La transizione ecologica e i volenterosi carnefici

Nella sua ricerca di una base elettorale sui temi ambientali, la sinistra si presta così al gioco del grande business internazionale

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La transizione ecologica e i volenterosi carnefici

 

La Durezza del Vivere (@durezzadelviver)

 

La transizione ecologica porta con sé un carico di conseguenze che andrebbero attentamente valutate prima che possano provocare danni. Ma a quanto sembra l’euro-Titanic, ancora una volta, è lanciato a tutta velocità e non ha intenzione di frenare né di cambiare rotta, illudendosi forse che prima o poi l’iceberg prossimo venturo si sciolga prima dell’impatto.

Lo scorso 14 luglio la Commissione Europea ha presentato un corposo pacchetto di norme, chiamato Fitfor55, che nelle intenzioni dovrebbe abbattere del 55% le emissioni generate in Unione Europea entro il 2030. In sintesi, è un insieme di norme che faranno aumentare il costo del consumo di energia, comunque inteso (dai trasporti al riscaldamento). Un salasso epocale che è persino difficile stimare nell’entità.

Arriverà pure un momento in cui qualcuno dovrà porsi il problema della agibilità politica di queste misure. Sì, perché per ora la Commissione ha lavorato “al riparo dal processo elettorale”, come Mario Monti ha icasticamente tratteggiato anni fa. Fra pochi mesi, però, queste proposte andranno tradotte in atti efficaci nei vari stati nazionali e a metterci la faccia dovranno essere parlamenti e governi nazionali.

Oggi, a sposare le tesi ambientali più estreme è soprattutto la sinistra europea, alla ricerca disperata di temi forti con i quali riprendersi un elettorato ormai distante e disilluso. Ripudiata la lotta di classe, cancellati i lavoratori e trasformati in partiti liberal-progressisti, a soggetti politici come il PD serve una componente ideologica radicale per rivitalizzare la partecipazione elettorale e raccogliere voti, soprattutto tra i giovani, che non a caso sono l’obiettivo principale della propaganda di sinistra. Greta Thunberg è il testimonial perfetto. Il thunberismo è un misto di lotta generazionale (la colpa è degli adulti!) e lotta ai cattivi e pigri governi. Quei governi che però sono espressione di sistemi democratici, per cui la critica thunberiana è in realtà una critica alla democrazia tout-court. Ma a questo livello di analisi gli esponenti di sinistra non arrivano, lasciamoli dormire.

Jus soli, genere, minoranze sono temi sociali verticali rispetto ai quali un ambientalismo forte, orizzontale, può fare da collante politico e allo stesso tempo attrarre una fetta di astensionisti cronici o di delusi da altri partiti (come i 5 Stelle, ad esempio). Il terreno della raccolta di consenso per la sinistra è questo e lo sarà sempre di più nei prossimi anni.

Nella sua ricerca di una base elettorale sui temi ambientali, la sinistra si presta così al gioco del grande business internazionale. Al già consolidato appoggio di principio alle multinazionali digitali designate dall’acronimo GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), nel nome di un idealizzato progresso globale senza confini e senza identità, si affianca ora quello al blocco industriale e finanziario tedesco, principale motore del Green Deal europeo. Ciò consente peraltro una saldatura con i democratici americani come Sanders e Ocasio-Cortez, che hanno trovato in Biden un simulacro spendibile.

I liberal-progressisti non hanno alternative, se vogliono riconquistare una base elettorale oggi dispersa e fragile: sfruttare l’onda mediatica sviluppata dalle multinazionali digitali e ambientali per catturare consenso da monetizzare in termini elettorali. Il futuro pianeta “sostenibile” e “digitale” diventa il nuovo ideale cui tendere e per cui lottare. Poco importa se questo sia davvero fattibile o desiderabile tout-court,  nei modi in cui arrivarci come nell’esito.

Come sappiamo, però, il racconto della transizione ecologica è ricco di incongruenze e contraddizioni, alcune lampanti.

L’Occidente ha costruito il proprio benessere facendo leva per un secolo sui combustibili fossili (poco efficienti, forse, ma abbondanti, poco costosi e semplici da utilizzare) ed oggi vorrebbe smettere di utilizzarli obbligando anche i paesi in via di sviluppo. Questi stanno vivendo però un progressivo aumento della domanda interna e di consumi privati, sono in grado di competere sui mercati mondiali e stanno faticosamente costruendo una propria classe media. Le politiche ambientali aggressive mettono a rischio questo sviluppo, alzando l’asticella a un livello irraggiungibile per questi paesi. Quale politico può credibilmente sostenere politiche ambientali radicali in quei paesi? Sulla base di quale consenso?

Siamo all’assurdo per cui i ricchi incentivi a pannelli solari e impianti eolici, che danno grandi ritorni sull’investimento, sono sostenuti dalla popolazione più povera, assieme ai maggiori costi necessari a mantenere in equilibrio la rete elettrica (messa sotto stress dalla intermittenza delle fonti rinnovabili). La tassa ambientale è già nei fatti e non è solamente monetaria, sta anche nella assenza di alternative. Chi non potrà permettersi un’auto elettrica dovrà indebitarsi o andare a piedi, e questo creerà ulteriori disuguaglianze. L’aumento dei prezzi energetici creerà il fenomeno, già diffusissimo, della povertà energetica.

Il Recovery Fund è in definitiva una immensa partita di giro che serve a ridare fiato al blocco industriale e finanziario franco-tedesco e, al contempo, istituzionalizzare il vincolo esterno (le riforme richieste dall’Europa). Come già fu durante la crisi dei debiti sovrani nel 2011, ancora una volta assistiamo in Europa a decisioni imposte da tecnocrati orientati politicamente che non tengono conto della realtà e perseguono un modello teorico irrealizzabile dalle conseguenze nefaste. Scavalcando le democrazie nazionali, si impongono modelli di sviluppo one-size-fits-all, dove la misura è, ovviamente, quella tedesca.

La sinistra, ancora una volta, si appresta ad interpretare il ruolo che sin qui le è riuscito meglio, quello di volenteroso carnefice.

 

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