La scuola sulla pelle dei precari
Non c’è stato governo italiano che non abbia tentato di affrontare (o eludere) l’annosa questione del precariato scolastico. È il turno ora del governo Meloni, che nel Consiglio dei ministri del 28 marzo ha provato a metterci una toppa, l’ennesima. Non si contestano la buona volontà e le soluzioni tecniche adottate (che dovrebbero almeno ridurre la piaga nei prossimi tre anni), ma il metodo, bipartisan, di ogni altro esecutivo. Vale a dire la mancanza di una chiara e ampia visione che vada oltre l’emergenza (lavorativa ed educativa), sostanziandosi in un effettivo piano di riorganizzazione e valorizzazione di uno dei settori chiave dello Stato moderno: la scuola.
Così, nonostante le “riforme” divenute ormai annuali, nei prossimi anni avremo ancora una pletora di docenti suddivisi per categorie contrattuali, inseriti in graduatorie regionali, provinciali, d’istituto, su materia e su sostegno, costretti a spostarsi di continuo, a tentare concorsi su concorsi, a cumulare crediti formativi per abilitarsi, a seguire corsi nella vana speranza di scavalcare i concorrenti in un processo di formazione interminabile e inutile, se non per le università e gli enti di formazione privati che li “offrono”.
Quasi ogni famiglia italiana ha dovuto confrontarsi con il problema del precariato scolastico. Bravi insegnanti (finalmente in grado di stimolare i ragazzi o di prenderli per il loro verso) che devono abbandonare la classe, rapporti umani che si spezzano, metodi da reimparare, equilibri che si alterano, frustrazioni che si accumulano da ambo le parti. I delicati rapporti che stanno alla base della comunità d’apprendimento lacerati da esigenze amministrative, che trattano docenti e studenti come numeri di un piano aziendale!
La scuola italiana è tra le poche in Europa che da sempre si avvale di un numero assai elevato di docenti a tempo determinato. Attualmente sono circa 190.000, vale a dire quasi un quarto dell’intero corpo docente italiano. Non si tratta soltanto dei cosiddetti “supplenti” (in certa misura inevitabili), ma di un vero e proprio esercito di insegnanti che, pur espletando tutto l’anno l’identico lavoro dei loro colleghi di ruolo, non vengono stabilizzati dal ministero sui posti già disponibili e devono perciò cambiare scuola ogni anno, se pure riescono a lavorare! Con le conseguenze che si possono ben immaginare sulla stabilità della scuola e della funzione ad essa costituzionalmente demandata di istruire i futuri cittadini della Repubblica.
Gli insegnanti precari almeno nei fatti non godono degli stessi diritti dei loro colleghi stabilizzati, sia per quanto riguarda lo stipendio che per i derivanti diritti accessori, tra le cui funzioni v’è non ultima quella di dare dignità sociale ad una professione tra le più nobili. Il loro potere contrattuale è di fatto minore, si sentono spesso soggetti al giudizio dei colleghi di ruolo e delle famiglie, subiscono le pressioni dei presidi, e temono “errori” di segreteria nelle graduatorie. Il fondamento del loro mestiere, la “libertà d’insegnamento”, ne esce spesso indebolito al punto da limitare la consapevolezza dei propri diritti-doveri, barattati con un’acquiescenza che dovrebbe evitare loro il peggio: la disoccupazione.
L’incapacità o la mancata volontà della classe politica e dei sindacati di risolvere questa vera e propria piaga, impedisce insomma a tanti colleghi di espletare con la dovuta serenità una funzione così importante come quella educativa, oltre che di aspirare ad un normale orizzonte di vita. La direttiva europea n. 70 del 1999 contro il precariato, pur avendo posto un freno a questo abuso, continua ad essere di fatto elusa dalla Stato italiano. Tanto che, dalla renziana “Buona Scuola” (2015) in poi, il precariato anziché diminuire è aumentato e l’Ue ha avviato procedure d’infrazione che al nostro Stato costano milioni.
Ai precari così non resta che la via giudiziaria, con innumerevoli ricorsi d’ogni tipo che intasano i tribunali italiani, nel tentativo di vedersi garantire quei diritti che i governi puntualmente negano. È una strada difficile, lunga e costosa, anche per il coacervo di leggi e sentenze (nazionali, costituzionali, comunitarie) nel frattempo accumulatesi. Con situazioni paradossali come quella che riguarda un gruppo di insegnanti del padovano, precari storici tra i primi ad adire i tribunali, la cui storia costituisce un monito per tutti gli altri che ancora volessero semplicemente chiedere giustizia.
Nel quasi-vuoto legislativo di quel tempo (2008), in primo grado fu riconosciuto loro l’abuso dei contratti a tempo determinato e un risarcimento del danno subìto, prontamente erogato. L’appello del ministero, tuttavia, portò la Corte veneziana a revocare il risarcimento – pur riconoscendo l’abuso – perché nel frattempo gli insegnanti erano stati stabilizzati grazie all’improvviso scorrimento delle Gae, le famigerate graduatorie “a scorrimento”, bloccate da più di un decennio. Quindi non in virtù di un concorso, né per via del Piano straordinario di assunzioni della Buona Scuola (entrambi in grado di fornire all’assunzione un orizzonte temporale certo), ma semplicemente per via di un meccanismo amministrativo aleatorio, dai giudici tuttavia ritenuto sufficiente a fornire “riparazione” per tanti anni di sfruttamento. Come se il passaggio in ruolo lavasse via, per sé stesso, anni e anni di ambage e umiliazioni!
All’esito di un dibattito che impegnò i giuristi per molti anni, questa incredibile tesi fu infine avallata pure dalla Corte di Cassazione, di rimando con la giurisprudenza europea nel frattempo prodotta (v. sentenza Rossato). Del diritto europeo la Suprema corte diede una controversa interpretazione “restrittiva”, laddove esso prevede che il risarcimento debba svolgere funzione non soltanto riparatoria per il lavoratore, ma anche chiaramente sanzionatoria e dissuasiva verso lo Stato che ha perpetrato l’abuso. Così, al termine di un iter durato tredici anni (2020), fatto di speranze tradite e angosce per il futuro, a questi insegnanti oggi è imposto pure di restituire l’indennizzo ricevuto, impegnato in famiglia per uscire da quella precarietà per la quale avevano adito fiduciosi i tribunali!
Nell’indifferenza dei politici e delle istituzioni che con la loro ignavia hanno creato il caos per centinaia di migliaia di onesti lavoratori, questi docenti si trovano così doppiamente beffati. Infatti, benché assunti non per esplicita volontà riparatoria dello Stato ma in virtù del loro pervicace amore per la professione, sono ora in procinto di vedersi privati anche di quel minimo, cui avrebbero diritto per il solo fatto di essersi opposti a ciò che lo Stato ha semmai il compito di eliminare, non di praticare. Tornando così a quelle difficoltà economiche che il passaggio di ruolo avrebbe dovuto scongiurare.
E con la conseguenza generale che, sui docenti precari che chiedessero il rispetto della legge, pende d’ora in poi pure la spada di Damocle di una giustizia vendicativa.
(Articolo pubblicato su Micromega)