L’Europa fuori dai giochi

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di Michele Blanco*

Nell’attuale contesto internazionale, l’Unione Europea sembra inesorabilmente tagliata fuori perché incapace di assurgere ad un ruolo politico unitario e a una politica estera unica tra gli Stati che la compongono. Il sogno europeo nacque dall’impegno a evitare la terza guerra mondiale con il progetto, purtroppo rimasto sulla carta, di un’integrazione non solo economica, ma anche politica, democratica e sociale finalizzato alla convivenza pacifica dei popoli e all’integrazione reciproca.
 
Oggi purtroppo l’Unione Europea rimane sostanzialmente “un gigante economico ma un nano politico”, perché ha tradito le grandi aspettative che avevano portato alla sua nascita: “I banchieri centrali … hanno preferito salvare gli istituti di credito che investire nella formazione, nella sanità e nella lotta ai cambiamenti climatici. Così hanno contribuito ad aumentare la concentrazione delle ricchezze, perché i più ricchi beneficiano della crescita dei titoli di borsa e immobiliari consentita dalle acquisizioni dei titoli e dal denaro pubblico, mentre il risparmio delle persone meno abbienti è schiacciato dall’inflazione.
 
Le regole europee di libera circolazione dei capitali si sono rivelate così estreme che perfino il Fondo Monetario Internazionale ha deciso di reintrodurre alcune forme di controllo dei capitali. Le nuove regole europee hanno anche contribuito ad aggravare il dumping fiscale (quando uno stato offre tasse più basse per attirare aziende e persone straniere): riduzione senza limiti dell’imposta sulle aziende, sviluppo dei paradisi fiscali, imposizione fiscale”, come giustamente fa notare l’economista Piketty.
 
Manca inoltre alla politica dell’ Unione Europea un ruolo autonomo dall’ ingerenza degli Stati Uniti, che sia propositivo soprattutto dal punto di vista dei diritti umani e della democrazia partecipativa. L’attuale conflitto in Ucraina, con tutte le sue implicazioni geopolitiche, sembra esserne una ulteriore prova. L’Europa, se fosse stata veramente autonoma e capace di esprimere una politica estera unitaria - ma non lo è - sarebbe stato il migliore mediatore possibile, per risolvere i problemi legati all’autonomia delle regioni russofone all’interno di un’Ucraina democratica, neutrale e federale.
 
L’Europa dipende dal resto del mondo per quasi tutto: per i fattori produttivi classici (energia, materie prime, manodopera) e per i fattori produttivi del futuro (chip, batterie, memorie). In questo momento di svolta epocale l’Europa sembra essere solo un grande mercato ricco di capitali, ma al tempo stesso, anche, un continente povero di tutto ciò che serve oggi e per il futuro. L’Unione Europea, oltre a non avere portato all’“idea rivoluzionaria della libertà realizzata per tutti e per ognuno”, oggi non ha la fondamentale “autonomia strategica”, sia politica che economica, e dimostra, ancora una volta, l’assoluta incapacità di capire il futuro. Al momento i necessari finanziamenti vengono dirottati sulle inutili spese militari.
 
Negli ultimi anni la rapidità e il costo dell’innovazione tecnologica sono stati fortemente facilitati dalla crescente collaborazione tra tutti gli attori mondiali, con interscambi continui e interdipendenza globale. Ma oggi si va nella direzione opposta, almeno per quanto riguarda noi europei. L’Europa in parte è tagliata fuori da alcune delle industrie di cui maggiormente avrebbe bisogno per affrontare con tranquillità la necessaria transizione energetica.
 
La Cina produce quasi il 95% del polisilicio, utilizzato per costruire pannelli solari, e più dell?80% dei pannelli solari al mondo seppure costituisca solo il 30% della domanda a livello mondiale. Al contrario l’Europa ne produce meno del 3%, con costi unitari superiori del 35% al confronto della produzione cinese, ma ne “consuma” il 16%. Nel nuovo panorama mondiale sono fondamentali le dotazioni di materie prime, ma anche le conoscenze. Nell’attuale contesto internazionale che sta emergendo l’Europa sta diventando un comprimario, privato del ruolo importante che invece potrebbe ricoprire per storia, tradizione, cultura dei diritti umani fondamentali e capacità economiche e benessere se non ricchezza diffusa.
 
