L’imperialismo e il conflitto tra aree valutarie

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L’imperialismo e il conflitto tra aree valutarie

di Carla Filosa e Francesco Schettino*

La concatenazione transnazionale che ha cambiato la configurazione della lotta interimperialistica, ormai da molto non più rigidamente suddivisa per prevalente appartenenza statuale, appare nella richiesta di un’accresciuta capacità di penetrazione del capitale nel mercato mondiale. Perciò la predeterminazione di aree valutarie di riferimento supera in importanza la mera collocazione storica geografica dell’investimento.

Sarebbe perciò un grave errore ritenere, com’è diffuso costume, che gli elementi monetari e valutari siano soltanto una questione separata dalle strategie industriali produttive. Da un lato, si pongono in risalto i caratteri di una rincorsa dell’“economia reale”, disperata perché in crisi, nell’attuale nuova divisione internazionale del lavoro – ovverosia, filiere di produzione, dislocazioni, esternalizzazioni, subfornitura a scala mondiale, “corridoi” energetici e altro, “vantaggio competitivo”, centralizzazione e trasformazione degli assetti proprietari internazionali, con rovesciamento del ruolo tra organismi sovrastatuali e stati nazionali, privatizzazioni se reputate efficaci, ecc. D’altro lato, si evidenziano quelli di un’“economia monetaria” che cerca di procedere alla ridefinizione egemonica delle suddette aree valutarie di riferimento significativo per il mercato mondiale “unificato”.

La tematica delle aree valutarie si pone per individuare nel dettaglio quali elementi di costo siano espressi in dollari, in euro o nelle valute asiatiche, rublo, yuan e yen, e in quale valuta quindi si presentino in divenire anche i prezzi di vendita. Da quanto precede si possono dedurre alcuni argomenti chiave. La struttura attuale dei costi di produzione (soprattutto, ma anche, in subordine, dei costi di circolazione) delle varie catene, o cordate delle filiere, nelle diverse aree valutarie, piuttosto che nelle zone o sfere di influenza dei contrapposti poli, include l’effetto valutario di riferimento nelle fatturazioni, implica la riorganizzazione, centralizzazione decisionale più decentramento operativo, del sistema produttivo industriale su scala mondiale, con conseguente ricomposizione internazionale di tutto il lavoro dipendente.

In altri termini, continuare a riferirsi soltanto alla separatezza e contrapposizione dei “poli” imperialistici, in quanto tali, può trarre in inganno. Le “aree valutarie” – pur muovendo da una sede fisica ben individuabile, e tutt’altro che “deterritorializzata”, alla quale corrisponde necessariamente la strategia politica economica di egemonia sul mondo – attraversano l’intero mercato mondiale. Così, attualmente, una grande impresa transnazionale la quale, magari dopo una fusione, operi contemporaneamente in tre o quattro “continenti”, può ancora decidere su quale valuta fare aggio. In questo senso è più adeguato al concetto di imperialismo transnazionale – proprio in quanto acquisizioni, fusioni e investimenti all’estero delle imprese medesime – ciò che, da un lato, permane nelle strutture produttive esistenti nelle diverse dislocazioni o in nuove installazioni, e, dall’altro, sposta la propria gravitazione nell’area valutaria (valuta di riferimento per costi e prezzi) più favorevole, indipendentemente dalla localizzazione territoriale.

È importante, dunque, rimarcare che le aree valutarie non riguardino la spesa di reddito (per quanto enorme possa essere) ma il pagamento in conto capitale (ossia gli investimenti per dominare il mondo). La produzione su scala mondiale coinvolge un numero di paesi e continenti sempre crescenti: i capitali dominanti, operanti in condizioni spesso simili a quelle di monopolio, non presentano più confini di appartenenza, mentre anche la circolazione deve soddisfare le esigenze paganti (investimenti più consumi) di quanti possano disporre della valuta richiesta. L’insieme di simili circostanze transnazionali fa sì, allora, che l’effettivo controllo dei capitali (operanti o anche speculativi) non dipenda più dal “luogo” in cui il particolare capitale risiede e da cui promana nelle “molte” nazioni, com’era nella classica fase nazionale statuale dell’imperialismo, ma conduca a trasferire il reale potere degli stati dominanti all’esito della supremazia nel conflitto tra le valute, di cui ciascuna aerea di riferimento mondiale è in ultima analisi messa nelle mani delle banche centrali, delle borse e dei governi di quegli stati nazionali imperialistici i quali ridefiniscono in questa maniera il loro specifico ruolo.

