LE CAUSE ECONOMICHE DIETRO IL MASSACRO DI GAZA

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LE CAUSE ECONOMICHE DIETRO IL MASSACRO DI GAZA

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"Jihad e imperialismo" di Maurizio Brignoli. La casa editrice de l'AntiDiplomatico (LAD EDIZIONI) è orgogliosa di annunciare un testo a cui teniamo particolarmente e che risulta di estrema attualità per comprendere le dinamiche odierne in Medio Oriente. 




Di seguito un commento de l'Autore sulla mattanza in corso a Gaza da un punto di vista poco approfondito: l'economico. 


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di Maurizio Brignoli

 

Gli eventi come le guerre, notoria continuazione della politica di stato con altri mezzi, hanno alle spalle una struttura economica. Proviamo ad allargare quindi la prospettiva e a cercare motivazioni allo sterminio dei palestinesi che vadano al di là della rappresaglia scatenata dopo la sanguinosa operazione Tempesta di al-Aqsa del 7 ottobre.

I piani di pulizia etnica, trasferimento forzato di popolazione e, in ultima istanza, genocidio non corrispondono solo al razzismo intrinseco alla dottrina sionista, che nasce con tutte le peculiarità di un’ideologia colonialistica, e alla necessità di stroncare la lotta di liberazione nazionale palestinese, ma corrispondono anche agli interessi del capitale occidentale (israeliano e non solo). Questi piani si inseriscono a loro volta nel contesto più ampio dello scontro interimperialistico che vede gli Usa (e il subordinato europeo) sempre più in difficoltà sul piano strutturale nei confronti dei concorrenti cinesi. Difficoltà che porta l’imperialismo occidentale a cercare di utilizzare l’unica arma efficace che ha ancora a disposizione e uno dei pochi settori produttivi in cui mantiene una predominanza: la guerra.

 

Guerra per i giacimenti e piani di deportazione

Che peso hanno gas e petrolio nel contesto del massacro in atto? Nel momento in cui l’Ue ha ridotto fortemente gli approvvigionamenti dalla Russia, il Medioriente e il Nord Africa (dove si trovano il 57% delle riserve mondiali di petrolio e il 41% di quelle di gas) hanno visto aumentare le richieste per le loro risorse energetiche.

In una situazione in cui la crisi economica diventa sempre più pesante, e la crisi che colpisce l’economia occidentale colpisce allo stesso modo Israele, controllare le riserve e le vie di transito degli idrocarburi e la moneta con cui si valutano diventa sempre più importante all’interno dello scontro interimperialistico con la Cina che ha messo a segno importanti colpi garantendosi gli approvvigionamenti con accordi siglati con Russia, Iran e petromonarchie, favorendo il processo di pacificazione della regione con un’importante azione diplomatica culminata con gli accordi fra Iran e Arabia Saudita e, quel che è ancor più pericoloso per gli Usa, ponendo le basi per la realizzazione del petroyuan.

Lo United States Geological Survey, agenzia scientifica del governo statunitense, fra il 2009 e il 2010 scopriva nel Bacino del Levante (Mediterraneo orientale) una quantità di gas e petrolio sufficiente a garantire per 50 anni le riserve mondiali di energia fossile. Gli stati interessati a questa posizione geostrategica determinante, che risolverebbe il problema energetico dell’Ue e la sua dipendenza dai rifornimenti russi, sono Siria, Libano, Israele, Gaza, Egitto, Turchia e Cipro. Paventando il pericolo il capitale russo firmava subito una serie di accordi con i paesi rivieraschi per costruire infrastrutture con l’obiettivo di indirizzare il flusso energetico verso i mercati asiatici col fine di procurarsi nuovi clienti mantenendo, al contempo, la posizione egemonica di cui godeva nel rifornire l’Europa. I progetti russi incontravano però la reazione degli imperialismi concorrenti: il governo cipriota subiva un pesante attacco finanziario, dopo l’accordo siglato fra russi e palestinesi per lo sfruttamento delle risorse prospicenti la striscia di Gaza scattava l’aggressione israeliana con l’operazione Piombo fuso e la Siria diventava oggetto prioritario dei processi di cambio di regime per mano jihadista.