Il rischio di questa impreparazione europea è che a farne le spese saranno soprattutto le classi medie e i ceti popolari: molte delle contrapposizioni odierne hanno come “primo motore immobile” il malessere socio-economico delle middle-class occidentali che vedono diminuire, anno dopo anno, la quota di crescita globale e di reddito.
 
L’intera popolazione mondiale ha la percezione del futuro molto incerta, e aumentano insicurezze e disuguaglianze sociali. Queste sensazioni sono molto più problematiche e diffuse nelle società occidentali, specie in Europa e nel Midwest americano, di converso sembrano essere più rosee in alcune parti del mondo, soprattutto in alcune società asiatiche molto dinamiche.
 
Le classi dirigenti occidentali stringono ancora le redini di sistemi essenziali per il funzionamento della società globale e non sembrano intenzionati a condividerle con il resto del mondo. Invece le classi dirigenti dei paesi emergenti hanno l’urgenza di sostituire e controbilanciare chi ancora oggi sembra detenere il potere mondiale. L’alleanza dei paesi del BRICS, che si rafforza e si amplia sempre più, con l?adesione continua di nuovi paesi membri, dimostra che le cose cambieranno ma non sappiamo come, né, tantomeno, quando. L’unica cosa certa, al momento, è che un’Unione Europea succube degli interessi economici degli Stati Uniti è condannata a perdere il suo prestigio politico, culturale ed economico, invece di assurgere ad autonoma possibile potenza continentale e rispettato mediatore dei conflitti nel nuovo “ordine” mondiale.
 
Anche la ferrea limitazione nell’esportazione delle tecnologie avanzate, imposta dal governo statunitense, il controllo degli investimenti stranieri nell’UE e degli investimenti europei all’estero, stanno contribuendo a preparare un futuro incerto. Non siamo alla fine della globalizzazione, ma intravediamo una sua forte correzione, in conseguenza della quale la crescita mondiale è destinata a calare e il prezzo dei beni a crescere. Sembra cominciata una feroce lotta per l’attrazione di quei “posti di lavoro in più” che la trasformazione della globalizzazione può rendere possibile. Gli strumenti per questa attrazione sono essenzialmente due: i sussidi pubblici per le imprese ad alto livello tecnologico e il basso costo del lavoro per i settori meno avanzati.
 
In questa gara gli Stati Uniti hanno messo a disposizione forti investimenti, mentre in Europa la risposta si è divisa in due parti. Da un lato Germania e Francia, come sempre, stanno attraendo le tecnologie di punta con ogni mezzo. Il resto d? Europa, purtroppo, viene attratto dai salari bassi di Romania, Ungheria e Bulgaria. In questa trasformazione non ancora è chiaro il ruolo delle altre nazioni europee, tra le quali l’Italia, che al momento sembrano non avere una grande autonomia soprattutto nelle determinanti e importanti questioni di politica estera.
 
Sarebbe necessaria una distribuzione più omogenea e giusta del potere a livello mondiale. Noi europei dobbiamo provare a proseguire sulla via dell’integrazione politica e democratica dell’ Unione, andando ben oltre la ratifica del Trattato di Lisbona e dando, finalmente, al Parlamento europeo potere legislativo e di nomina di un vero e proprio governo federale democratico: occorrerebbe una politica unitaria, in particolare, un ministero del Tesoro europeo, un ministro degli Esteri europeo, un Presidente eletto democraticamente, in carica per un mandato sufficientemente lungo da consentirgli di avere un progetto politico, rispondente alle reali richieste dei cittadini europei.
 
Nella governance mondiale va dato maggior peso ai paesi emergenti, per una reale partecipazione democratica a tutti i paesi del mondo, rivedendo in modo inclusivo e partecipativo l’organizzazione attuale delle istituzioni mondiali che, finora, sono sempre state a direzione ristretta dei governi occidentali.
 
Queste istituzioni devono infatti adeguarsi ai nuovi equilibri ed è assolutamente necessario che gli organismi politici come il Consiglio di sicurezza dell’ONU e le varie agenzie economiche, come il FMI e il WTO, riflettano la necessità di includere nelle decisioni tutti i paesi del mondo. Lungo queste linee si deve cercare di promuovere uno sviluppo reale, adeguato e diffuso che per prima cosa abbandoni gli aspetti più vergognosi e ingiusti del capitalismo predatorio che ha caratterizzato inesorabilmente le politiche mondiali fino ad oggi.
 
*Già pubblicato su "La Fonte periodico dei terremotati o di resistenza umana", luglio-agosto 2024, Anno 21, n. 7, pp. 20-21

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