La "rivoluzione Trump" e la variabile Brics nel nuovo ordine economico
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di Fabrizio Verde
La globalizzazione, celebrata per decenni come la forza trainante del progresso umano, si è rivelata essere uno strumento di dominio egemonico delle élite finanziarie occidentali. Dietro la retorica ottimistica del "mondo senza confini" si celava ben occultato un progetto neoliberista che ha sacrificato il benessere collettivo sull'altare del profitto privato. Promossa come inevitabile e benefica per tutti, ha invece acuito le disuguaglianze, destabilizzato intere regioni e minato la sovranità degli Stati nazionali. E ha inoltre riportato – questo aspetto tende a non venire ricordato dagli apologeti neoliberisti – l’incubo della guerra in Europa e nei suoi immediati confini.
Nata con l’ascesa del Washington Consensus negli anni '80 e '90, la globalizzazione ha imposto un modello economico basato sul libero scambio, la deregolamentazione e la delocalizzazione produttiva. Le multinazionali hanno sfruttato i bassi salari dei Paesi del Sud del mondo, mentre le nazioni occidentali hanno assistito alla de-industrializzazione e alla precarizzazione del lavoro. Questo processo ha portato a una concentrazione di ricchezza senza precedenti nelle mani di pochi, mentre la classe media si impoveriva e le periferie del capitalismo globale venivano ridotte a mere colonie economiche.
Oggi, anche i suoi più ferventi sostenitori ammettono che questo modello è in crisi irreversibile. L’annuncio del premier britannico Keir Starmer, che dichiara la fine dell’era globalista, non è che l’ultimo segnale di un crollo annunciato. Ma quali sono le cause di questo fallimento? E cosa ci aspetta nel prossimo futuro?
Starmer accoda il Labour a Trump
Keir Starmer, secondo quanto riportato da The Times, terrà un discorso storico in cui riconoscerà che "l’epoca della globalizzazione è finita". Questa mossa arriva in risposta alle nuove tariffe doganali imposte da Donald Trump, che colpiscono anche il Regno Unito, segnando una svolta verso il protezionismo economico. Starmer, pur criticando i dazi come "sbagliati", ammette di comprendere il "nazionalismo economico" di Trump e il malcontento di quei cittadini che, dopo anni di libero scambio e immigrazione di massa, non ne hanno visto i benefici. Al contrario, hanno assistito alla decimazione dell’industria locale, all’erosione dei salari e quindi all’impoverimento generale.
Un funzionario di Downing Street ha dichiarato che "il mondo è cambiato, la globalizzazione è finita e siamo ora in una nuova era. Dobbiamo dimostrare che il nostro approccio, un governo laburista più attivo e riformista, possa fornire risposte per tutti." Starmer ha già anticipato questa linea in un articolo su The Telegraph , affermando che "il mondo come lo conoscevamo non esiste più". Di fronte alle tariffe statunitensi, il Regno Unito dovrà accelerare i piani per rafforzare la competitività interna, riducendo la dipendenza dagli shock globali.
Il messaggio è chiaro: l'era del libero mercato assoluto è finita, e il protezionismo sta diventando una necessità strategica per salvaguardare l'economia nazionale. Tuttavia, la sfida maggiore sarà trovare un equilibrio tra chiusura economica e cooperazione internazionale, evitando di cadere nella trappola del nazionalismo miope.
Trump e la rivoluzione protezionista: "Faremo di nuovo grande l'America"
Donald Trump, con il suo ultimo atto di guerra commerciale, ha sferrato un colpo decisivo al sistema globalista. Le sue tariffe del 60% sull’acciaio cinese e quelle su Europa e Regno Unito segnano un ritorno al cosiddetto ‘economic patriotism’, un modello che rifiuta il dogma del libero mercato assoluto. In un messaggio ai suoi sostenitori, Trump ha dichiarato: "Resistete, non sarà facile, ma il risultato finale sarà storico. Questa è una rivoluzione economica, e vinceremo… faremo di nuovo grande l’America".
La sua strategia è chiara: riportare la produzione in patria, difendere i lavoratori statunitensi e sfidare la Cina sul piano industriale. Un approccio che, nonostante le critiche dei liberisti, riscuote consenso tra coloro che hanno pagato il prezzo più alto della globalizzazione. Tuttavia, dietro la retorica di "America First" si nasconde il panico di un establishment che vede sfuggirgli il controllo. Per quarant'anni, le élite finanziarie hanno imposto la delocalizzazione selvaggia che ha distrutto il tessuto industriale occidentale, la precarizzazione sistematica del lavoro e l'asservimento degli Stati ai voleri della grande finanza.
Ora che questo modello mostra il conto salatissimo – con intere regioni de-industrializzate e un malcontento sociale esplosivo – la risposta è un becero nazionalismo economico che non mette minimamente in discussione i cardini del sistema. Trump attacca la globalizzazione non per superarla, ma con il malcelato obiettivo di ricostruire un'egemonia statunitense più forte. È la solita vecchia storia: cambiare tutto per non cambiare nulla.