Fra i diversi giacimenti di gas e petrolio alla fine del 2010 veniva scoperto Leviathan situato a meno di 200 chilometri dalle coste della Striscia di Gaza e di Israele e che si trova dunque in parte nelle acque territoriali di Gaza, dove si trova anche il giacimento denominato Gaza Marine (si stima contenga 1.000 miliardi di metri cubi di gas) appartenente ai palestinesi e scoperto nel 1999 dalla British Gas (ora assorbita da Shell)[1]. Le vicende del Gaza Marine sono interessanti: nel 1999 l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che deteneva il 10% delle quote, siglava un contratto con British Gas (60%) e con Consolidated Contractors (30%), una compagnia privata palestinese, ma Israele, puntando a impossessarsi del gas a prezzi stracciati, impediva l’operazione. Con la mediazione del primo ministro britannico Tony Blair (1997-2007) si raggiungeva un nuovo accordo che permetteva a Israele di impossessarsi dei tre quarti dei futuri introiti del gas, versando la quota palestinese su un conto internazionale controllato da Usa e Regno Unito. Nel 2006, dopo aver vinto le elezioni, Hamas bocciava l’accordo. Nel 2007 Moshe Ya’alon, futuro vice primo ministro (2009-2013) e ministro della difesa israeliano (2013-2016), avvertiva che «il gas non può essere estratto senza una operazione militare che sradichi il controllo di Hamas a Gaza»[2] e nel dicembre 2008 scattava contro la Striscia di Gaza l’operazione “Piombo fuso”, di cui l’operazione Spade di ferro in atto costituisce la prosecuzione su più ampia scala, con l’obiettivo di impossessarsi definitivamente delle riserve marittime palestinesi. Al termine dell’operazione i giacimenti di gas palestinesi venivano confiscati da Israele in violazione del diritto internazionale. Nel 2012 l’Anp, con l’opposizione di Hamas riprendeva i negoziati con Tel Aviv, ma gli israeliani boicottavano la trattativa impedendo ai palestinesi di trarre profitto dai giacimenti. Agli inizi del 2014, previo accordo fra Anp e Russia, veniva affidato a Gazprom lo sfruttamento dei giacimenti marini e di un giacimento petrolifero in Cisgiordania. L’accordo si avvicinava sempre più alla realizzazione effettiva nel momento in cui il 2 giugno 2014 nasceva il nuovo governo di unità nazionale palestinese, ma pochi giorni dopo scattava l’operazione Margine di protezione con un nuovo attacco a Gaza. Il tentativo della Russia di inserirsi nella lotta per il controllo delle riserve energetiche dell’intero Bacino di Levante (Palestina, Libano, Siria) determinava il nuovo attacco israeliano con beneplacito statunitense.

I governi israeliani hanno delineato nel corso degli anni un progetto per trasformare il loro paese in un punto di snodo per il trasporto del gas verso l’Europa. Fra il 2021 e il 2022 Israele ed Egitto, in concomitanza con l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche determinato dalla guerra in Ucraina e dalla disperata ricerca di risorse alternative da parte degli europei, hanno tenuto incontri segreti aventi per oggetto lo sfruttamento dei giacimenti al largo delle coste di Gaza, accompagnati dalla firma di un memorandum tra Egitto e Israele con il beneplacito dell’Anp[3].

L’obiettivo di Israele è quello di impossessarsi delle immense ricchezze costituite dai giacimenti di gas che spetterebbero ai palestinesi, sia il Gaza Marine che parte del Leviathan. Come rilevato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) le perdite per i palestinesi si stimano in centinaia di miliardi di dollari[4]. D’altronde l’investimento militare nello sterminio dei palestinesi deve essere ripagato dato che comporta perdite economiche valutate in 260 milioni di dollari al giorno[5].

