La «transizione energetica», Gramsci e la rivoluzione passiva

La «transizione energetica», Gramsci e la rivoluzione passiva

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di Cristiano Sabino*

Davanti alla sconfitta rappresentata dal fascismo, Gramsci, in carcere, riflette sulle ragioni che hanno determinato il collasso del movimento progressista e – in generale – la crisi profonda degli stessi apparati e dei valori legati al liberalismo moderno e il contestuale prevalere di posizioni barbariche laddove si pensava che ormai dominassero l’alta cultura, il progresso, la civiltà e i diritti civili.

Contro le interpretazioni ottimistiche che dominavano all’interno del mondo liberale che derubricavano il fascismo ad un fenomeno passeggero (Benedetto Croce) e in antitesi alle letture superficiali del mondo socialista e comunista che riconducevano il fascismo a niente di nuovo e di originale rispetto alle vecchie destre borghesi e nazionaliste (Amadeo Bordiga e Giacinto Menotti Serrati), Gramsci aveva capito che la forza del fascismo risiedeva proprio nella capacità di assumere elementi di modernizzazione provenienti dai settori sociali più avanzati e allo stesso tempo di sterilizzare la partecipazione popolare.

La "rivoluzione passiva" è dunque un concetto chiave nella teoria politica di Antonio Gramsci, utilizzato per descrivere un tipo di trasformazione sociale e politica in cui i cambiamenti avvengono senza una mobilitazione attiva delle masse popolari. Gramsci lo impiega per analizzare processi storici in cui il cambiamento non avviene attraverso una rivoluzione diretta e aperta, ma piuttosto come un processo graduale e controllato dall'alto, spesso senza sconvolgimenti radicali e con un compromesso a ribasso tra le classi dominanti per tagliare fuorii subalterni.

Il contrario di «rivoluzione passiva» è la «rivoluzione integrale», cioè l’«irruzione delle masse nella storia», il protagonismo popolare, la voce dei subalterni. Per raggiungere questo obiettivo è necessario rinsaldare e rendere virtuoso un legame «organico» tra «intellettuali e popolo» e questo legame Gramsci lo chiama «egemonia».

Il ruolo degli intellettuali diventa dunque cruciale, perché sono loro che costruiscono il legame tra alto e basso, tra dirigenti e diretti e che scelgono, in ogni fase di trasformazione storica, da che parte collocarsi, cioè se agire organicamente agli interessi dei subalterni o se diventare funzionali agli interessi dei settori dominanti (oggi diremmo le élites).

Non voglio scrivere un saggio su Gramsci, però ancora una volta le categorie del pensatore e rivoluzionario sardo sono indispensabili per comprendere il nostro presente e la nostra Sardegna, visto che molti di questi concetti – come ha spiegato bene Gianni Fresu nel suo ultimo libro Questioni Gramsciane – provengono da una lunga riflessione sulla questione coloniale sarda che – sotto tanti aspetti – non ha mai cessato di esistere e che oggi riemerge sotto diversi aspetti.

Le caratteristiche fondamentali della rivoluzione passiva schematicamente sono:

Riforme dall'alto: Il cambiamento è gestito dalle élite, che implementano riforme per prevenire o neutralizzare un'insurrezione popolare o per preservare il loro potere, piuttosto che a seguito di una pressione dal basso.

Integrazione delle forze popolari: Le classi dominanti cercano di integrare alcune richieste o elementi delle classi subalterne per cooptarle, evitando così un conflitto diretto.

Mantenimento dello status quo: Anche se possono avvenire cambiamenti significativi, l'obiettivo della rivoluzione passiva è mantenere il sistema di potere esistente, evitando una rottura radicale.