Putin e la critica al modello globalista
Anche Vladimir Putin, da anni, denuncia la crisi del sistema globalista. Già nel 2023, il presidente russo aveva osservato: "È evidente che il modello di globalizzazione plasmato dagli Stati occidentali – naturalmente, nei loro interessi – ha esaurito la sua utilità ed è in profonda crisi. Si sta formando un nuovo sistema di relazioni internazionali, più giusto e democratico, che risponde alle esigenze della maggioranza globale".
Putin coglie un punto cruciale: la globalizzazione è stata uno strumento di dominio unipolare, volto a perpetuare l’egemonia del dollaro e lo sfruttamento neocoloniale. La sua fine apre definitivamente la strada a un mondo multipolare, dove Cina, Russia, India e altri attori emergenti sfidano l’ordine occidentale. Questo scenario rappresenta una sfida per l'Occidente, che dovrà ripensare il proprio ruolo nel mondo e abbandonare l'illusione di un primato indiscusso.
L'Alternativa cinese: socialismo di mercato e sovranità economica
Di fronte al caos neoliberista, la Cina rappresenta l'unico modello credibile di sviluppo nazionale autonomo. Mentre l'Occidente ha abdicato alla sua sovranità economica in nome del dogma del mercato, Pechino ha dimostrato che la pianificazione strategica funziona. Dal 1978 a oggi, 800 milioni di persone sono uscite dalla povertà; la Cina è diventata la fabbrica del mondo mantenendo il controllo sulle sue risorse strategiche; lo Stato guida l'economia invece di esserne ostaggio.
Curiosamente, questo straordinario successo cinese affonda le sue radici in un modello economico che, paradossalmente, l'Italia stessa aveva perseguito con notevole efficacia durante la Prima Repubblica, prima di abbandonarlo per abbracciare il nefasto neoliberismo negli anni '90. La Cina, in un certo senso, ha raccolto il testimone di un sistema che l'Italia ha scelto di dimenticare, trasformandolo in una macchina di crescita economica senza precedenti.
Una delle principali somiglianze tra le politiche economiche della Prima Repubblica italiana e quelle della Cina è l'enfasi sull'industrializzazione guidata dallo Stato. Durante il periodo della Ricostruzione post-bellica, l'Italia investì massicciamente in settori strategici come l'acciaio, l'energia e i trasporti, spesso attraverso enti pubblici come l'ENI, l'IRI e l'ENEL. Questi organismi statali non solo garantivano lo sviluppo di infrastrutture moderne e capillari, ma promuovevano anche una distribuzione più equa della ricchezza, riducendo le disuguaglianze sociali. L'Italia, in quegli anni, era un esempio di come un'economia mista potesse funzionare: lo Stato deteneva il controllo delle leve strategiche dell'economia, mentre il settore privato prosperava grazie a un ambiente regolamentato e protetto.
La Cina ha adottato e amplificato questo approccio, trasformandolo in un modello di "socialismo di mercato" che combina pianificazione statale e dinamismo imprenditoriale. Oggi, Pechino è leader mondiale nelle energie rinnovabili, nello sviluppo tecnologico indipendente (dai chip al 6G passando per l’intelligenza artificiale) e nella creazione di infrastrutture moderne e capillari. Questo modello non è "capitalismo di Stato" come lo intendono i liberisti con vena polemica, ma un vero socialismo di mercato che rifiuta sia l'anarchia del laissez-faire, sia il dogmatismo pianificatore. La Cina ha dimostrato che si può aprire all'economia mondiale senza perdere la propria autonomia, sviluppare forze produttive avanzate mantenendo la direzione politica e competere a livello globale senza rinunciare alla giustizia sociale.
Tuttavia, quanto rende ancora più interessante questa convergenza di modelli è il fatto che l'Italia, dopo aver abbandonato il suo approccio economico basato su uno Stato forte e su un'economia mista, si è consegnata volontariamente alle logiche del neoliberismo, con conseguenze devastanti. La privatizzazione selvaggia degli anni '90, la deregolamentazione dei mercati e la progressiva erosione del ruolo dello Stato nell'economia hanno lasciato il Paese vulnerabile alle crisi globali e dipendente dalle multinazionali estere. L'Italia, che un tempo era un laboratorio di innovazione industriale e di politiche sociali, si è trasformata in un terreno fertile per la disoccupazione, la precarietà e la stagnazione economica.
Invece di imparare dalle sue stesse lezioni, l'Italia ha voltato le spalle al modello che aveva contribuito a ispirare altrove. La Cina, al contrario, ha saputo cogliere l'essenza di quel sistema e adattarlo alle proprie esigenze, portandolo a nuovi livelli di efficienza e successo. Oggi, mentre l'Italia combatte per ritrovare un ruolo significativo nell'economia globale, la Cina domina gli scenari internazionali, dimostrando che un'economia guidata da una visione strategica di lungo termine può essere un motore formidabile di crescita e stabilità.
Questo paradosso storico offre una lezione importante: l'Italia, che un tempo aveva un modello economico tanto efficace da ispirare una potenza emergente come la Cina, ha scelto di abbandonarlo proprio nel momento in cui avrebbe avuto bisogno di consolidarlo.
