L'avviso (finale) del Fondo Monetario Internazionale all'Impero Americano

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L'avviso (finale) del Fondo Monetario Internazionale all'Impero Americano


di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico

 

Abbiamo sempre sottolineato che questa enorme crisi geopolitica in corso abbia una origine di tipo economico e monetario. Del resto solo le persone ingenue possono credere che agenti razionali come sono gli USA (o per meglio dire le sue élites) possano rischiare la distruzione di buona parte del mondo a causa di una guerra termonucleare per delle mere rivendicazioni territoriali peraltro relative a paesi neanche particolarmente ricchi e importanti come l'Ucraina. Si può rischiare il mondo per quale stato – tra Ucraina e Russia – avrà la sovranità su Mariupol o Krivoy Rog? Senza offesa per queste ridenti e senza dubbio graziose cittadine ipotizzare che si possa rischiare di uccidere miliardi di persone per quale stato debba controllarle è letteralmente impensabile.

Molto più congrua e razionale invece è l'ipotesi che il vero “Nodo di Gordio” che sta portando il mondo sull'orlo del baratro sia di natura economica e monetaria.

Gli Stati Uniti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale hanno assunto il ruolo prima di finanziatore di ultima istanza per consentire la ricostruzione delle aree del mondo distrutte dal conflitto e poi, successivamente, hanno assunto il ruolo di “compratore di ultima istanza” (uso un'espressione molto felice coniata dall'economista Marcello De Cecco), ovvero sia, si sono incaricati il ruolo di assorbire le merci in eccesso prodotte nel resto del mondo inondando contemporaneamente il mondo di dollari. Divisa americana peraltro ben accetta da tutti i paesi del mondo essendo l'unica ad essere convertibile in oro (come da accordi di Bretton Woods) e conseguentemente utilizzata come moneta di scambio di tutti i commerci internazionali; anche quelli dove gli USA non c'entravano nulla, per intenderci.

E' chiaro che un simile meccanismo poteva consentire un equilibrio economico-monetario tra diverse aree del mondo e diverse nazioni fino a quando gli USA avessero mantenuto il loro vantaggio tecnologico che consentiva loro di rimanere competitivi sfornando nuovi prodotti e servizi e così riequilibrare i conti con l'estero a partire dalla bilancia commerciale. Le prime avvisaglie della rottura del meccanismo descritto le abbiamo avute negli anni 80 del secolo scorso con l'esplosione dell'export giapponese ottenuto grazie all'innovazione tecnologica legata soprattutto alla robotica e al settore meccanico in generale. Lo squilibrio come sappiamo, è stato relativamente sanato grazie ai cosiddetti Accordi del Plaza del Settembre del 1985 con i quali si decise la rivalutazione dello Yen giapponese rispetto alle altre divise (ed in particolare del Dollaro USA) consentendo così di decelerare la competitività del sistema produttivo nipponico rispetto a quella dei sistemi produttivi del resto del mondo.

Nel corso degli anni, dopo questi accordi, comunque emersero altri competitors che riuscirono ad erodere la competitività americana e che dunque di fatto minarono il sistema degli scambi internazionali “dollarocentrico”. Ci riferiamo da un lato alla Germania e ai paesi nordeuropei che grazie all'unione monetaria europea e al costo energetico bassissimo grazie all'import di gas dalla Russia riuscirono a guadagnare enormi mercati di sbocco (le prime vittime furono i paesi del sud Europa della UE) ed enorme competitività a livello globale e, dall'altro lato, alla Cina assisa al ruolo di fabbrica del mondo e al Giappone, alla Corea del Sud e a Taiwan sempre drive importantissimi per quanto riguarda l'innovazione tecnologica.

Come si può vedere, siamo di fronte ad una schiera di competitors degli USA temibile e che, infatti, è riuscita ad erodere completamente la competitività del Made in USA e a devastare – nel corso dei decenni – i suoi conti con l'estero fino a farle raggiungere la spropositata cifra di quasi ventimila miliardi di posizione finanziaria netta negativa dei nostri giorni. Una cifra che obbliga gli USA da anni a rifornirsi per una cifra equivalente dai mercati finanziari esteri per ristabilire l'equilibrio fondamentale tra risparmi e investimenti (R = Y).