I giacimenti del Mediterraneo orientale e (in subordine) i progetti statunitensi di una via alternativa alla Bri sono due elementi che aiutano a comprendere il massacro in atto volto a un controllo della costa palestinese con conseguente gestione dei canali commerciali. Questo aiuta a capire i progetti di deportazione di oltre due milioni di persone – e perché vengano scientemente bombardati abitazioni civili, ospedali, campi profughi, scuole, rifugi – con l’obiettivo di fare piazza pulita della Striscia. Quando Netanyahu all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel settembre 2023 ha mostrato una mappa del “nuovo Medioriente” in cui non compariva la Palestina stava già delineando la realizzazione di questi piani.

Un documento del ministero dei servizi segreti israeliano, datato 13 ottobre, raccomanda la deportazione degli abitanti di Gaza (2,3 milioni o quel che ne resterà) nella zona desertica del Sinai egiziano, impedendo ai palestinesi la possibilità di rimettere piede vicino ai confini israeliani (non giuridicamente delimitati visto che i sionisti puntano alla realizzazione del Grande Israele). Il piano si articola in tre fasi: 1) costringere la popolazione stanziata nel nord della Striscia (oltre un milione di persone), sottoposto a bombardamenti massici, a spostarsi verso sud; 2) far entrare l’esercito israeliano a Gaza in modo da occupare l’intera Striscia ed eliminare le postazioni di Hamas; 3) trasferire la popolazione in territorio egiziano da cui non dovrà fare più ritorno[6]. All’Egitto, le cui condizioni economiche sono gravi, è stato proposto l’annullamento dell’intero debito estero (135 miliardi di dollari). Al-Sisi ha però rifiutato, almeno per ora, l’offerta probabilmente perché non vuole trovarsi in casa gli uomini di Hamas originatasi dai Fratelli musulmani che l’Egitto ha messo fuorilegge.

A scanso di equivoci conviene ricordare che questi piani non sono dettati dalla rabbia suscitata per le vittime israeliane dell’attacco del 7 ottobre, ma costituiscono l’attuazione di un progetto preesistente insito nella natura e negli obiettivi finali del sionismo. Netanyahu proponeva questa soluzione già nel 2017[7].

 

Imec e Canale Ben Gurion

Su un piano strutturale più generale questi progetti potrebbero connettersi bene con l’India-Middle East-Europe Economic Corridor (Imec), e col ruolo che questo ha nella competizione cruciale fra Usa e Cina. L’Imec è stato presentato al vertice del G20 a Nuova Delhi (settembre 2023) con un memorandum d’intesa firmato da India, Eau, Arabia Saudita, Francia, Germania, Italia e Ue e prevede un esplicito ruolo per Israele: «L’Imec sarà composto da due corridoi separati, il corridoio orientale che collega l’India al Golfo Persico e il corridoio settentrionale che collega il Golfo Persico all’Europa. Comprenderà una ferrovia che, una volta completata, fornirà una rete di transito transfrontaliero nave-ferrovia affidabile ed economicamente vantaggiosa per integrare le rotte di trasporto marittimo e stradale esistenti, consentendo a merci e servizi di transitare da, verso e tra l’India, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Giordania, Israele ed Europa»[8], con l’obiettivo finale di dar vita a un’alternativa alla Bri cinese e al Corridoio nord-sud indiano-russo.

L’Imec, come molti dei velleitari progetti statunitensi di contrastare la Bri sul piano economico (il contrasto è riuscito meglio sul piano militare andando a destabilizzare il corridoio russo-ucraino, la Siria, ecc.), presenta delle debolezze dato che vuole coinvolgere paesi, Arabia Saudita ed Eau in testa, che hanno enormi interessi energetici e commerciali con Pechino danneggiando al contempo l’International North–South Transport Corridor (Instc) indo-russo, nel tentativo di portare sempre più l’India (che con la Cina ha diversi contenziosi aperti) su posizioni filostatunitensi e favorire gli israeliani che avrebbero nel porto di Haifa un terminale cruciale dell’Imec: «Il gioco è piuttosto rozzo e abbastanza ovvio: un corridoio di trasporto concepito per aggirare i tre principali vettori della reale integrazione dell’Eurasia – e i membri del Brics Cina, Russia e Iran – facendo penzolare un’allettante carota “Divide et impera” che promette cose che non possono essere realizzate»[9]. Israele gioca qui la funzione di “estensione imperiale” del potere statunitense in una delle regioni più importanti del mondo[10].

