L’alba grigia dei popoli europei
di Marco Bonsanto
Questa volta ci siamo. L’iniziativa di Trump ai colloqui di pace con la Russia di Putin ha decretato l’estinzione di fatto dell’Unione Europea come progetto politico, se mai lo è stato. L’autocelebrato colosso della civiltà liberale che con i suoi standard doveva servire da faro al resto del mondo, è divenuto improvvisamente un fantasma internazionale.
È bastata la poderosa squilla di un soave twitt (pardon! di un truth) per rompere l’incantesimo. Milioni di europei indotti a credere nel sogno di un’unione dei popoli nel segno della pace, della democrazia e del benessere, si svegliano ora bruscamente nell’incubo ad occhi aperti di un diroccato maniero ossessionato dagli spettri ululanti dei politici europei. Ne fornisce un plastico esempio il grido in falsetto di Mario Draghi all’ultimo European Parlamentary Week di Bruxelles, rivolto a chi gli chiedeva cosa sia meglio fare per uscire dall’impasse in cui l’ha ficcata Trump: “Non ne ho idea, ma facciamo qualcosa!”. I competenti hanno parlato, questione chiusa.
Insomma l’UE è appesa a un filo – indecisa se usarlo per ritrovare l’uscita dal labirinto, oppure per impiccarsi. Non è escluso che le due soluzioni convergano, perché “What we call the beginning often is the end” (Eliot).
Dopo il fallimento delle sue politiche finanziarie, economiche, energetiche, sociali e ideologiche, divenuto ormai conclamato con la guerra alla Russia, l’UE non potrà far altro che riqualificare la sua azione nell’unico modo che ha sempre ritenuto necessario adottare in analoghe circostanze di crisi, cioè: radicalizzando le medesime politiche! Non abbiamo dubbi che lo farà, e a maggior ragione, anche questa volta, perché la casta degli euroburocrati che l’amministra per conto terzi semplicemente non ha scelta. Devono troppo a chi li ha nominati dalle segrete “cabine di regìa” al loro ruolo di serventi dorati. Il World Economic Forum non può cambiare il proprio programma di governo, ma al più rimodularlo intensificandolo. Esso segue da sempre un’unica agenda, fatta esclusivamente di continue emergenze tra loro collegate che la rendono in sé totalitaria e perciò inemendabile, pena la totale crisi di credibilità di chi la promuove.
Pertanto, o la va o la spacca! È a questa complessa strategia tipica degli avventurieri d’ogni epoca che si rifaranno le classi politiche europee, c’è da scommetterci, prive come sono di qualsiasi autentico mandato popolare e sempre più scollate persino dall’esiguo elettorato che partecipa alla loro farsa elettorale; pronte dunque ad arroccarsi in modo ancor più autoritario per durare, a reprimere la libertà di parola e a contrarre i diritti, a centralizzare le decisioni e a favorire ristretti oligopoli di comodo – proprio come accade in qualsiasi Regime minacciato di essere abbattuto. Ed è così che accelereranno la loro fine.
Sembra complessivamente questo il senso del Rapporto Draghi (e dell’addendum Letta) sullo stato dell’Unione: più investimenti nella Difesa (armi), più aree industriali comuni (specie belliche), maggiori emissioni di debito comune per sostenerle, vincoli di bilancio più stringenti per garantire il debito (leggi: austerity), governance meno condivisa e perciò più accentrata, maggiore collaborazione pubblico-privato (del tipo: “Stato, dammi il tuo orologio che ti dico che ore sono!”), più immigrazione per contrastare il calo delle nascite (servirà pur un esercito, prima o poi!). L’ideologia ambientalista resti pure in piedi, ma di facciata, com’è il suo ruolo: decarbonizzare, dunque, ma “adelante, con juicio”! I carri armati, infatti, pare che con l’eolico non funzionino. Draghi propone pure una piattaforma europea per i minerali rari, quelli che servono per creare i chip da ficcare nei sistemi d’arma autonomi (in mancanza di uomini...). Quanto a Scuola, Università, Cultura, Sanità, Assistenza, Lavoro – semplicemente “non pervenuti”.
È questa la ricetta che il proconsole della finanza globalista ha approntato per ridare carne al fantasma unionista, facendo così cadere finalmente le ultime maschere del progetto e svelandolo per quello che è ed è sempre stato: il piano delle multinazionali atlantiche di crearsi un serraglio di mezzo miliardo di persone a cui imporre i propri prodotti, sfruttando un mercato a valuta unica e ad inflazione controllata (come da mandato BCE), e la compiacenza di élite politiche pronte a svendere i migliori asset nazionali implementando politiche favorevoli alla penetrazione delle corporation in tutti gli ambiti dello Stato e della società. Un progetto i cui profitti stellari sono garantiti nei casi più eclatanti dall’ammortamento dei costi (specie del lavoro) a carico dei debiti pubblici degli Stati membri, dunque sulle nazioni europee.
