La sinistra radicale, la Palestina e l'"esempio" Vietnam
di Leonardo Sinigaglia
“Abbiamo alzato il rosso il verde il bianco e il nero
Stretto in pugno la bandiera i colori di Al Fatah
Abbiamo alzato la bandiera partigiana della rossa Palestina
Accanto a quella del Vietnam!”
Così canta il ritornello di una canzone di Umberto Fiora, “Rossa Palestina”, che durante le ultime manifestazioni a sostegno della popolazione di Gaza ha conosciuto una nuova ondata di popolarità. La canzone venne scritta nel 1973, durante la guerra dello Yom Kippur, e nel suo testo si univano simbolicamente la lotta di liberazione del popolo palestinese e del popolo vietnamita. In quegli anni la “bandiera del Vietnam” era stata infatti “alzata” dalla gran parte dei movimenti di contestazione in solidarietà alle vittime della guerra d’aggressione condotta dagli Stati Uniti in Indocina, e nelle manifestazioni di piazza non era raro trovare i colori dei Vietcong o quelli della Repubblica Democratica del Vietnam, oltre che riferimenti a Ho Chi Minh.
Ma se la sinistra radicale fu veloce ad “alzare la bandiera del Vietnam”, altrettanto fu rapida nel riporla nel cassetto e dimenticarsene. Degli oceanici cortei colmi di richiami alla lotta dei Vietnamiti contro l’imperialismo già a pochissimi anni dalla canzone di Fiora non sarebbe rimasto letteralmente nulla. Se era stato facile mostrare solidarietà ai bambini colpiti dal Napalm e ai contadini sventrati dai colpi delle mitragliatrici degli elicotteri americani, si sarebbe rivelato impossibile per certi “compagni” mostrare lo stesso interesse e la stessa solidarietà per le istituzioni, il partito e il popolo impegnati in un processo di costruzione politica ed economica volto a ridare una casa a quegli stessi bambini e strappare dalla povertà quei contadini. Ironicamente, i motivi di ciò sono proprio suggeriti dalla canzone: il Vietnam, così come la Palestina, era da sostenere in quanto “partigiano” e “rosso”, concetti che tradotti non significavano nient’altro che “apparentemente destinato alla sconfitta in una lotta impari” e “rappresentato in maniera compatibile con la sinistra occidentale”. Dal momento tale che le forze vietnamite costrinsero gli invasori statunitensi alla fuga e schiacciarono il regime fantoccio del Sud, finiti i massacri di bambini e i bombardamenti sui civili, il sostengo al Vietnam perse tutto il romanticismo che appartiene alle cause disperate. Per di più, vinta la guerra, i vietnamiti si trovarono davanti compiti poco interessanti per studenti universitari ed estremistucoli vari, come la costruzione economica e l’edificazione di un potere socialista in tutto il paese, compiti che impongono un confronto serrato e ben poco retorico con la realtà materiale fondato su ordine, rigore duro lavoro e pragmatismo, e perciò intrinsecamente incompatibili con le sensibilità ribellistica dell’estrema sinistra occidentale.
Che dire quindi della “bandiera della Palestina”? Seguirà questa la sorte di quella del Vietnam? I segnali ci sono tutti. L’innamoramento dell’estrema sinistra occidentale, soprattutto di quella contemporanea, per la causa palestinese è frutto degli stessi percorsi mentali che portarono alla temporanea simpatia per i Vietcong: la Palestina è vista come l’eterno oppresso, il popolo senza speranza per definizione, il bambino che lancia le pietre al carro armato, la madre che piange i figli uccisi dalle bombe sioniste, e la lotta per la sua liberazione viene completamente falsificata ignorando le sue caratteristiche politiche e soprattutto le sue finalità, ossia la costruzione di uno Stato nazionale capace di costruire un futuro prospero per gli abitanti del paese. Nella mente dei “disobbedienti” la Palestina non può vincere, anzi, non deve vincere, perché altrimenti non sarebbe più possibile battersi il petto e piangere pubblicamente per l’oppresso, non sarebbe più possibile compatire le vittime e sentirsi moralmente superiori mandando la propria “solidarietà internazionalista” a milioni di persone costrette a subire fame e violenza. I palestinesi devono continuare ad essere sconfitti e oppressi, perché se dovessero mai vincere ecco che la loro causa non sarebbe più “pura”, ma anzi corrotta dalle nefasta necessità di confrontarsi con la realtà materiale. E’ ragionevole pensare che quando sarà costruito uno Stato palestinese internazionalmente riconosciuto e Israele sarà uscito dal conflitto attuale se non totalmente sconfitto almeno in via di decomposizione, la bandiera palestinese, ormai diventata quella di un qualsiasi “Stato nazionale”, sarà gettata nel dimenticatoio, dove andrà a fare compagnia a quella del Vietnam.
Due tra le principali caratteristiche dell’estrema sinistra, il feticcio della purezza e quello per la sconfitta, cospirano perché questo accada. Più che parlare del “se”, è bene pensare al “quando”. E questo “quando” potrebbe essere molto, molto presto.