Inoltre bisognerà capire cosa resterà del processo di ulteriore consolidamento degli Accordi di Abramo fra Israele e gli stati arabi (che venivano a costituire una sorta di equivalente politico del progetto economico Imec con l’obiettivo finale di limitare la penetrazione cinese e isolare sempre più l’Iran diplomaticamente ed economicamente), già indeboliti dall’accordo del marzo 2023 fra Iran e Arabia saudita mediato da Pechino, dopo il nuovo massacro nella Striscia di Gaza. Gaza avrebbe la potenzialità di diventare uno snodo importante per i grandi corridoi di trasporto come Bri e Imec. Al di là delle dimensioni, che in questi casi contano eccome, del progetto Imec che non è certo paragonabile per estensione alla Bri, non è chiaro di quali finanziamenti goda, c’è il rischio che i singoli paesi debbano autofinanziare la propria parte mentre il capitale cinese ha già fatto numerosi e concreti investimenti per miliardi di dollari. Pechino potrebbe trarre comunque vantaggio dalla creazione di un’altra via di transito verso l’Europa e dato che sauditi ed emiratini hanno molti progetti avviati con la Cina è difficile pensare che le infrastrutture da costruire (la rete ferroviaria saudita vede la Cina come importante investitore, mentre la gestione dei porti degli Eau è strettamente collegata con le compagnie cinesi per il collegamento col Medioriente e il Nordafrica) non possano vedere una collaborazione con la Cina. A maggior ragione se si considera che sul percorso dell’Imec vi sono intere tratte in condominio con la Cina e che fanno parte della Bri come i porti di Haifa, Pireo e Gwadar o la ferrovia balcanica tra Grecia ed Europa centrale[11].

Infine il Canale di Suez, che resta la rotta commerciale predominante nella regione (il 12% del commercio mondiale transita lungo questa rotta), continua a offrire maggiori vantaggi. Ma è proprio qui che il piano energetico israeliano si collega con il progetto del Canale Ben Gurion, un progetto che prevede di congiungere Gaza e Ashkelon al golfo di Aqaba nel Mar Rosso (260 km) creando un nuovo corridoio, alternativo al Canale di Suez (193 km), per il commercio mondiale e l’energia.

L’idea del canale israeliano, dal costo stimato fra i 16 e i 55 miliardi, è nata dalle esperienze passate dello stato sionista che si vide chiuso l’accesso al canale di Suez dal 1948 al 1956 e nel 1967-75 con gli stati arabi che bloccavano le rotte terrestri danneggiando le importazioni petrolifere e i commerci israeliani con l’Africa orientale e l’Asia.

Il canale, che andrebbe ad attraversare Israele, Giordania, Egitto e i territori palestinesi permetterebbe di creare un corridoio attraverso la Palestina occupata garantendo a Israele un passaggio marittimo strategico che consentirebbe di modificare i rapporti di potere regionali rafforzando ulteriormente Israele. L’eliminazione dei palestinesi dalla Striscia aprirebbe un percorso diretto verso il Mar Rosso riducendo i tempi di transito e i relativi costi e il risparmio di miliardi di dollari anche nella costruzione del canale stesso: «Chiunque controlli il canale avrà un’enorme influenza sulle rotte di approvvigionamento globali di petrolio, grano e trasporti marittimi. Con Gaza rasa al suolo, ciò consentirebbe ai progettisti del canale di tagliare letteralmente gli angoli e ridurre i costi deviando il canale direttamente al centro del territorio»[12]. L’unico problema è dato dalla presenza dei palestinesi che occupano la Striscia di Gaza.