BRICS+: la nuova frontiera della cooperazione tra popoli
L'allargamento del BRICS+ rappresenta la più grande opportunità per sfuggire alla morsa del capitalismo globale. Con l'ingresso di Iran, Arabia Saudita, Egitto, Etiopia ed Emirati Arabi Uniti, il gruppo ora controlla la maggior parte delle risorse energetiche globali e rappresenta oltre il 50% della popolazione mondiale. Offre un'alternativa concreta al FMI e alla Banca Mondiale, istituzioni dominate dagli Stati Uniti ed Europa.
La Banca dei BRICS (NDB) è già oggi più democratica e rappresentativa delle istituzioni di Bretton Woods, dove Stati Uniti ed Europa detengono diritti di veto. La sfida ora è rafforzare i meccanismi di pagamento alternativi al dollaro, sviluppare catene di approvvigionamento autonome e creare un sistema finanziario al servizio dello sviluppo reale. Questo processo richiederà tempo e impegno, ma rappresenta una via d'uscita dal caos neoliberista.
Unione Europea: un progetto neoliberista al collasso
L'Unione Europea, da tempo celebrata come il simbolo di pace e prosperità, si è rivelata essere uno strumento delle élite finanziarie e politiche che hanno imposto un modello economico neoliberista, guerrafondaio e geopoliticamente insignificante. Incapace di rispondere alle esigenze reali dei popoli europei, l'UE ha privilegiato le logiche del libero mercato a discapito della sovranità nazionale, riducendo interi Paesi in vassalli delle politiche di austerity e deregolamentazione sfrenata. Le élite europee, schierate acriticamente con gli Stati Uniti, hanno contribuito a isolare la Russia e a ostacolare qualsiasi tentativo di collaborazione economica con Cina e BRICS, sacrificando interessi strategici fondamentali sull'altare di un atlantismo miope e masochista. In questo caso bisogna dire che il governo Conte, firmando il Memorandum di intesa con la Cina per la Nuova via della Seta, ci aveva visto giusto. Un accordo poi cancellato dal governo di Giorgia Meloni, in barba al sovranismo tanto sbandierato.
La decisione di imporre sanzioni alla Russia, rinunciare all’energia fornita a basso costo da Mosca e di allinearsi incondizionatamente alle politiche di Washington ha avuto conseguenze devastanti per l'economia europea, portando a una crisi energetica senza precedenti, inflazione galoppante e impoverimento delle classi lavoratrici. Invece di rilanciare i rapporti economici con la Russia – che per decenni è stata un partner chiave per l'energia e il commercio – e di aprirsi alla cooperazione con Cina e BRICS, l'UE ha scelto la strada del confronto e dell'autodistruzione. Questa linea politica non solo ha indebolito ulteriormente il peso geopolitico dell'Europa, ma ha anche alimentato tensioni internazionali che rischiano di degenerare in conflitti su vasta scala.
L'unica mossa sensata sarebbe quella di rompere con l'atlantismo suicida e riprendere il dialogo con la Russia, ristabilendo partnership economiche basate sul reciproco interesse. Contemporaneamente, l'Europa dovrebbe guardare a Oriente, abbracciando la nuova architettura economica rappresentata dai BRICS e dalla Via della Seta cinese. Tuttavia, le élite europee sembrano determinate a proseguire sulla strada del massacro economico e sociale dei popoli europei, dimostrando una totale disconnessione dalle necessità reali dei cittadini. Se questa deriva non sarà invertita, l'Unione Europea è condannata a diventare ancor più irrilevante nello scacchiere globale, con il continente avviato verso un declino irreversibile.
Verso un nuovo ordine economico
La dichiarazione di Starmer, le tariffe di Trump e le analisi di Putin convergono verso un’unica verità: il neoliberismo globalista è morto. Le sue promesse di prosperità condivisa si sono rivelate un illusorio miraggio, un vero e proprio imbroglio, lasciando dietro di sé disuguaglianze, instabilità e risentimento popolare. Ora si apre una nuova fase, segnata dal protezionismo strategico, dalle politiche industriali nazionali e dai conflitti commerciali tra USA, Cina ed Europa.
La domanda ora è: chi saprà costruire un modello alternativo, che unisca sviluppo e giustizia sociale? La risposta definirà il futuro dell’economia mondiale. Una cosa è certa: l’era della globalizzazione neoliberista è finita. E forse, anzi togliamo il forse, questo è un bene.
La crisi attuale non è una semplice recessione: è il crollo definitivo di un sistema che ha messo il profitto prima delle persone. Di fronte a questo sfacelo, abbiamo due strade. Possiamo continuare con il capitalismo nella sua versione trumpiana, caratterizzata da nazionalismo economico senza giustizia sociale, protezionismo senza pianificazione e guerra tra poveri. Oppure possiamo abbracciare la via tracciata dalla Cina e dal BRICS+, fondata su sviluppo sovrano, cooperazione tra pari ed economia al servizio del benessere collettivo.
La scelta è chiara. Il futuro non appartiene al liberismo moribondo, ma ai popoli che sapranno costruire un nuovo internazionalismo fondato sul rispetto delle differenze e la condivisione delle risorse.