Ciononostante, fin dalla sua fondazione nel 1992 l’UE ha avuto bisogno di un mercato interno in costante espansione, cosa divenuta possibile solo all’indomani dello scioglimento dell’URSS. Un bacino di altre centinaia di milioni di clienti forzati è stato reclutato dietro il paravento dell’ideologia unionista: pace, libertà e prosperità. Prima, strappandoli all’orbita strategica russa grazie allo spavaldo avanzamento della NATO, poi portandoli nel mercato unico tramite adesioni precipitose e destabilizzanti all’euro e ai Trattati europei. Col sogno finale degli ambienti globalisti più avanzati di spaccare pure la stessa Federazione Russa e farne carne da porco. Ecco perché, di là degli orwelliani discorsi sulla pace e la collaborazione tipici della nomenklatura europeista, la Russia è stata da sempre il convitato di pietra dell’UE, il nemico da isolare, indebolire e abbattere: in Serbia e Kosovo, in Georgia e Cecenia, in Siria e, da ultimo, in Ucraina.
Il complesso, elefantiaco sistema burocratico messo in piedi per assicurare l’apicale obbiettivo della conquista economica dello spazio europeo, ha comportato come è noto la progressiva rinuncia di sovranità degli Stati membri e l’assunzione di specifiche gerarchie tra di loro, appena mascherate. Dal punto di vista tecnico, infatti, questo paradiso del liberismo truccato – cioè ideologicamente funzionale ad aprire le barriere doganali degli Stati ma non alla vera e libera concorrenza, imposta questa soltanto ai piani bassi del commercio – ha potuto funzionare soltanto grazie al principio del caporalato divenuto arte di governo, sia tra gli Stati membri che all’interno di ciascuno Stato. Il ruolo di kapò europeo è stato assegnato alla Germania (ciascuno ha le sue vocazioni), con la Commissione Europea per anni di fatto in mano alla Merkel e Francoforte a presidiare la stabilità dell’euro. In cambio, la Germania ha goduto dell’adozione della propria moneta a livello europeo (euromarco), di enormi vantaggi nell’esportazione dei propri prodotti manifatturieri, di una bilancia commerciale perennemente in attivo sugli altri Stati, di corsie preferenziali per le proprie banche d’investimento. Tanto da pagarsi ad usura la Riunificazione.
Ma anche nei singoli Stati la politica si è riconvertita a questa funzione repressiva delle legittime aspirazioni dei cittadini. Con la caduta dell’URSS infatti l’esercito dei politici di Sinistra in ogni Stato europeo ha improvvisamente perso il proprio ruolo. Contro i pochi onesti che si sono ritirati e i pochi rimasti fedeli all’ideale (divenendo peraltro paradossalmente sempre più reazionari e perciò ininfluenti), la gran massa ha scelto una precipitosa riconversione a favore del nemico vincitore. È stato soprattutto a questi ultimi che il capitale neoliberista ha affidato il compito di guidare il processo di integrazione europea, sulla base della comune propensione all’internazionalismo.
Occorre tenere ben a mente quest’ultimo punto quando si cerca di assolvere l’UE dai suoi cosiddetti “errori” affermando che il Manifesto di Ventotene è stato tradito. Nello spirito, non è vero. Il progetto di Rossi, Spinelli e Colorni aveva infatti un unico nemico riconosciuto: la sovranità degli Stati-nazione. Non gli facevano alcun problema invece né il capitalismo, né il liberismo spinto, né la vocazione globalista, né la necessità che il processo di integrazione europeo fosse guidato da élite illuminate (e non dalla effettiva volontà dei popoli). Esattamente ciò che è stato favorito dall’UE. Di Ventotene è rimasto inattuato soltanto il federalismo.
Accettando questo nuovo ruolo, gli ex politici di Sinistra hanno semplicemente riconvertito il loro internazionalismo, da quello comunista al globalismo liberista, divenendo così i caporali del loro stesso ex-elettorato. Agli intellettuali di Sinistra e ai media di sistema l’ingrato ma fruttuoso compito di fare da cinghia di trasmissione con l’opinione pubblica nazionale: vincere le resistenze di una cittadinanza ancora organizzata e consapevole dei propri diritti, convincerla della bontà del nuovo regime. Politici, giornalisti, professori, filosofi, scrittori, editori, opinionisti televisivi, mezzibusti, musicisti e attori, ci hanno chiesto (salve le loro rendite di posizione) letteralmente di “morire per l’Europa”, come recita un famoso manifesto politico.