I danni economici per l’Egitto sarebbero enormi dato che il canale di Suez frutta alle finanze egiziane oltre 9 miliardi di dollari all’anno. Ma sarebbe danneggiata pure la Turchia (esclusa anche dall’Imec) dato che il progetto legato al Canale Ben Gurion andrebbe a colpire la direttrice di trasporto energetico e commerciale Bassora-Europa incentrata sulla Turchia.

 

I debiti degli Usa e gli interessi del complesso militare-industriale

Gli Usa scavano un’altra voragine nel loro debito (debito pubblico che si traduce in interesse privato, visto che è nelle tasche delle aziende private che finiscono i miliardi destinati al complesso militare-industriale con relativa distruzione dello stato sociale e sgravi fiscali per le imprese)[13] con l’annuncio di Biden di finanziamenti per 100 miliardi di dollari, che svolgono la funzione equivalente del cosiddetto quantitative easing (facilitazione creditizia, grandi iniezioni di liquidità che in una fase capitalistica espansiva possono favorire la produzione di merci e valore, mentre in una di crisi l’eccesso di sovrapproduzione di merci determina una contrazione del tasso di profitto e una pletora di capitale monetario)[14] destinati a Ucraina, Israele, Taiwan per la gioia delle grandi imprese di armamenti come Raytheon, Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, Northrop Grumman, ecc. Che almeno una parte dell’amministrazione statunitense, quella legata al complesso militare-industriale e politicamente rappresentata dal connubio fra neoconservatori e “dirittumanisti” liberal, stia pensando a un conflitto su tre fronti (Russia, Iran e Cina) non è un mistero. Per quanto riguarda la Russia la guerra per interposta persona si sta combattendo (principalmente) in Ucraina, un nuovo fronte che rischia di allargarsi a Libano e, in ultima istanza, Iran, si è aperto in Palestina e infine, quello che è il conflitto principale dal punto di vista del grande scontro interimperialistico, è quello con la Cina che potrebbe essere facilitato a partire dalla questione di Taiwan o del Mar cinese meridionale.

Gli Usa da tempo (presidenze di Obama, Trump, Biden) cercano di ridurre il loro immenso debito estero con una politica protezionistica con la grande preoccupazione che i creditori asiatici, cinesi in testa, utilizzino i loro attivi anche per acquisire il controllo di aziende statunitensi, approfondendo così un processo di centralizzazione del capitale in mani cinesi: «la feroce competizione economica moderna, con gli enormi squilibri internazionali che genera, per infiniti rivoli può sempre sfociare in scontri militari. Parafrasando Clausewitz, potremmo arrivare a dire che in fin dei conti la guerra è prosecuzione del capitalismo con altri mezzi»[15]. Il blocco imperialistico occidentale non è autosufficiente per quel che riguarda energia e materie prime, per questo motivo gli Usa hanno cercato di normalizzare i rapporti fra Israele e alcuni paesi musulmani (petromonarchie in primis) in modo da garantire allo stato sionista i rifornimenti necessari e inserire i paesi produttori di petrolio e materie prime nel cosiddetto “friend shoring” statunitense pensato per fronteggiare il capitale russo e cinese. Il problema, come ricorda Emiliano Brancaccio, è di aver lasciato in sospeso la questione palestinese, l’equivalente del “dimenticare” sotto il tavolo delle trattative una bomba: «In sostanza, nelle trattative per la “normalizzazione” dei rapporti tra Israele e produttori arabi di energia, chi ha agito per lasciare irrisolta la questione palestinese di fatto ha inciso più o meno consciamente a una profondità molto maggiore, arrivando a scuotere il progetto americano di divisione dell’economia mondiale in blocchi. Solo tenendo conto di questo punto di fragilità sistemica del “friend shoring” è possibile afferrare il senso e le implicazioni generali dell’aggressione di Hamas in territorio israeliano, dell’avvio della reazione militare da parte di Tel Aviv e delle minacciose conseguenze non solo a Gaza ma in tutto il Medio Oriente. La svolta statunitense verso questa forma di protezionismo unilaterale è attualmente il principale fattore di innesco degli sciagurati comportamenti umani verso la guerra»[16].

