Le pecche del Decreto Piantedosi e le falsificazione delle ONG
di Francesca Ronchin*
Le nuove regole sulle ONG rischiano di fare più morti. Ma non per i motivi addotti dalle navi umanitarie, ossia che in loro assenza i migranti rischiano e muoiono di più. (Se mai è il contrario).
Per capire perché il decreto Piantedosi potrebbe fare molto male a chi tenta il viaggio della speranza, occorre prima accettare o comprendere qualcosa che per le ONG è irricevibile. Ovvero che i migranti si imbarcano sui pericolosissimi gommoni di plastica solo quando le ONG, così come i mezzi di soccorso europei, sono in mare. Persino in condizioni di meteo avverse.
Lo scrivono gli stessi migranti sui social raccontando come gli scafisti monitorino continuamente la posizione delle navi umanitarie tramite le ormai stranote app di tracciamento e lo sanno bene anche le stesse ONG. Basta osservare i soccorsi effettuati anche dalle ultime navi in mare, come la Geo Barents di Medici senza Frontiere o la Ocean Viking di Sos Mediterranee: la maggior parte dei migranti intercettati e soccorsi, guarda caso sono a bordo dei soliti gommoni.
Lo dice da tempo l’Agenzia Europea della Guardia di Frontiera Frontex e lo spiegano anche due ricercatori italiani, Claudio Deiana e Giovanni Mastrobuoni in uno studio che verrà pubblicato a breve sull’American Economi Journal.
Cosa c’entra con il pull factor la storia dei gommoni? Innanzitutto per un motivo molto semplice. Poiché il viaggio a bordo di queste bagnarole costa 1/3 rispetto a quello delle imbarcazioni più strutturate, l’abbassamento dei costi, ha di per sé prodotto un aumento della domanda allargando la platea di quanti contemplano di intraprendere il viaggio della speranza. Dire che le ONG quest’anno rappresentano poco più del 10% dei soccorsi (ma solo nel 2016 era il 45%) non significa nulla perché il fattore di attrazione va osservato sul numero complessivo dei tentativi di partenze e nel corso degli anni. Non è un caso infatti che ai tempi di Mare Nostrum e delle Missioni Europee come Triton ed Eunavfor Med, anni in cui c’erano fino a 14 navi ONG davanti alle coste libiche, i tentativi di partenza sono arrivati fino a 201 mila nel 2016. Tante partenze e tantissimi morti, ma nessuno di quanti invocano il ritorno di queste missioni di soccorso europeo lo ricorda mai (ben 3.165 morti con Mare Nostrum e addirittura 4.581 nel 2016).
Da quando nell’agosto 2017, dopo l’introduzione del codice Minniti, sono diminuite le ONG in mare e hanno iniziato a scemare i dispiegamenti europei, guarda caso non solo sono crollati i tentativi di partenza passati da 141.574 ai 45mila dell’anno successivo, ma è diminuito drasticamente anche l’utilizzo dei gommoni. Un caso?
Ora, poiché da nuove regole del Ministero dell’Interno, le ONG sono tenute a procedere allo sbarco dopo un primo soccorso, il rischio è che un gommone partito proprio perché le navi umanitarie sono davanti alle coste libiche (spesso a sole 19 miglia), nel momento in cui questo è al largo, se la nave di soccorso dovesse ripartire prima del previsto, si ritroverebbe scoperto e in balia delle onde.
Considerare questa eventualità significa ammettere che i migranti partono proprio perché ci sono le ONG in mare. Cosa che però le ONG continuano a respingere alla stregua di un “tentativo di criminalizzare” il proprio operato. Eppure, le vite dei migranti dovrebbero rappresentare una preoccupazione ben maggiore rispetto a quella di preservare la proprio buona reputazione.
Gli atteggiamenti pretestuosi si riscontrano anche rispetto alla decisione del Ministro Piantedosi di differenziare i porti italiani di sbarco.
