Lavoro e immigrazione: lo sfruttamento capitalistico nell'immanenza del presente

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Lavoro e immigrazione: lo sfruttamento capitalistico nell'immanenza del presente

 

di Giuseppe Giannini

Il mondo del lavoro ha subito nell'ultimo trentennio delle profonde modificazioni.

Ogni epoca ha visto nascere e scomparire forme di lavoro legate a determinate produzioni.

Dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri tanti sono stati i mutamenti nei processi produttivi.Le scoperte scientifiche hanno semplificato alcuni lavori, tuttavia, non sempre a questi è corrisposto anche un miglioramento della condizione dei lavoratori.

Nonostante il progresso economico c'è qualcosa che non è mutato: la messa a valore della vita di ognuno.Questa si traduce, nella maggior parte dei casi, nella standardizzazione dei tempi e delle giornate del prestatore di lavoro, e spesso, anche a causa di una concorrenza sfrenata fra aree e settori economici, in una competizione che svuota e annichilisce le esistenze.

Sfruttamento, alienazione, fino alle recenti forme di lavoro (semi) schiavistico.

Una volta si parlava di servi della gleba e proletariato, oggi quali termini dobbiamo inventarci per sottolineare le storture di un mondo del lavoro, che mettendo al centro il profitto ad ogni costo, non lascia indenne nessuna categoria?

Un'umanità evoluta, viste appunto le continue migliorie apportate dalla tecnica applicata, avrebbe dovuto da tempo salvaguardare se stessa e il vivente.

Invece, si è deciso di continuare a perpetrare un modello di sviluppo, il capitalismo, che fa dello sfruttamento di persone e risorse la sua ragione d'essere.

Anzi, il parassitismo di chi gestisce l'economia è arrivato a tal punto da non vergognarsi dei danni umani, sociali, ambientali, che esso produce.

Un'ingordigia che non si cura della condizione di vita altrui, della salute, come dei territori.

E' vero, ci sono certi lavori ai quali non si può rinunciare (l'agricoltura, la cura, l'educazione, le comunicazioni, la sicurezza, la manutenzione etc.): sono tutte quelle attività senza le quali avremmo difficoltà a vivere, ma proprio perchè indispensabili, perchè non pensare ad un loro miglioramento qualitativo e quantitativo?

Piuttosto che valorizzare le competenze umane, gratificare (non solo in termini economici) le professionalità e redistribuire lavori e risorse si è pensato di spremere a più non posso, sacrificando l'utilità apportata alla collettiva da tali lavori.

I lavori socialmente necessari vengono sminuiti, salvo poi accorgersi della loro indispensabilità quando si presentano crisi, carestie o altri eventi predeterminati ed impattanti.

Cosi, chi fa della politica il suo mestiere va servendosi di un linguaggio burocratico per giustificare le scelte operate.

Modelli economici e dogmatismi come la dottrina che diventa il pensiero generalmente accettato, senza sottoporre a critica e/o revisione tali opzioni.

Da un lato abbiamo lo sfruttamento di chi lavora, dall'altro masse di disoccupati crescenti e lavoratori poveri.

Il mondo ricco, negli ultimi anni, ha (ri)scoperto che necessita di lavoratori del mondo povero per andare avanti.

I lavori duri sui cantieri e nell'edilizia, riguardanti l'agricoltura o la manutenzione e la logistica vedono un esercito di stranieri (regolarizzati e non ), che vengono preferiti ai residenti per tutta una serie di ragioni: il non volersi sporcare le mani da parte degli autoctoni; la convenienza al ribasso salariale per le aziende; il ricatto dei datori che subordinano la preferenza straniera al rilascio del permesso di soggiorno.

Senza questo esercito di salvezza -  i raccoglitori di frutta africani, i sikh indiani negli allevamenti, le badanti rumene ed ucraine etc. - le nostre economie e i nostri servizi sarebbero in grossa difficoltà.

Tanta forza migrante da sfruttare per l'accumulazione del capitale, gli invisibili relegati in periferia e nelle zone popolari,ma che vediamo apparire alla luce del giorno sui mezzi pubblici e per le strade delle nostre città.Baraccopoli e quartieri ghetto da tempo non sono più una esclusiva del Sud del Mondo.Ed ecco come la massa di lavoratori irregolari va aumentando, diventando merce a disposizione tanto della malavita quanto del caporalato legalizzato.Una misera lotta tra poveri residenti e stranieri, appannaggio esclusivo della valorizzazione capitalistica.