Più in generale non va dimenticato che le guerre dal punto di vista capitalistico, in particolare in una fase di crisi mondiale da sovrapproduzione, hanno il vantaggio di trasferire il plusvalore ai vincitori (la guerra non ne crea di nuovo) e attraverso un processo di distruzione dell’eccesso di sovrapproduzione pongono le premesse per un nuovo ciclo di accumulazione. Le armi, come del resto qualsiasi altra merce, richiedono di essere consumate onde evitare una crisi da sovrapproduzione nel settore e gli Usa sono i principali produttori mondiali oltre a essere il paese il cui bilancio prevede spese militari per 877 miliardi di dollari nel 2022, pari al 39% della spesa militare globale totale (cifra tre volte superiore all’importo speso dalla Cina)[17]. Da qui la spiegazione della “terza guerra mondiale a pezzi”. Sempre col pericolo che, nel disperato tentativo di salvaguardare un sistema politico ed economico imperialistico sempre più alla deriva, questa si trasformi in una guerra mondiale tout court. Eventualità per altro abbondantemente paventata negli ambienti militari statunitensi che prevedono un conflitto con la Cina entro il 2025[18].

 

Rischi di allargamento del conflitto e prezzo del petrolio

Interesse degli Usa potrebbe essere un Medioriente destabilizzato che danneggi la Bri e l’Instc – soprattutto nel momento in cui Washington ha inanellato qui una serie di fallimenti come il ritiro dall’Afghanistan, la sostanziale sconfitta in Siria, la ridotta capacità di pressione sulle petromonarchie che si rifiutano di aumentare la produzione per abbassare i prezzi, il cammino verso la realizzazione del petroyuan, una sempre più forte penetrazione diplomatica (e militare) nella regione di Russia e Cina che sono riusciti a disinnescare una delle principali armi del divide et impera dell’imperialismo occidentale favorendo la ripresa delle relazioni fra Arabia Saudita e Iran – ma non al punto da scatenare per ora un conflitto regionale, almeno per una parte dell’amministrazione Usa dato che in questo momento in cui si è in vista delle elezioni una nuova guerra costerebbe la sconfitta a Biden (o chi per esso), resta il fatto che l’occasione di scatenare un conflitto con Hizballah e ancor più con l’Iran è sempre obiettivo dei neocon e dei “dirittumanisti” che esprimono gli interessi del complesso militare-industriale che sta facendo affari d’oro con la guerra in Ucraina e che si sta già fregando le mani di fronte allo stanziamento di altri 100 miliardi di dollari per rifornire di armamenti Israele, Ucraina e Taiwan e che appoggerebbero con entusiasmo il progetto sionista di coinvolgere il Libano e l’Iran nel conflitto che costringerebbe poi gli Usa a un intervento diretto: «Per gli Stati Uniti, quindi, costringere il Medio Oriente a scomparire è un modo per evitare che diventi uno dei principali alleati di Cina e Russia. Un conflitto militare con l’Iran, sia in Siria che in Iraq o sotto forma di un attacco diretto all’Iran, spingerebbe indietro di decenni la politica del nuovo Medio Oriente»[19]. Per ora Iran e Hizballah si sono comportati con prudenza, ma i pericoli vengono dal prosieguo della mattanza e dalla posizione di appoggio (quasi) incondizionato degli Usa.

La strategia messa in atto sembra essere quella di iniziare una nuova guerra dopo ogni sconfitta. Dopo il ritiro dall’Afghanistan si è favorito l’esplodere del conflitto per interposta persona con la Russia in Ucraina e dopo la sconfitta in Ucraina una parte della classe dirigente statunitense sta preparando una nuova guerra in Medioriente, nonostante il rischio concreto sia di incorrere in un’altra débâcle.