Il fatto che le navi umanitarie debbano raggiungere i porti di Ancona o Livorno mentre le navi della Guardia Costiera o di Finanza continuano a sbarcare i migranti soccorsi, in Sicilia o in Calabria, è a dir poco surreale. Anziché complicare la vita alle ONG sarebbe meglio che il governo lavorasse sulla condivisione del porto di sbarco con gli altri Paesi europei, Francia in primis la cui capitale finanzia con entusiasmo SOS Méditerranée o la Germania il cui governo ha stanziato 2 milioni di euro a favore di United 4 rescue, una cordata di 4 ONG tra cui Sea Watch, Humanity e Sea Eye appena tornata davanti alle coste libiche.
Allo stesso tempo però la polemica delle ONG sui 4 giorni di navigazione perché, come ribadito dal Capo Missione di MSF "metterebbero a repentaglio la salute di persone già provate dal viaggio”, appare piuttosto strumentale. Occorre ricordare infatti che durante il Governo Conte II i giorni medi di permanenza a bordo delle navi erano 4,6 mentre nel governo Draghi addirittura 6. Se allora le sofferenze dei migranti non erano un problema, è curioso che lo siano diventato improvvisamente ora. Il problema sono i costi del viaggio, tema peraltro più che comprensibile dato che ogni giorno in mare costa a queste navi un minimo di 15mila euro, eppure la polemica riguarda sempre presunte ansie umanitarie. Non è un caso che le storie dei migranti a bordo delle navi che in questi giorni sono state fatte sbarcare ad Ancona o a Carrara si siano arricchite di particolari a dir poco fantasiosi ma utili ad attirare l’attenzione e a ribadire una presunta dimensione etica di queste navi. Esemplare la storia del migrante eritreo a bordo “scappato dall’Eritrea”, secondo la capo missione di Medici Senza Frontiere, “perché nel suo Paese tutti i bambini di 8 anni devono fare il servizio militare”. Un fake colossale, che non trova traccia nemmeno nei peggiori report di Amnesty. Curiose anche le lamentele sui minori che da La Spezia sono stati portati a Foggia, un viaggio di 750 km che sicuramente pesante ma dove l’immagine del “minore fragile e bisognoso delle nostre cure” cozza con la notizia dei minori fuggiti dal centro di accoglienza di Senigallia. Quale persona bisognosa di aiuto e protezione fugge da chi questo aiuto lo offre? La verità è che la maggior parte di quanti arrivano non sono rifugiati ma hanno già un piano migratorio ben preciso.
Ma l’intero racconto sul tema immigrazione è costellato di continue falsificazioni.
Penso all’utilizzo del termine migrante, che nel suo sottolineare un’inesistente volontà di nomadismo, falsifica le reali motivazioni di quanti lasciano il loro Paese non certo per spondeggiare tra le rive del Mediterraneo o le lacune della nostra legislazione, ma per cercare una terra in cui collocarsi e avere un futuro migliore. O alle operazioni che hanno favorito i processi di migrazione dall’Africa, pubblicizzate in nome di un umanitarismo volto all’accoglienza senza limiti di pseudo rifugiati, in nome della presunzione che il modello di vita occidentale sia preferibile o migliore rispetto a quello dei Paesi da cui prendono le mosse questi flussi migratori. L’immigrazione economica, che è il grosso di quella che arriva attraverso il Mediterraneo come confermano i dati europei sull’accoglimento delle richieste di asilo nel 2022 (solo il 39% ha avuto esito positivo), è un processo strutturale, di trasformazione di una società, sia di quella di partenza così come di quella di arrivo e confondere i piani, analizzare i flussi economici con lo sguardo della pietas umana, (penso ad esempio a chi ancora cerca di equiparare il flusso che attraversa il Mediterraneo a quello dei profughi ucraini) significa o non comprendere che non ci si trova davanti a una emergenza occasionale bensì a un fenomeno di trasformazione, oppure comprenderlo e condividere la metamorfosi in atto e ciò nonostante negarla. Coprirla con un velo per non parlarne e rimuovere l’argomento dal dibattito pubblico. Un po’ come la storia del pull factor, appunto.
*Autrice di "IpocriSea, le verità nascoste dietro i luoghi comuni su immigrazione e ONG" (Compagnia editoriale Aliberti)
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