Naturalmente fino a quando si trovano investitori disposti a finanziare questo squilibrio le cose apparentemente vanno bene; il problema emerge in tutta la sua virulenza quando il paese affetto da questo male si vede i cosiddetti “investitori internazionali” voltargli le spalle. Cosa questa che è esattamente ciò che sta avvenendo, almeno in parte, agli USA: la Russia non investe più negli USA (anche per ragioni legate al regime sanzionatorio susseguito alla guerra in Ucraina), la Cina ha fermato platealmente gli afflussi di nuovi capitali verso gli USA, così come allo stesso modo stanno mordendo il freno gli Emirati Arabi e l'Arabia Saudita entrati clamorosamente nell'orbita dei BRICS.

Una situazione drammatica che gli USA hanno fino ad ora tamponato grazie all'emissione di nuovi dollari stampati dalla FED e utilizzati per acquistare soprattutto titoli di stato USA di nuova emissione e ormai snobbati da molti investitori internazionali.

Una verità questa non più nascondibile, tanto è vero che, proprio ieri il Fondo Monetario Internazionale non ha più potuto esimersi dal sottolineare che il Deficit USA pone seri rischi all'economia mondiale perché aumenta l'inflazione a livello globale. Proprio questo rimando all'inflazione lascia intendere che il problema è la stampa di nuovi dollari per l'acquisto di titoli di stato da parte della FED (o del sistema bancario USA) il nodo del problema non più eludibile. Il FMI a mio avviso per ragioni politiche indora la pillola amara somministrata agli USA sottolineando che anche la Cina dovrebbe frenare la propria spesa pubblica, dimenticandosi però di dire che Pechino non ha bisogno di nuovi Yuan emessi dalla banca centrale per finanziarlo, avendo una posizione finanziaria netta positiva per migliaia di miliardi di dollari, e conseguentemente risparmio libero da investire a livello domestico.

Ciò che comunque lascia particolarmente sbalorditi dei rilievi mossi dal Fondo Monetario a Washington è il tono utilizzato: quello tipico usato nei confronti dei paesi ad un passo dalla bancarotta e che fino ad ora era a triste appannaggio di paesi come la Grecia oppure anche l'Italia.

Ovviamente, siccome è impensabile che gli USA smantellino le centinaia di basi militari sparse per il mondo o che ridimensionino quell'idrovora mangiasoldi che è il Pentagono con la finalità di ridurre la domanda aggregata attraverso l'abbattimento della spesa pubblica che in prospettiva comporta anche minori importazioni e dunque un miglioramento dei conti con l'estero, non possiamo fare altro che ipotizzare un aumento della conflittualità in giro per il mondo, soprattutto nelle aree dove confinano gli avversari strategici (Russia e Cina soprattutto), così da far bruciare – nelle intenzioni – l'enorme debito in un immenso falò bellico.

Chi spera in un ritorno della pace grazie a trattative su questioni territoriali, siano esse in Ucraina o nel Mar Cinese Meridionale, farebbe bene a riflettere sulle problematiche economiche, che sottolineo, non sono legate “ai soldi” dei ricchi capitalisti, ma al benessere di interi popoli e dunque alla stabilità sociale di intere nazioni. Sono facile profeta: gli USA prima di essere ridotta ad una enorme Argentina venderanno cara la pelle.

Giuseppe Masala

Giuseppe Masala

Giuseppe  Masala, nasce in Sardegna nel 25 Avanti Google, si laurea in economia e  si specializza in "finanza etica". Coltiva due passioni, il linguaggio  Python e la  Letteratura.  Ha pubblicato il romanzo (che nelle sue ambizioni dovrebbe  essere il primo di una trilogia), "Una semplice formalità" vincitore  della terza edizione del premio letterario "Città di Dolianova" e  pubblicato anche in Francia con il titolo "Une simple formalité" e un  racconto "Therachia, breve storia di una parola infame" pubblicato in  una raccolta da Historica Edizioni. Si dichiara cybermarxista ma come  Leonardo Sciascia crede che "Non c’è fuga, da Dio; non è possibile.  L’esodo da Dio è una marcia verso Dio”.

 

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