Se a parole l’amministrazione statunitense sembra voler esercitare una qualche forma di contenimento della rappresaglia israeliana, nella realtà, oltre a continuare a rifornire di armi Tel Aviv, ha spedito nella regione la sua imponente forza navale ed è intervenuta direttamente bombardando in Siria più volte le milizie filoiraniane: «Washington ha meditato sulle possibili conseguenze di un’eventuale sconfitta israeliana a Gaza immediatamente successiva alla disfatta della Nato in Ucraina. Nessuno più temerebbe l’Occidente. Il rancore accumulato da decenni fa prevedere una ferocia incontrollabile, di cui Hamas ha dato un assaggio. Le grandi potenze occidentali hanno perciò deciso di chiudere gli occhi sul massacro che si sta compiendo. Sono consapevoli di permettere e favorire un genocidio, ma temono soprattutto di dover rendere conto dei crimini commessi in passato e di quelli attuali. A Gaza è quindi in gioco non la questione palestinese, ma la supremazia occidentale, l’imposizione delle sue regole, nonché gl’indebiti vantaggi che ne traggono gli Occidentali. La tensione non è mai stata così alta dalla seconda guerra mondiale»[20].

Gli europei rischiano grosso, le guerre in Medioriente hanno puntualmente delle conseguenze sul mercato dell’energia con una riduzione dell’offerta e un aumento dei prezzi. La Banca mondiale ha stilato un rapporto dopo l’operazione Tempesta di al-Aqsa per valutare le conseguenze sull’evoluzione dei prezzi del petrolio delineando tre differenti scenari di gravità crescente: nel primo, paragonabile alle conseguenze dell’abbattimento della Libia di Gheddafi nel 2011, ci sarebbe una riduzione dell’offerta oscillante fra 0,5 e 2 milioni di barili al giorno con un incremento del prezzo fra il 3 e il 13%; nel secondo, equiparato alle conseguenze dell’attacco all’Iraq nel 2003, ci sarebbe una contrazione fra i 3 e i 5 milioni di barili al giorno con un aumento dei prezzi fra il 21 e il 35%; infine, il terzo scenario, equiparabile all’embargo sul petrolio del 1973 in seguito alla guerra dello Yom Kippur, la riduzione sarebbe fra i 6 e gli 8 milioni di barili al giorno con un aumento del prezzo fra i 56 e il 75%[21]. Che le conseguenze sarebbero devastanti principalmente per l’economia europea è una facile deduzione, soprattutto nel caso il conflitto dovesse allargarsi e a maggior ragione nel caso di un coinvolgimento dell’Iran e/o dello Yemen con un blocco dei principali corridoi per il trasporto di gas e petrolio (stretto di Hormuz e/o di Bab al-Mandab) o nel caso, per ora improbabile, di un’azione dei paesi produttori mediorientali che sul modello della crisi del 1973 potrebbero decidere di alzare il prezzo del petrolio o colpire con un embargo Israele e i suoi alleati. A tale proposito Algeria, Libano e Iran hanno proposto al vertice araboislamico di Riad (11 novembre) di interrompere le forniture a Israele e alleati, ma la misura pare sia stata respinta da Eau, e Bahrein. Gli europei vedrebbero ulteriormente approfondita la loro dipendenza dagli Usa per i rifornimenti (comunque quantitativamente insufficienti) a prezzo elevato che andrebbero a sommarsi alle disgraziate conseguenze ottenute da Washington con la guerra per interposta persona contro Mosca che hanno portato a un taglio dei preziosi rifornimenti energetici russi (per non parlare del sabotaggio del Nord Stream) a basso prezzo che permettevano all’economia europea di mantenersi concorrenziale. Unica alternativa sarebbe tornare a rivolgersi, con la coda fra le gambe, a Mosca.



*Maurizio Brìgnoli (Milano, 1966), si è occupato sulla rivista la Contraddizione delle trasformazioni dell’imperialismo e del ruolo storico delle principali religioni. Ha pubblicato Breve storia dell’imperialismo, La Città del Sole, Napoli 2010 e Jihad e imperialismo, LAD, Roma 2023.