In questo quadro, i partiti di Destra sono improvvisamente rimasti gli unici depositari di un rinnovato sovranismo e gli involontari difensori di un residuale interesse nazionale contro lo strapotere delle lobby globaliste. È contro questa resistenza che si è perennemente mossa la nuova nomenklatura europeista, proprio traendo spunto da Ventotene. Fa caso a sé quella grossa fetta di Cattolici, anch’essi d’ispirazione sovranazionale, che hanno contribuito non poco alle Grosse Koalition della Merkel e ai cosiddetti governi tecnici italiani. Nell’epoca delle rivelazioni apocalittiche che stiamo vivendo occorre riconsiderare perciò persino il ruolo storico del politico Berlusconi, riconoscendolo (horribile dictu!) come lo statista della Seconda Repubblica che ha inferto complessivamente meno colpi al patrimonio nazionale (il che è tutto dire), se non altro perché desiderava preservare le sue aziende italiane dagli attacchi degli speculatori esteri. È stato pure l’unico politico a proporre l’entrata della Russia nella NATO, e non a caso nel 2011 è stato abbattuto da un colpo di Stato bianco orchestrato dai suoi nemici Merkel, Napolitano, Trichet e... Draghi. Il cerchio si chiude e torniamo all’oggi.
L’UE è stata il grande luna-park della finanza transnazionale improvvisamente liberata dai vincoli di Bretton-Woods, dai rapporti valutari stabili, dall’economia del risparmio e della redistribuzione, dal potere regolatorio delle banche centrali, dai dazi, dal ruolo di freno del FMI, da quello compensativo della Banca Mondiale, dall’interesse nazionale divenuto improvvisamente obsoleto, insostenibile, rottamabile. È stata il progetto della penetrazione selvaggia di banche e fondi d’investimento nei sistemi welfare degli Stati nazionali, che si è tradotta in un colossale saccheggio ai danni di generazioni di europei, specie di quelli meridionali. Una ricerca del Centrum für europäische Politik del 2017 calcolava che in venti anni di euro la Germania ha guadagnato circa 23.000 euro pro-capite e l’Olanda 21.000, mentre la Spagna ne ha persi 5.000, il Portogallo 46.000, la Francia 56.000 e l’Italia 73.000 (cioè circa 4.300 miliardi di euro: quasi una volta e mezza l’intero debito pubblico).
Insieme alle banche sono penetrate multinazionali di ogni tipo, ormai libere di spostare a loro piacimento ed esclusivo interesse capitali, uomini, beni e servizi (i quattro Pilastri dell’UE), secondo la deregulation teorizzata negli anni Settanta a Chicago e poi sognata lungo tutti gli anni Ottanta. Oggi un esercito di 12.000 lobby (quelle registrate a Bruxelles) agisce quotidianamente assediando i 720 deputati europei con proposte di legge, nuovi regolamenti o direttive, investendo in questa attività circa 1 miliardo l’anno. Le conseguenze sono note: la precarizzazione dei lavoratori, le delocalizzazioni della produzione, la perdita di diritti per tutti, l’impoverimento generale. Ai pochi europei che possono ancora permetterselo l’unica consolazione di fare le vacanze all’estero senza dover cambiare la valuta – impagabile.
Eppure, nonostante questa infame storia (o proprio per questo) l’UE è oggi al collasso. Mario Draghi afferma che se la terapia non sarà drastica, l’Unione rischia di dover rinunciare ai suoi valori fondamentali, cioè “prosperità, equità, libertà, pace e democrazia in un ambiente sostenibile”. Infatti siamo in guerra da tre anni, la democrazia è solidamente guidata da caste politiche inamovibili, la libertà è stata sospesa come mai prima durante il Covid, per l’OXFAM le disuguaglianze sono cresciute del doppio in dieci anni, e la prosperità è un miraggio per circa dieci milioni di poveri in Italia.
Quello di Bruxelles è un regime senza più una ragion d’essere, sconfitto ma non ancora debellato. Resterà ininfluente a livello internazionale, isolato sia dal partner americano, sia a maggior ragione dal gas russo e dalla Via della Seta cinese. Se Trump e Putin l’hanno portato a schiantarsi nella sua folle corsa, è però vero che la spallata finale può venire soltanto dai popoli europei – che però sono poveri, vecchi e stanchi “come stoppie rinsecchite, e più che all’acqua anelanti alla folgore”. Così parlò Zarathustra.
Per il momento i tuoni riecheggiano numerosi, ma in quest’alba grigia la folgore ancora non si vede.