A peggiorare la situazione ha contribuito, sicuramente, il mutamento nell'organizzazione del lavoro a partire dagli anni'90.Questa ha comportato la deterittorializzazione, prima nel "reale" della globalizzazione economica , e successivamente nella "virtualità" delle professionalità immerse in rete.Nel primo caso, abbiamo assistito ad un esodo del grosso delle produzioni.Tanti marchi eccellenti (delle auto, della moda, etc.) hanno deciso di trasferirsi altrove, perchè non sazi di guadagni crescenti, riducendo i costi attraverso il trasferimento delle loro attività ad esempio nei Paesi dell'Est (Albania,Romania,Polonia) li dove, in conseguenza del crollo dei regimi, e come altrove (Asia,America Latina, Africa), hanno trovato facilitazioni fiscali da parte di governi amici e una massa di disperati disposti ad accettare paghe basse e pochi diritti pur di poter andare avanti.Nel secondo caso, le nuove professioni create dalla net economy dopo l'entusiasmo iniziale hanno svelato la loro vera natura.La conoscenza immessa in rete, per mezzo della sharing economy e dello smart working, ma anche tutte le attività di ricerca che ivi svolgiamo rappresentano le forme nuove, più o meno velate, di accaparramento della ricchezza prodotta.Sottomissione delle relazioni e della natura alle esigenze di valorizzazione.Nel lavoro  cognitivo si assiste alla parcelizzazione, il lavoratore diventa qualcosa di fungibile al pari di qualsiasi fattore della produzione.Conta solo il tempo utile alla valorizzazione del capitale, frammenti di tempo utile da sfruttare conducono alla spersonalizzazione del lavoratore. Di conseguenza è venuta meno anche la rappresentanza degli interessi di quelle ibride categorie da tutelare.

Come si è arrivati a ciò? Basta svolgere uno sguardo a ritroso per accorgersi come tutti questi accadimenti, insieme ad una deregolamentazione crescente e alla finanziarizzazione dell'economia – denaro che invece di essere impiegato nel produrre merci diventa esso stesso merce (denaro che produce denaro), attività speculative, un denaro che si gonfia e poi scoppia (le bolle) – siano alla base dell'attuale economia del debito.

Quali le soluzioni per invertire la rotta?

 

  • la riduzione dell'orario di lavoro;
  • l'aumento dei salari;
  • la redistribuzione della ricchezza;
  • la progressività della tassazione;
  • il riconoscimento, anche in termini economici, del lavoro domestico e di tutte quelle attività non remunerate;
  • la garanzia di una forma di sostentamento per tutti coloro che, per causa indipendente dalla loro volontà non hanno un lavoro regolare o non percepiscono un reddito (in rispetto dell'art.38 Cost.);
  • l'introduzione di una forma generalizzata di reddito di esistenza (o di autodeterminazione);
  • la riconversione dei modelli produttivi, attraverso sistemi che privileggino le comunità e le economie locali, in rispetto dell'ambiente e della natura.

 

I miti da sfatare sul lavoro made in italy e la retorica del bravo imprenditore

 

In Italia, subito dopo il boom economico degli anni '50-'60, il fare impresa è consistito in un certo provincialismo.I proventi sono stati investiti  nella rendita e nella ostentazione del lusso (villette,piscine), a differenza di tutte quelle attività, che invece  hanno speso sul territorio o in ricerca e sviluppo.Distinguendosi da chi preferiva esportare i capitali all'estero, le imprese lungimiranti sono le stesse che oltre a conservare una certa credibilità (competitività) hanno contribuito alla crescita del pil e a rendere famoso il cd. made in Italy.Ci sono stati imprenditori virtuosi (Olivetti) e l'impresa pubblica come sinonimo di interventismo statale per salvaguardare settori fondamentali della vita associata, ma anche per cercare di appianare le differenze territoriali (dall'IRI alla Cassa per il Mezzogiorno).Certo ci sono stati anche sprechi, corruzione e tangenti, tuttavia sono diventati il capro espiatorio di una classe dirigente, che volendo mettere le mani dappertutto, e svendendo tutto un patrimonio fatto di saperi ed opere, ha scelto la via delle privatizzazioni e dello smantellamento del pubblico.Gli effetti di questo impoverimento generalizzato, dei lavoratori, e in termini infrastrutturali e di servizi sono sotto gli occhi di tutti.