Un esempio classico di «rivoluzione passiva» è il “Risorgimento italiano”, cioè il processo di unificazione statale italiano che fu guidato dall'alto, da un'élite politica e sociale (i "moderati"), senza una partecipazione attiva e consapevole delle masse contadine. La parte più radicale del processo, rappresentata dal cosiddetto Partito d’Azione (Garibaldi, Mazzini, ecc..) non pose mai la questione sociale, cioè all’epoca la questione della terra ai contadini e la riforma agraria e perciò subì la direzione della compagine moderata (Cavour).

La «transizione energetica»come rivoluzione passiva

«Rivoluzione»per due motivi: perché rappresenta indubbiamente una modernizzazione, rispetto alle energie fossili e al vecchio modo di produzione elettrica che per sua natura è verticale e padronale. Infatti, almeno potenzialmente le FER sono capillari e policentriche e rappresentano una occasione di gestione democratica, popolare e comunitaria della produzione energetica che oggi è la base della medesima produzione industriale. Ma rivoluzione anche nel senso che rappresenta un trauma con pochi precedenti nella storia, una trasformazione radicale del territorio e un cambiamento repentino nello stile di vita.

«Passiva» perché in effetti la transizione è soltanto tecnologica, ma non è politica, perché il metodo attraverso cui essa viene imposta dai vertici dello Stato italiano (a prescindere dai Governi) rende passivi i subalterni e i loro territori che sono poi coloro i quali subiscono maggiormente gli effetti traumatici e violenti di questo cambiamento.

Come il Risorgimento, come il fascismo

Da questo punto di vista il cambiamento epocale che stiamo vivendo e che purtroppo stiamo subendo, è speculare al Risorgimento e al Fascismo, cioè rappresenta una modernizzazione senza coinvolgimento dei subalterni (persone, comunità, territori sacrificati), una rivoluzione (tecnologicamente parlando) senza rivoluzione (cioè senza alcuna partecipazione e coinvolgimento popolare), in poche parole: una rivoluzione passiva come lo furono il Risorgimento e il Fascismo.

Ad oggi, la rivoluzione passiva è ancora lo strumento più funzionale utilizzato dalla Reazione, dalle forze conservative, dalle direzioni antipopolari per sterilizzare e spezzare ogni ipotesi anche remota di trasformazione sociale. E stiamo bene attenti, nessun processo è soltanto tecnico, economico, industriale, perché ogni trasformazione su questo piano implica, sempre, sia un cambiamento nella società, sia anche un orizzonte di idee e valori che lo connotano in una cerca direzione.

Quindi la cosiddetta “rivoluzione energetica” non è affatto un processo di trasformazione delle modalità della produzione di energia, ma costituisce unenorme processo rivoluzionario passivo in senso politico che si basa sul rafforzamento in senso elitario e corporativo delle élites politiche e su una contestuale marginalizzazione crescente delle comunità, delle periferie, dei territori fragili e subalterni.

La riconversione energetica passiva e gli intellettuali

A questo punto e alla luce delle categorie gramsciane, possiamo riformulare la dicitura di «transizione energetica» -o «transizione ecologica» o anche «rivoluzione energetica» -spogliandola del suo connotato ideologico e propagandistico e ricondurla ai suoi elementi di realtà. Ciò che sta avvenendo sotto ai nostri occhi è una epocale ristrutturazione (capitalistica) da un sistema di produzione ad un altro, ma questo non implica alcuna transizione politica da un sistema verticista ad uno di democrazia energetica. Anzi, con la “transizione energetica” viene garantito, e per molti versi rafforzato, l’elemento verticistico, padronale e coloniale e, soprattutto, restano inalterati o addirittura peggiorano, i vincoli di subalternità coloniale tra centri decisionali e periferie sottomesse.