Innanzitutto, nonostante il brutale assedio e l’assassinio di decine di migliaia di persone, i sionisti sono più lontani che mai dall’ottenere un qualsiasi tipo di vittoria. Gli ostaggi catturati non sono stati rilasciati, e numerosi sono persino stati uccisi dalle bombe israeliane, uno tra i tanti segni che dimostrano l’ormai chiaro disinteresse di Netanyahu verso la loro sorte. Le capacità militari di Hamas non sono state intaccate, e la presenza militare diretta sionista a Gaza, oltre ad essere stata fortemente ridimensionata, vive letteralmente assediata dalle forze della resistenza, che ogni giorno distruggono veicoli blindati ed eliminano pattuglie. Sul fronte Nord la situazione è forse ancora più preoccupati, con una zona lunga decine di chilometri evacuata dai coloni e giornalmente colpita da Hezbollah, che così facendo immobilizza gran parte delle risorse militari di Tel Aviv, alimentando, e non poco, il conflitto sociale interno all’occupazione. Sul fronte Sud la situazione è molto simile, con la marina militare statunitense che si è dimostrata totalmente incapace di porre fine all’embargo posto in essere dallo Yemen che rende il Mar Rosso intransitabile per le navi collegate a Israele. Nell’Est la Cisgiordania è sul punto di esplodere, con pesanti scontri costati numerose vittime alle forze d’occupazione che rivaleggiano per intensità con quelli di Gaza. Inoltre, su tutto lo scenario pende la spada di Damocle della risposta iraniana all’assassinio di Ismail Hanyeh.
Se la vittoria sionista non appare vicina, il cammino verso la costruzione di uno Stato palestinese sembra essere a buon punto, reso possibile dalla globale trasformazione in senso multipolare del mondo.
Il 22 luglio scorso quattordici organizzazioni palestinesi, tra cui Hamas e al-Fatah, si sono incontrate a Beijing stabilendo una cornice unitaria di lotta per la costruzione di uno Stato palestinese indipendente, superando le divisioni che a lungo hanno indebolito le forze della resistenza. La Dichiarazione di Beijing lì sottoscritta testimonia la volontà di procedere uniti verso questo obiettivo, confermata nei fatti dall’improvvisa crescita del numero e dell’intensità delle operazioni della resistenza nella Cisgiordania, area controllata da al-Fatah e che hanno visto il protagonismo dell’ala militare di questo partito, le Brigate Martiri di al-Aqsa. Il fatto che ciò sia frutto di una convergenza politica nata dallo sforzo diplomatico della Repubblica Popolare Cinese non deve sorprendere, in quanto proprio paesi come la Cina e la Russia hanno mostrato sin da subito un altissimo grado di solidarietà (concreta) con la resistenza palestinese, sostenendone le ragioni in sede ONU e impedendo l’isolamento internazionale ospitando di frequente delegazioni delle forze che la compongono, come testimonia il caso dei diversi viaggi compiuti dai rappresentanti di Hamas nella Federazione Russa. La notizia degli ultimi giorni sulla volontà della Palestina, rappresentata dall’Autorità Nazionale Palestinese, di unirsi ai BRICS, non è che l’ovvio risultato di un naturale processo d’avvicinamento.
La resistenza palestinese, confrontandosi quotidianamente con la realtà materiale, riesce perfettamente a capire quali sono gli schieramenti che oggi si fronteggiano nel mondo. Non vede “opposti imperialismi”, non ha la vista annebbiata da fantasiose teorie dal sapore anarcoide né tantomeno è mossa dalla necessità di compiacere sensibilità liberali imbevute di ideologia borghese, “queer” e disobbediente. La resistenza palestinese comprende che la propria lotta è inseparabile da quella in atto globalmente per la distruzione dell’egemonia statunitense e la costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso.
Sono stati gli enormi passi avanti compiuti da questa lotta ad aver aperto gli spazi d’azione che hanno reso possibile il 7 Ottobre e hanno impedito una risposta decisiva da parte delle forze occidentali. E’ il nascente ordine multipolare che permette oggi al progetto di edificazione di uno Stato nazionale palestinese di uscire dalla mera rivendicazione per diventare realtà. E sarà proprio il mondo multipolare a consentire a quest Stato di spazzare via le macerie della guerra e di costruire una vita degna di essere vissuta per i milioni di palestinesi, di ogni religione, che abitano quella regione. Ma questo non sarà un “tradimento”, una “macchia” destinata a corrompere la purezza, come sostiene la sinistra disobbediente, ma la naturale continuazione della lotta di liberazione iniziata nel 1948, anzi, sarà la sua elevazione a uno stadio più alto.
Come giustamente venne notato da Samir Amin, la questione dello sviluppo è intrinsecamente critica rispetto all’ordinamento capitalista perché contesta la polarizzazione internazionale fondamento dell’imperialismo. La lotta contro la povertà e per l’edificazione economica e politica è uno stadio successivo, più avanzato, della lotta di liberazione. A tutti gli effetti è un’intensificazione della lotta di classe che già sta venendo condotta in Palestina, dove le forze dell’imperialismo si scontrano contro quelle dell’anti-imperialismo. Senza i BRICS, senza la poderosa forza economica cinese, senza l’impegno della Federazione Russa e senza l’appoggio iraniano, questo sviluppo non potrebbe nemmeno essere ipotizzato, tanto meno messo all’ordine del giorno.
L’estrema sinistra sogna una Palestina “queer”, “rossa” (a modo loro) ed eternamente sconfitta. La realtà mostra una Palestina parte della costruzione di un mondo multipolare, una Palestina vittoriosa destinata alla prosperità. E’ naturale che la sua bandiera sarà abbandonata da molti, dagli opportunisti wahabiti ai disobbedienti occidentali, ma queste defezioni non conteranno nulla davanti a ciò che la Palestina sta conquistando.