Le grandi imprese nonostante l'aumento dei profitti hanno ridotto in maniera esponenziale il numero dei lavoratori.L'esempio classico è quello della FIAT-FCA-STELLANTIS, finanziata da sempre dallo Stato, anche quando ha spostato la sede fiscale e legale in Olanda e Inghilterra, e pure quando è uscita da Confindustria o durante la pandemia da covid.Considerando i diversi stabilimenti e settori di attività (veicoli, assicurazioni, editoria...) i dipendenti negli anni'60 erano 160 mila; nel 2000 oltre 100 mila ed oggi sono quasi dimezzati.La plutocrazia parla di merito mentre aumentano le diseguaglianze di reddito, con i ricchi che diventano sempre più ricchi.Lo spostamento di ricchezza a favore del capitale degli ultimi 40 anni è impressionante, le retribuzioni dei dirigenti al confronto di quelle dei lavoratori hanno avuto un aumento esponenziale, al pari della riduzione della progressività fiscale. In Italia,  il travaso di ricchezza verso i ceti alti registrato nella metà degli anni '90 è stato quello maggiore fra i Paesi europei. Per mezzo della catena degli appalti e dei sub-appalti al massimo ribasso, esse accrescono le ricchezze risparmiando attraverso il taglio del costo del lavoro e la sicurezza.Gli incidenti che ne conseguono, gli infortuni e le cd. morti bianche confermano il trend italiano, con una media drammatica di tre decessi giornalieri.

Le piccole e medie imprese (spesso nemmeno definibili tali quando hanno 3 lavoratori) sono quelle a cui si rivolge la crescente domanda di lavoro.

Caratterizzate da scarso know-how per rimanere sul mercato esse tagliano i costi.

Questo si riduce, a volte, in un mancato investimento sulla formazione,  e di conseguenza nel risparmio sulla prevenzione, mettendo a rischio la  sicurezza dei lavoratori.Nelle realtà poco sindacalizzate ( li dove il sindacato è di base e di categoria, e svolge la sua funzione tipica, andando oltre il carrierismo politico come quello confederale) diventa difficile controllare il rispetto degli accordi e delle normative vigenti.

In mancanza di agevolazioni fiscali e aiuti pubblici (garanzia giovani, bonus per le assunzioni under 35) le imprese tendono a non rinnovare i contratti, cosicchè superata una certa età trovare un lavoro è ancora più arduo perchè il mercato preferisce forza fresca da sfruttare.Rimangono solo i lavori a bassa qualifica (nell'agricoltura, quelli domestici e di cura, di sorveglianza) per i quali la concorrenza sottocosto della manodopera straniera è forte.

Anche il settore trainante l'economia italiana, l'edilizia, fa registrare il sommerso più elevato in rapporto agli altri Paesi UE.Lavoro irregolare, in nero,  o dichiarato non corrispondente a quello effettivamente svolto, che oltre a mettere in pericolo la salute dei lavoratori, costituisce fattore di rischio per l'ambiente e produce danni al fisco (evasione). In Italia in media si evadono circa 100 miliardi all'anno, e le categorie che lo fanno sono i lavoratori autonomi, i liberi professionisti e i commercianti.Inevitabilmente il danno si ripercuote sulla collettività, specialmente su quelle classi sociali che hanno redditi bassi.

Per quanto riguarda i pericoli per i lavoratori, bisogna dire che gli incidenti e le irregolarità sono una costante già prima delle varie crisi degli ultimi 15 anni.Addirittura, durante il periodo covid dai controlli effettuati dai vari soggetti (ispettorati, guardia di finanza e forze di polizia, personale inail), soprattutto durante l'estate nei luoghi del turismo, sono state accertate mancate sanificazioni dei locali, inosservanza delle prescrizioni in materia igienico-sanitaria, e trovati prodotti alimentari scaduti e in sovrapprezzo, oltre al classico lavoro in nero.

Purtroppo c'è da dire che il personale deputato ai controlli e sottodimensionato.In base agli organici attuali, con queste tempistiche, ogni impresa riceverà in media un controllo ogni 15 anni.Nel 2022 su 100 mila aziende visitate 60 mila presentavano irregolarità.E poi ci sono quelli, che pur potendo permetterselo (sportivi, personaggi della moda e dello spettacolo) preferiscono pagare le tasse altrove, stabilendo la propria residenza o attività nei Paesi (Malta, Bulgaria, Canarie, Svizzera,) con regime fiscale favorevole.