Il ruolo degli intellettuali patinati di progressismo risulta da questo punto di vista cruciale e assume la funzione di una giustificazione sistematica di tale riconversione, tutta interna al medesimo ambito di interessi e di investimenti. Faccio solo alcuni esempi. In un comunicato di Sinistra Futura, lista politica che si fregia di rappresentare gli elementi più progressisti e avanzati del cosiddetto “campo largo” sardo, possiamo leggere una nota di viva preoccupazione davanti alla mobilitazione popolare che – anche sostenuta dalla «campagna mediatica che giornalmente attacca il governo della Regione sulla legge 5/2024», arriva addirittura a mettere «in discussione i fondamenti della nostra repubblica parlamentare». Questa pattuglia di dirigenti e intellettuali progressisti giunge dunque a sostenere che, davanti all’esercizio del potere statale, «le istituzioni devono essere sempre difese perché consentono il nostro vivere democratico al di fuori del quale ci sarebbero solo caos e confusione» (https://www.facebook.com/sinistrafutura.sardigna/posts/817559923840110?ref=embed_post ).

Una posizione che, paradossalmente, va a coincidere con le motivazioni dell’impugnazione della stessa legge regionale n.5/2024, meglio nota come legge per la moratoria, che ribadisce la postura autoritaria e centralista dello Stato difronte a qualunque, anche se timida e temporanea, istanza di autodeterminazione(https://www.affariregionali.it/banche-dati/dettaglioleggeregionale/?id=127248).

Se la sinistra del Campo largo arriva così ad una sorta di amor fati statale, assai compatibile con la destra più radicale, dove il banco (le istituzioni statali) ha sempre ragione e il popolo può discutere quanto vuole, ma poi deve arrendersi alle magnifiche sorti e progressive decise sulla sua testa, senza alcun interesse e senza alcun coinvolgimento democratico, il generatore automatico di panegirici delle rinnovabili intese come entità metafisiche buone al di là del bene e del male, lavora intanto a pieno regime.

Così Lorenzo Tecleme ha pubblicato su Fanpage un “reportage”il cui titolo assolve ad una precisa funzione mitologica: polarizzare il conflitto in corso tra forze del bene (quelle che vogliono le rinnovabili) e forze del male (quelle che lottano contro le rinnovabili).

L’articolo in questione,Perché in Sardegna nessuno vuole l’energia eolica(https://www.fanpage.it/attualita/perche-in-sardegna-nessuno-vuole-lenergia-eolica/), in effetti ha solo l’apparenza di un reportage, ma in realtà risulta un manifesto della colonizzazione. Dico questo perché se da una parte offre uno spazio (abbastanza limitato) alle voci che sul territorio stanno animando la mobilitazione popolare, dall’altra la pars costruenssi concentra sulle ragioni indiscutibili («cosa dice la scienza?») che derubricano a posizioni “nimby” la resistenza popolare: «il paesaggio è la prima preoccupazione che emerge in chi si oppone all’arrivo delle pale eoliche in Sardegna».

Dopo la riduzione del grosso della protesta a «paesaggismo», il secondo e ben più funzionale tassello per depotenziare la mobilitazione in corso è l’accusa di «alleanze insolite» tra mobilitazione popolare e gruppo editoriale Zuncheddu. Ormai questo dito puntato è diventato la variante sarda del noto adagio neofascista «e allora le foibe?». Sostanzialmente si accusa la mobilitazione popolare di essere un branco di pecore mosse dalle sapienti manine del gruppo editoriale Zuncheddu e, in particolar modo, dalla figura di Mauro Pili«già presidente di Regione a cavallo del 2000, poi deputato nelle fila di Forza Italia e ora caporedattore del giornale».

La gherminella è tanto semplice quanto efficace: prima si fanno parlare Gigi Pisci e Maurizio Onnis e si riporta fedelmente, anche se piuttosto sinteticamente, la loro posizione sulla denuncia alla speculazione energetica, immediatamente dopo si mette in luce la vera eminenza grigia che muove i fili e che, nel migliore dei casi, usa la buona fede dei poveri militanti per realizzare i suoi scopi come una sorta di parassita zombie che si impossessa della prassi altrui per realizzare i suoi obiettivi, cioè il gas e il metano.

