a Minneapolis, dunque, si osserva come essa stessa corra sempre più il rischio di essere delegittimata perché non sufficientemente organizzata e, dunque, mossa da un’aggressività che anziché essere vitale e difensiva, si rivela sempre più mortale e meramente “distruttiva”, perché esito anche della reazione caoticamente violenta di soggetti vittime di un sistema sociale che non ha messo fine ad anni di discriminazione, isolamento e repressione subite all’interno di esistenze drammaticamente disumanizzate.
Ogni forma di resistenza che si muova a tutela dei diritti umani, sociali e civili, invece, proprio perché legittima, dovrebbe essere organizzata, affinché non si perdano di vista i contenuti della resistenza stessa.
In questo contesto, si inserisce il recente affondo del presidente Donald Trump che, di fronte a tali eventi, ha affermato di voler inserire tra le organizzazioni terroristiche la rete militante internazionale “Antifa-Antifaschistische Aktion”: approfittare dell’aggressività distruttiva della folla e sovra-rappresentarla a livello mediatico, può rivelarsi un mezzo per delegittimare il movimento di rivolta statunitense che ha le sue ragioni di esistere, annichilendo l’intera protesta, identificando capri espiatori come l’Antifa, e disgregando o annientando qualsiasi realtà che, al suo interno, potrebbe strutturarsi come elemento di difesa organizzato.
Di fronte a tali eventualità, occorre opporsi e continuare a sostenere la ribellione partita da Minneapolis, riparandosi dal fumo che viene gettato sugli occhi.
In caso contrario, nell’inferno della protesta di questi giorni, tra le fiamme degli edifici incendiati bruceranno anche ideali e istanze valide: quelle dell’autodifesa, quelle della resistenza ai soprusi e quelle dell’opposizione al razzismo.
L’accesa speranza è che il fuoco che ormai brucia in questi giorni di distruzione sia un elemento di trasformazione: una fiamma protettiva che generi luce nel buio e non fumo caliginoso, ma in assenza di movimenti di protesta sufficientemente organizzati, a fronte di una reazione sempre più distruttiva, a chi è al potere saranno offerte giustificazioni per l’uso di strumenti di repressione ancor più cruenti, che rischieranno di condurre la popolazione a smettere di sostenere la protesta stessa.
Una simile rinuncia rischierà di andare a costituire una altrettanto pericolosa forma di violenza: quella del conformismo passivo di chi, al di là di ogni spirito critico, si offre ad un oppressore che continuerà a sottrarre ossigeno alle nostre vite.
In un tale scenario, “I can’t breathe”, l’ultimo straziante lamento di George Floyd prima della morte, diventerà anche il gemito di chi è costretto in un mondo senza ossigeno, dove la giusta protesta è delegittimata e la resistenza non è ancora sufficientemente ed efficacemente organizzata.