L’attenzione portata sull’effetto valutario delle differenze possibili di costi e prezzi è tale da verificare i propri effetti direttamente sul tasso di profitto (non sul plusvalore prodotto). È per questo che attraversa indistintamente sia la fase della circolazione che di quella della produzione, ma in maniera tale che la riduzione dei costi di circolazione (false spese – faux frais – di produzione) possa risultare indirettamente determinante anche per le strategie produttive.  Dunque, l’allargamento della scala di attività del capitale non influisce solo sui costi di circolazione propriamente detti, ma si estende all’economia concernente tutti i costi d’impresa (anche quelli relativi a subfornitura e esternalizzazione).

 La capacità d’influenza transnazionale di ogni moneta (predominante nel dollaro Usa negli ultimi decenni) è dunque legata al controllo delle aree valutarie di riferimento. Come si fa a trasferire la ricchezza prodotta altrove? Pagando i costi di produzione a livelli più bassi, a esempio nelle valute locali, e vendendo a prezzi più alti (la qual cosa, del resto, è regolarmente avvenuta nella storia del capitalismo). Codesta riduzione dei costi complessivi, se avviene solo sul versante della circolazione, è di puro trasferimento, e non genera un aumento netto di valore e di plusvalore prodotto. In altri termini, un simile effetto non agisce affatto sull’aumento del numeratore del rapporto che definisce quel tasso, bensì è solo in grado di comprimere il capitale anticipato come misura posta al denominatore, attraverso la diminuzione di tutti i costi indistintamente.

In questo senso va riservata importanza strategica alla scelta dei piani di produzione da parte delle grandi holding finanziarie, per ciascun settore o meglio filiera. Tale strategia è infatti inerente sia alla dislocazione dei costi (di produzione, subfornitura soprattutto, ma anche circolazione vera e propria) nei diversi paesi dominati, sia dei prezzi di vendita, a seconda dell’area valutaria cui ciascun paese fa il proprio principale riferimento. Sicché, per esaminare debitamente il bilancio – ovviamente consolidato – di tali holding, occorre prestare la massima attenzione alla composizione dei costi e alla definizione dei prezzi, per valutare complessivamente il loro operare. È qui perciò che subentra la questione dei costi: se siano pagati in valute locali meno pregiate, rispetto ai prezzi finali di vendita, ancora prevalentemente fatturati in dollari, per cui la differenza che sorge dall’incidenza delle diverse aree valutarie si trasforma in maggiori (o minori) profitti.

La presentazione mainstream del conflitto valutario come mera questione di prezzo delle monete – riconducibile a “semplici” giuochi sul tasso di cambio –  è pertanto utile, per la classe dominante, solo a celare la sostanziale conflittualità tra fratelli nemici che, nella presente fase, si sviluppa nella lotta finalizzata ad inglobare all’interno della propria area valutaria il maggior numero di paesi dominati, con lo scopo di contrastare la naturale compressione dei saggi di profitto, agendo sulla struttura dei costi delle holding finanziarie dei paesi dominanti in rapporto con i prezzi finali di vendita: ciò, quindi, alterando solo accidentalmente la massa di neovalore prodotta, specie in una fase acuta di crisi come quella attuale, va a danneggiare simmetricamente le possibilità di accumulazione degli altri capitali in situazione altrettanto asfittica.

L’attualità del conflitto dollaro Usa contro reminbi-yuan

Una delle più recenti affermazioni di Boris Pistorius (ministro della Difesa della Germania) riguarda il 2029, anno entro cui “bisognerà”, sostiene, “essere preparati a una guerra”. Precedentemente, inoltre, espresse la convinzione secondo cui è necessario “usare armi contro la Russia nel rispetto del diritto internazionale”, curiosamente riecheggiando “il buon soldato S?vèik” di Jaroslav Hašek, il cui protagonista avrebbe fondato il “partito del progresso moderato nei limiti della legge”.