Nella narrazione in questione gli editoriali di Pili non sono uno dei tanti effetti della mobilitazione popolare, bensì avviene piuttosto il contrario: «i suoi appassionati editoriali contro “l’invasione dei signori del sole e del vento” e a favore dell’arrivo del metano, per Pili la vera opzione energetica da perseguire, hanno un enorme impatto sul dibattito pubblico».

A smontare questa narrazione basta una sola obiezione: Mauro Pili ha scritto decine di editoriali contro le servitù militari ed è stato pure a processo per essere entrato in un poligono militare (https://www.ansa.it/sardegna/notizie/2021/04/16/entro-in-base-militare-assolto-ex-deputato-sardo-mauro-pili_679875c0-2e9e-4985-a18c-1dde478e28db.html ). Chi direbbe che il movimento contro l’occupazione militare fondamentalmente poggia sul «paesaggismo» e sugli «editoriali di Mauro Pili?

A completare la manipolazione funzionale a presentare la “conversione energetica passiva” in nuova “ecologia sociale” buona in assoluto, arrivano due paragrafetti dal titolo “Cosa dice la scienza?” e “L’isola in fiamme”. Il primo – come si può facilmente immaginare – assolve ad una precisa funzione ideologica di tipo scientista, che corre parallela all’esaltazione della ragion di stato di Sinistra Futura: discutete pure, ci mancherebbe, siamo in democrazia, poi però decidono le istituzioni e gli scienziati che hanno sempre ragione per partito preso.

La scienza però dice tante cose. Dice che «la Sardegna è molto lontana dall’abbandono del fossile» perché «il 75% della corrente è ancora prodotta coi combustibili fossili», ma dice anche che oggi esportiamo il 40% di energia e questo non ce l’ha certamente ordinato il medico. Insomma, il livello di inquinamento da carbone e fossili è alto anche perché qualcuno ai piani alti ha deciso che la Sardegna deve essere la caldaia della penisola e che dobbiamo esportare energia. Insomma queste – come si può facilmente immaginare – sono questioni politiche, non tecniche o scientifiche, che nessuno scienziato può risolvere restando sul piano della mera discussione tecnico-scientifica.

La seconda gherminella è l’utilizzare l’immagine del fuoco per sminuire e delegittimare la protesta. In un passaggio che mi crea imbarazzo riportare, si avanza l’idea che i movimenti popolari contro la colonizzazione energetica siano insensibili all’annoso dramma che i sardi vivono ogni estate da più di un secolo (ne parlava addirittura Gramsci nei suoi articoli, ben prima del riscaldamento globale!): «L’aumento delle temperature e l’arrivo della stagione degli incendi non hanno fermato le proteste. Anzi, nelle ultime settimane la tensione sull’isola è salita. Sulla costa est gli espropri per la costruzione dell’elettrodotto hanno trovato l’opposizione di centinaia di attivisti».

Come a dire: non si fermano neanche con i roghi, sono attivisti ma un po’ decerebrati questi poveretti, manipolati da Mauro Pili, dai petrolieri, dai massoni, dagli illuminati. Vanno in piazza a prendere le botte senza neanche sapere il perché.

Su questo problema dei roghi segnalo un articolo di Giuseppe Mariano Delogu che con grande competenza analizza le ragioni degli incendi e le strategie utili ad affrontarli, senza far ricorso adargomenti di tipo sensazionalisticoe strumentali a nuovi processi di colonizzazione ((https://www.sindipendente.com/blog/su-fogu-est-unu-periculu-no-est-a-mudare-sas-sustantzias/ )