L' Italia sta diventando sempre più un Paese non per giovani, e vede la sua popolazione in trend negativo da circa 10 anni, con una perdita di circa 1,5 milioni di residenti.Nonostante questo, e le ripetute crisi, che hanno peggiorato la condizione di lavoratori e pensionati, ci sono circa 3 milioni di persone che lavorano in nero.E' ovvio che questo fenomeno sia presente anche negli altri Paesi, ma alcuni accorgimenti, dall'inasprimento delle sanzioni in Germania alla regolarizzazione delle badanti in Spagna, fanno si che esso vada diminuendo.In U.K., un costo del lavoro relativamente basso e la deterrenza delle sanzioni si uniscono all'obbligo dei datori di verificare la correttezza dei documenti dei lavoratori.Pertanto il nero riguarda per lo più i migranti irregolari.

Il costo del lavoro è un punto importante.Sicuramente ha la sua incidenza, ma sono anni che sentiamo imprenditori e gran parte dei partiti discutere di questo, come qualcosa che impedisce le assunzioni o gli incrementi salariali.Fatto sta che il gap salariale tra dirigenti e lavoratori è aumentato negli ultimi decenni, e l'Italia è l'unico paese dell'area euro dove i salari non sono cresciuti negli ultimi trent'anni, anzi sono pure diminuiti.Si è dunque imposta  la visione liberista per la quale il lavoro lo creano solo le imprese, volta a mitizzare la figura del datore di lavoro, benefattore e mai padrone.

Andando a fare delle comparazioni con gli altri Stati ecco che scopriamo qualcosa di diverso.

Il costo del lavoro in UE ha una media di 30 euro, con enormi differenzi tra i vari Paesi: Lussemburgo 50 euro; Francia e Germania intorno ai 40 euro;in Italia 29, 4 euro; Spagna 23, ma Bulgaria  e Romania 8 e 9 euro.

I costi non salariali (contributi sociali dei datori) hanno una media del 25%, con Francia e Svezia ai vertici (32%) e l'Ialia subito dopo (27,8%).I lavoratori dell'industria sono quelli che costano di più.

Questi dati sono riportati dal Sole 24 ore, che notoriamente è l'organo di Confindustria.

Nell'ultimo biennio le imprese italiane sono quelle che hanno registrato un maggiore aumento di tasse.La pressione fiscale (rapporto entrate/pil) ha toccato il 43,5% nel  2022, con aliquote che incidono intorno al 28%, solo la Germania ha fatto peggio (30%).  In base ai dati della CGIA di Mestre questo dipende da diversi fattori: aumento dell'inflazione, riduzione temporanea della disoccupazione (le rilevazioni  complessive tirano in ballo qualsiasi tipologia contrattuale, mentre si dovrebbero considerare solo i contratti regolari a tempo pieno), sospensioni tributarie.

Per cui, le ripercussioni dei costi energetici e delle materie prime come concause dell'aumento generali dei prezzi regge fino a un certo punto.Le speculazioni non sono solo quelle della borsa di Amsterdam.Ogni shock diventa il pretesto per (ap)profittare  delle contingenze: rincari esagerati e non controllati durante il covid; rialzi spropositati dei prezzi dei beni di prima necessità e della benzina, non motivati perchè non direttamente legati all'aumento dei primi.E poi l'impatto di questi costi non riguarda solo le imprese ma anche i cittadini che pagano le tasse e le bollette.

Quindi, sono le ricette italiane che sono sbagliate.Tutti i governi per far fronte ad un indebitamento crescente, hanno pensato che la soluzione fosse il taglio della spesa pubblica, ma tre decenni di tagli non sono bastati a ridurlo.Si sono chiusi ospedali, tribunali e ferrovie.Interi settori sono stati privatizzati al fine di ridurne i costi di gestione, in verità è venuta meno l'efficienza degli stessi.Se guardiamo al pubblico impiego, un altro dei settori che viene visto come causa di spreco di risorse, possiamo notare come qui il numero degli impiegati è stato in crescita sino agli anni'80, per poi iniziare a calare sul finire dei '90.Erano 3,7 milioni, dopodichè in coincidenza con i tagli di cui sopra (blocco del turn over) e l'introduzione dei contratti atipici, in sostanza del precariato ( dal'97) sono diminuiti d 500 mila unità.

Infine, il numero dei dipendenti pubblici, anche se cresciuto nel 2022, è sotto i livelli OCSE, con una età media sopra i 50 anni,e agli ultimi posti in Europa in proporzione alla popolazione: 5,5.In Germania 6,1;Spagna 7,3;U.K. 8,1; Francia 8,3 (fonte AGI).

 

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