La truffa semantica de l'"intelligenza artificiale"

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La truffa semantica de l'"intelligenza artificiale"


di Francesco Erspamer*


Gli statunitensi hanno il vizio di dare nomi fuorvianti alle tecnologie e ideologie che intendono vendere al mondo per trasformarlo a loro immagine e somiglianza. Si pensi ai «social», dispositivi di individualismo e asocialità, o alla «privacy», che fa diventare le misere e meschine idiosincrasie private un diritto inalienabile e «naturale» che, anch’esso, scardini i valori collettivi e i doveri comunitari.

La cosiddetta intelligenza artificiale è un altro di questi trucchi. A pensarci, non può essere un'intelligenza per il semplice motivo che «intelligenza» è una parola introdotta dagli esseri umani per auto-definirsi. In altre parole, richiede una coscienza e non è applicabile ad altre entità se non compiendo un atto di antropomorfizzazione, molto più arrogante o ingenuo che rappresentare Dio come un vecchio signore dalla barba bianca. A differenza di altre capacità umane (o meglio, dei concetti inventati per definirle, per esempio la ragione o la logica), l'intelligenza o è riflessiva o non è nulla.

Ovviamente questo discorso è incomprensibile ai tanti che hanno trasformato la scienza in un’ontologia, ossia in uno studio non dei fenomeni bensì delle verità in sé, esentando sé stessi dalla fatica della soggettività. Tutto è o deve essere oggettivo, senza margini di dubbio e senza bisogno di conferme sociali: è solo questione di avere abbastanza dati statistici, e se non sono precisi basta semplificarli euristicamente (cioè per approssimazione).

L’ultimo ostacolo era appunto l’intelligenza. Etimologicamente significa «leggere dentro», ossia «fra le righe», dunque non ciò che è scritto, non ciò che è «fatto» ed evidente per sé stesso. Era un andare oltre l’ovvio, il banale; ma non a livello delle emozioni, come piace ai numerosi esibizionisti del nostro tempo, piuttosto a livello di ragionamenti condivisi, collettivi e in quanto tali autorevoli pur non potendo essere scientifici, ossia ogni volta ripetibili identici in identiche circostanze.

Se fossero stati onesti, i promotori miliardari dell’«intelligenza artificiale» (dovrebbe insospettirvi il semplice fatto che risorse enormi siano allegramente usate per imporla in tutta fretta ovunque e senza controlli) l'avrebbero dovuta chiamare «artificialità intelligente», in cui l’enfasi sarebbe stata sull’artificialità (dunque sulla non umanità) e l’aggettivo avrebbe suggerito una somiglianza; così come si può dire che «quel cane è intelligente» ma non che ci sia un'«intelligenza canina» perché sarebbe per noi incomprensibile e dunque, nei nostri termini, non intelligente.

Disse Wittgenstein, per alcuni versi uno dei padri della deriva scientista (il «Tractatus») ma per altri un umanista (le più tarde «Ricerche filosofiche»), che «se un leone potesse parlare noi non potremmo capirlo». Analogamente, se fosse intelligente, non sarebbe la nostra intelligenza. Per cui attribuire a dei computer un'intelligenza è un imbroglio: per far credere che esista un'intelligenza oggettiva, che ovviamente sarebbe quella dei ben umani (ma ricchissimi e stronzi) padroni dell'intelligenza artificiale.


*Post Facebook del 5 marzo 2025 

Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

 

Professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill

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