Un altro esempio di intellettualità progressista votata alla «rivoluzione passiva»e all’esclusione dei subalterni sardi da ogni processo decisionale è Luciana Castellina che, in un editoriale del 9 agosto su Il Manifesto, rilancia l’idea di draghiana e meloniana memoria, secondo cui il Sud e le isole debbano diventare l’hub energetico d’Italia: «a differenza del nord Europa dove il vento è più fortesulla terra, qui da noi lungo le coste meridionali e delle isole sarebbe possibile allestire una quantità di piattaforme eoliche galleggianti», senza che le sfiori neanche per un momento l’idea di chiedere alle popolazioni interessate se vogliono giocare questo ruolo e, se sì, a quali condizioni. Successivamente Castellini assume – il che fa strano dalle colonne di un quotidiano che si definisce “comunista” – la classica postura di una ideologa ultraliberistachiedendo di rimuovere le «inutili complicazioni burocratiche che spesso paralizzano le iniziative del territorio anziché selezionarle», come se il decreto Draghi che ha avviato il far west nel campo della realizzazione delle rinnovabili, abbattendo ogni tipo di tutela e di pianificazione in nome della «transizione», non fosse mai entrato in vigore!

In conclusione Castellina sale in cattedra e assume la medesima posa paternalistica che abbiamo trovato nel documento di Sinistra Futura e nell’articolo di Tecleme: la democrazia va bene, ma fino a un certo punto. I sardi devono piegarsi alle magnifiche sorti e progressive volute dai due governi Draghi e Meloni (a proposito di strane alleanze tra governi schiettamente padronali e di destra e settori del progressismo, dell’ecologismo e del comunismo italiano!) e smettere di lamentarsi. Addirittura Castellina, assumendo un piglio autoritario e disciplinare, invoca a gran voce che «scuole e autorità pubbliche si impegnino a combattere (…) le più insidiose campagne mistificatorie. Buonultima, stiamoci attenti, quella che sta dando spazio all’assurda idea che proprio le energie rinnovabili siano il nemico, una nuova, ridicola versione della questione meridionale: il capitale del nord che ruberebbe sole vento e terra al Sud. E quindi guerra alle rinnovabili, i nuovi nemici». Democrazia, dibattito, dialogo sì, ma non osate dire che quella in corso è una nuova colonizzazione ai danni dei territori più fragili e sacrificati dello Stato italiano o addirittura la riproposizione sotto nuove forme della questione meridionale e/o della questione sarda. Le rinnovabili sono buone di per sé, certo, potrebbero essere migliorate con un po’ più di controllo pubblico e qualche processo partecipativo dove far scrivere agli indigeni locali sui post-it se il mega impianto industriale lo vuoi sul crinale del monte,sul terreno agricolo di famiglia o a ridosso di un nuraghe. Ma insomma, i bravi indigeni sardi devono smetterla di lamentarsi e piegarsi alla nuova versione del progresso calato dall’alto, alla nuova modernizzazione passiva e se non lo fanno devono essere silenziati e contenuti, usando tutti i mezzi manipolatori e disciplinari messi a disposizione dello Stato.

Per fortuna Gianni Fresu rimette le cose a posto e ricorda dalle colonne di S’Indipendente(https://www.sindipendente.com/blog/la-speculazione-coloniale-vista-da-il-manifesto/)che nell’articolo della Castellina non troviamo nemmeno una riga «sul rapporto tra fabbisogno energetico della Sardegna e quote assegnate d’imperio alla nostra regione» e – cosa ancora più grave per una giornalista che scrive su un giornale “comunista” - «nessuna riflessione sulla prospettiva neo coloniale (coerente con la classica tradizione della monocoltura) che pretende di trasformare l’isola in una piattaforma di produzione energetica quasi totalmente funzionale alle esigenze del continente e alle logiche speculative e di profitto delle multinazionali».

A proposito di alleati imbarazzanti

Se non bastasse il singolarissimo aggancio tra i governi Draghi e Meloni e il progressismo innamorato del nuovo colonialismo green, in un post social La Fionda, spazio di elaborazione culturale e politica, ci fa notare che sul Venerdì di Repubblica (gruppo GEDI, famiglia Elkann) del 15 agosto «è uscito un articolo a firma di Roberto Giovannini, dal titolo In Sardegna girano le pale».