NOTE

[1] Cfr. Felicity Arbuthnot, “Israel Gas-Oil and Trouble in the Levant”, Global Research, 13 dicembre 2013; Felicity Arbuthnot – Michel Chossudovsky, “Video: ‘Wiping Gaza Off The Map’: Big Money Agenda. Confiscating Palestine’s Maritime Natural Gas Reserves, Global Research, 4 novembre 2023.

[2] Manlio Dinucci, “Gaza, il gas nel mirino”, il manifesto, 15 luglio 2014.

[3] Cfr. Rasha Abou Jalal, “Egypt persuades Israel to extract Gaza’s natural gas”, Al-Monitor, 6 ottobre 2022

[4] Cfr. Unctad, The Economic Costs of the Israeli Occupation for the Palestinian People: The Unrealized Oil and Natural Gas Potential, Ginevra 2019.

[5] Cfr. Galit Altstein, “War Budget Leaves Netanyahu Caught Between Markets and Politics”, Bloomberg, 12 novembre 2023.

[6] Cfr. “Una nota del ministero israeliano dell’Intelligence raccomanda l’espulsione degli abitanti di Gaza in Egitto”, Rete Voltaire, 31 ottobre 2023.

[7] Cfr. Sue Surkes, “Netanyahu proposed settling Palestinians in Sinai, Mubarak says”, The Times of Israel, 30 novembre 2017.

[8] “Memorandum of Understanding on the Principles of an India – Middle East – Europe Economic Corridor”, Casa Bianca, 9 settembre 2023

[9] Pepe Escobar, “War of Economic Corridors: the India-Mideast-Europe Ploy”, The Cradle, 25 settembre 2023.

[10] Cfr. Ben Norton, “Why does the US support Israel? A geopolitical analysis with economist Michael Hudson”, Geopolitical Economy Report, 12 novembre 2023.

[11] Cfr. Salman Rafi Sheikh, “The Future of the India-Middle East-Europe Economic Corridor”, New Eastern Outlook, 10 ottobre 2023; Maria Morigi, “Corridoi economici: il cimitero dei progetti occidentali per contrastare Cina e BRI”, Marx XXI, 4 ottobre 2023.

[12] Yvonne Ridley, “An Alternative to the Suez Canal Is Central to Israel’s Genocide of the Palestinians”, Middle East Monitor, 5 novembre 2023. Cfr. anche “Ben Gurion Canal Behind Canada-US Motive for Backing Israel’s Genocide”, Internationalist 360°, 13 novembre 2023.

[13] Per un’analisi della funzione del debito cfr. Carla Filosa – Gianfranco Pala – Francesco Schettino, Crisi globale. Il capitalismo e la strutturale epidemia di sovrapproduzione, l’AntiDiplomatico, Roma 2021, pp. 90-109.

[14] Cfr. Francesco Schettino – Fabio Clementi, Crisi, disuguaglianze e povertà, La Città del Sole, Napoli-Potenza 2020, pp. 79-85.

[15] Umberto De Giovannangeli, intervista a Emiliano Brancaccio, “Dietro la guerra c’è sempre il denaro”, l’Unità, 1 novembre 2023.

[16] Emiliano Brancaccio, “Israele, Gaza e la guerra economica mondiale”, Econopoly, 27 ottobre 2023.

[17] Cfr. Sipri, “Trend in World Military Expenditure”, aprile 2023.

[18] Cfr. Dan Lamothe, “U.S. General Warns War with China Is Possible in Two Years”, The Washington Post, 27 gennaio 2023.

[19] Salman Rafi Sheikh, “Why Is the US Targeting Iran?”, New Eastern Outlook, 8 novembre 2023.

[20] Thierry Meyssan, “La perpetuazione del dominio occidentale prevale sulla vita dei palestinesi”, Rete Voltaire, 31 ottobre 2023

[21] Cfr. “Potential Near-Term Implications of the Conflict in the Middle East for Commodity Markets: A Preliminary Assessment”, Special Focus, ottobre 2023, p. 16.

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