La postura ideologica è la medesima che abbiamo trovato nei documenti finora analizzati, cioè di «espedienti retorici per dipingere i sardi, sempre più indisposti al neocolonialismo energetico delle rinnovabili, come utili idioti legati a potentati di gas e petrolio», ma l’aspetto interessante è capire chi è l’autore dell’articolo. Roberto Giovannini dal 2020 al 2022 «è stato dirigente e manager di Terna, l’azienda degli allacci elettrici artefice, tra le tante cose, degli espropri e del disboscamento dei terreni prescelti per il passaggio del Thyrrenian Link. L’oste dice che il vino è buono!»

In questa sede non possiamo approfondire i tanti legami che saldano il variegato mondo dell’editoria con mondo delle utility miliardarie legate alla “transizione energetica”. Da questo punto di vista servirebbe davvero qualche inchiestaper stanare i legami tra interessi privati, finanziatori dei gruppi editoriali più agguerriti nel veicolare campagne favorevoli alla colonizzazione e – altra faccia della medaglia – a tacitare, silenziare e manipolare le istanze dei movimenti popolari che in Sardegna si stanno opponendo all’ennesimo processo diland grabbing da parte dell’ormai consolidato blocco storico formato daStato centrale e gruppi di interesse privato.

La modernità, Pratobello 24 e l’irruzione del popolo sardo nella storia

In una vertenza come quella della colonizzazione energetica servono ovviamente i tecnici, in particolare servono ingegneri e giuristi che mettano le loro competenze al servizio di una vasta mobilitazione popolare che altrimenti non avrebbe gli strumenti per contrastare una violenza sistematica di portata storica. Per questo motivo sono emerse alcune personalità dentro i comitati che presto sono diventate punto di riferimento anche politico. Una di queste è Giulia Lai, già segretaria di uno dei partiti della coalizione elettorale messa su da Renato Soru e che prima aveva avviato trattative con il campo largo (PD, M5S, ecc..), poi saltate sul tema delle primarie.

Lai, in due post sui suoi social, tocca due punti che rischiano di provocare una faglia nel più grande movimento popolare che la Sardegna ricordi dai tempi di quello messo su dai reduci della prima guerra mondiale.

I movimenti popolari sono per loro natura trasversali alle sensibilità politiche e nell’atto in cui si radicano fanno emergere una propria pedagogia sociale, andando a trasformare i connotati ideologici, le visioni etiche e le istanze politiche di chi li attraversa. Da questo punto di vista è assai pericoloso mettere degli altolà, creare delle spaccature e delle cerniere a priori, soprattutto in una fase di resistenza popolare, in cui tutto ciò che conta è fare muro ad uno degli assalti coloniali più violenti della storia della Sardegna. Scrive Lai: «A parte i loro colori politici, dai quali ribadisco la mia distanza politica e il mio dissociarmi, ricordo ai più, ma anche a quelli che stanno dando loro spazio pubblico, che sono gli stessi che sino a qualche mese fa decidevano di dare corso alla speculazione (sedevano nella maggioranza)». Seguendo questa logica bisognerebbe dissociarsi dalla stessa Lai, in quanto ha più volte interloquito con i partiti del “campo largo”, in vista delle elezioni regionali, quando già era diventato operativo il decreto Draghi (dell’omonimo governo sostenuto da PD e M5S) che condanna la Sardegna a diventare il Far West energetico delle multinazionali e dello Stato italiani. Insomma vale in questo caso vale il monito che Pietro Nenni era solito dare ai giovani socialisti «a fare a gara a fare i puri troverai sempre uno più puro che ti epura .

La priorità è fermare la colonizzazione e rendere noto allo Stato italiano che la Sardegna non è più una sua colonia, ma una Regione abitata da comunità che sanno dire di no e che esercitano i loro poteri sovrani per far valere i propri diritti. Quindi in questa fase niente analisi del sangue a nessuno, la resistenza popolare non è una riunione di partito e non è neppure un pranzo di gala dove si possano selezionare con calma le portate e combinare i sapori per ottenere un risultato equilibrato e misurato. Nella lotta, al di là degli orientamenti, maturerà una consapevolezza di tipo nuovo, se con intelligenza e capacità, senza atteggiamenti da maestrine dalla penna rossa, i dirigenti del movimento sapranno costruire un’identità collettiva e – nello stesso tempo – mettere cortesemente alla porta chiunque non rispetti gli obiettivi politici della mobilitazione, sulla base delle pratiche e non sulla base dei gradienti ideologici.

Da questo punto discende la querelle sulla legge Pratobello 24. Lai, in un post intitolato significativamente «Dissociarsi per il bene della Sardegna» scrive:«qualche giorno fa esprimevo lamia personale preoccupazione per la deriva che questa lotta, che mi vede ormai impegnata sin dal 2022, stava assumendo. Purtroppo avevo ragione. Dal momento in cui è stata presentata al pubblico la legge “Pratobello 24’” non facciamo che assistere ad una sfilza di dichiarazioni contro la speculazione da parte di chi oggi in Sardegna sta all’opposizione, ma al governo italiano sta in maggioranza. Tutti esponenti politici dell’estrema destra, ma ormai anche del centro, che non solo pericolosamente affermano un semplice “no alle pale” ma addirittura invitano la cittadinanza a firmare».

A me non sorprende che l’opposizione faccia la sua parte e utilizzi ogni strumento per criticare, anche strumentalmente, chi siede tra i banchi della maggioranza. Questo deve fare l’opposizione, è la democrazia che poi fondamentalmente è un gioco dei ruoli. La domanda che dobbiamo farci è perché a suo tempo, cioè quando governava Solinas, dai banchi dell’opposizione (della cosiddetta “sinistra”) non sia mai emersa alcuna voce critica sulla questione energetica e perché l’opposizione non si sia mai messa a disposizione dei comitati (che non sono nati da quando c’è Todde https://www.sindipendente.com/blog/i-comitati-sardi-contro-la-speculazione-energetica-si-uniscono-intervista-a-gigi-pisci/), magari proponendo una proposta di legge migliore di Pratobello 24. E ora veniamo appunto alla proposta di legge di iniziativa popolare che tanto fa discutere e sta creando divisioni nella mobilitazione.

Il vero punto è che Pratobello 24 non è affatto lo strumento con cui rialza la testa la destra, come vorrebbe far credere Lai. Pratobello 24, al di là dei suoi limiti (segnalati in una bella analisi da Grighttps://gruppodinterventogiuridicoweb.com/2024/08/16/sardegna-speculazione-energetica-come-possiamo-salvare-il-territorio-e-attuare-una-corretta-transizione-energetica/?fbclid=IwY2xjawEtmxRleHRuA2FlbQIxMQABHcTfRA3dCI1MlE4IVhEmusqS4M71UlVevtoW-cqENkWwufyNFtAeZlvyLg_aem_zMg4pkjC8nq7Dkcbyv27OA ) è oggi uno strumento potentissimo di coesione e mobilitazione popolare. Le motivazioni per cui bisogna appoggiare questa proposta di legge di iniziativa popolare stanno prima di tutto nel nome: “iniziativa” e “popolare” che sono due concetti fondamentali e rappresentano l’unico vero antidoto alla postura disciplinare, autoritaria, impositiva che assume oggi la Rivoluzione Passiva così bene incarnata dagli articoli di Tecleme, Sinistra Futura e Castellina (fra i tanti che avremmo potuto analizzare).

Firmano e vidimano anche esponenti politici della destra? E allora? Nella resistenza partigiana erano tutti comunisti e socialisti? Non c’erano anche ex badogliani che fino a un momento prima avevano sostenuto il regime? Così, tanto per dirne una. Da questo punto di vista, anche un discorso apologetico sulla transizione energetica, fatto oggi, come quello che fa Lai «la transizione energetica è una occasione storica per entrare nella modernità, per creare finalmente sviluppo e ricchezza nei nostri territori» risulta fuori luogo e incompatibile con la lotta decoloniale in corso.

Il perché ce lo spiega Jean-Paul Sartre nella sua famosa prefazione al libro di Frantz Fanon: Les Damnés de la Terre:

«Appena il colonizzato comincia a premere sugli ormeggi, a preoccupare il colono, gli vengono spedite anime buone che, nei «congressi di cultura», gli espongono la peculiarità, le ricchezze dei valori occidentali. Ma ogni volta che si tratta di valori occidentali si produce, nel colonizzato, una specie di irrigidimento, di paralisi muscolare. Nella fase di decolonizzazione, si fa appello alla ragione dei colonizzati. Vengono loro proposti valori sicuri, viene loro copiosamente spiegato che la decolonizzazione non deve significare regresso, che occorre basarsi su valori sperimentati, saldi, quotati. Ora avviene che quando un colonizzato sente un discorso sulla cultura occidentale, tira fuori la roncola o per lo meno si accerta che gli è a portata di mano».

Verrà il tempo in cui i sardi dovranno passare ad imporre reali politiche energetiche basate sulla produzione da energia rinnovabile. Ma adesso – e non per volontà nostra - siamo nella fase della negazione in cui non dobbiamo giustificare niente a nessuno, non dobbiamo dimostrare di essere civili, di essere bravi sardi che vogliono la transizione ecologica, di stare solo con i buoni e non con quegli altri che sono brutti sporchi e cattivi. Non dobbiamo farlo perché ora non possiamo permettercelo e non abbiamo il tempo, la voglia, l’obbligo di fare i vigili urbani per stabilire chi deve salire e scendere dal carro, con la solita superiorità morale di chi comprime le lotte popolari e fondamentalmente le usa per accreditarsi nelle fila del personale dirigente delle élites modernizzatrici, quelle cioè che ciclicamente parlano ai sardi di modernità, progresso, diritti offrendo perline e derubandone e incamerandonele ricchezze.

Ciò che importa ora non è fare le analisi del sangue ai comitati, stare a tastare il polso di chi firma o vidima, individuare la virgola in tale articolo che non andrà bene e via dicendo. Ciò che ora davvero conta è mostrare la roncola al nemico e dimostrare a noi stessi prima che a chiunque altro che non subiremo l’ennesimo processo coloniale senza reagire,perché il tempo delle modernizzazioni calate dall’alto e delle rivoluzioni passive è finito per sempre. Stiamo vivendo un momento storico in cui può sorgere una nuova idea di sé del popolo sardo, al di là della vuota retorica delle tante sigle che hanno cercato di capitalizzare e fondamentalmente intestarsi le tematiche indipendentiste, senza però mai realmente lavorare al protagonismo popolare, cioè senza fare assolutamente nulla per suscitare quel processo che Gramsci chiama «irruzione delle masse nella storia». È ora che sorga una nuova era in cui i sardi, i subalterni sardi, parlino con la loro voce, senza intermediari, senza bisogno che ci sia qualcuno che gli spieghi e che ci spieghi cosa fare, chi mettere alla porta, cosa desiderare, quando e se organizzare un banchetto, quando e a che condizioni indignarsi e mobilitarsi, con chi andare, chi accettare, chi no e via dicendo.

E da questo punto di vista Pratobello 24 è il più grande strumento di protagonismo, partecipazione, soggettività popolare che abbiamo a disposizione e non metterlo in valore sarebbe poco furbo e perfino un po’ sospetto.

Con buona pace dei Lorenzo Tecleme, Luciana Castellina, Sinistra Futura, Alessandra Todde, Giulia Lai e chi più ne ha più ne metta…

*Cristiano Sabino. docente di filosofia, saggista, scrittore, attivista politico e sindacale, attivista del collettivo di ricerca Filosofia de Logu, blogger

 

 

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