La fase imperialistica transnazionale unitamente al neocorporativismo istituzionalizzato che ne gestisce speculazioni e relative “bolle”, capitali fittizi o debiti, ecc. - in una corsa verso la stabilità finanziaria continuamente incerta e costretta a innalzare la spesa militare - aumenta la concentrazione della ricchezza e la centralizzazione dei capitali, entro una conflittualità che si esprime nelle valute più rappresentative a livello mondiale, dietro il frastuono delle armi di ultima generazione, ormai in uso continuo e itinerante.

In tale contesto esplicito, lo scontro imperialistico volto al superamento della fragile sovranità di alcuni stati, funzionale alla mutevole spartizione del mercato mondiale, vara continuamente un “nuovo ordine” che faciliti un’uscita comune dalla crisi dovuta a eccesso di sovrapproduzione capitalistica, e inestinta dalla seconda metà degli anni ’60. Se in questo presente siamo costretti a subire quotidianamente lo sdoganamento della minaccia di una guerra nucleare senza più confini né di spazi né di tempi di attuazione, è perché alle masse subalterne rese inerti, è stata indotta da una settantina d’anni la falsa coscienza di un Occidente unito e stabile nell’egemonia mondiale, in cui anche le briciole di un benessere promesso, ancorché mai attuato, sono sembrate qualcosa di accettabile per sopravvivere. Almeno ora le classi sociali danneggiate e a rimorchio del cosiddetto Occidente – cioè, per lo più quelle europee - dovrebbero destarsi da questo sonno diffuso della ragione, e capire che gli Usa invece di un falso alleato, sono proprio un vero, reale pernicioso nemico.

L’“invasione” dell’Ucraina è stata accompagnata dal mantra del “paese aggredito”, da reiterare quotidianamente fino a renderlo credibile alle orecchie dei lavoratori ridotti a plebi inconsapevoli. Sebbene questa guerra sia stata predisposta da una decina d’anni da parte degli Usa, denunciata da storici e attenti politologi subito dopo l’evento militare, tale evidenza non ha prodotto alcuna presa di coscienza né nelle istituzioni “democratiche” né nelle masse disperse.

Naturalmente delle vite sacrificate degli ucraini non si conosce bene neppure il conto, nonostante al momento alcune fonti dichiarino perdite di oltre un milione e mezzo di esseri umani. Come per le mafie, se c’è da regolare un conto non si bada a chi non c’entra ma ci resta in mezzo, così la denominazione stile militare di “effetti collaterali” sancisce nell’indifferenza l’inevitabilità dei massacri di vite altrui senza valore. Lo stesso può dirsi per quelle dei palestinesi, vittime della garanzia impunitaria della criminalità del governo israeliano, protetto da un Occidente uso a servire i propri interessi intrisi di sangue.    

 Ciò significa che i capitali transnazionali si stanno avviando a rendere pressoché permanente una guerra economica armata tra le diverse basi nazionali della loro provenienza, per intensificare scambi ineguali a denominazione valutaria differenziata. Questo a causa del progressivo collasso del dollaro (dal ‘71[1]) dalla sua imposizione universale come moneta di riferimento per il mercato di capitali, oltre che per quello di merci, individuata dalla fine della Seconda guerra mondiale. Le scelte strategiche di politica economica Usa – qui segnalate emblematicamente e  per difetto – sono state una successione di sostegno ad organizzazioni terroristiche e ingerenze politiche come quella nella destabilizzazione russa, e di aggressioni militari come nei Balcani (1999-2000), in Afghanistan (fine ‘70 e dal 2001), in Centro e Sud America (Costa Rica ‘50, Ecuador ’60-’63, ecc., Venezuela 2002) Iraq (’63,‘91, 2003) senza risalire all’infinito ruolo di guardiano anticomunista del mondo svolto in Vietnam (’45-’73), nelle guerre Iran-Iraq (’53-’63- ’91-2003), in Siria (’56-2012), in Libia (’80- 2001), in Ucraina (2014 tuttora!).

 In ambito più specificamente economico, gli Usa hanno progressivamente esternalizzato la produzione, in particolare quella manifatturiera, a vantaggio della riduzione dei costi lavorativi e conflittuali di natura sociale, utilizzando la valuta come forma di drenaggio di plusvalore prodotto non solo nei paesi cosiddetti in via di sviluppo, e fondamentalmente destinatari di una divisione internazionale del lavoro circoscritta alla produzione di materie prime. Ha preso così avvio quel processo per il quale i meccanismi di appropriazione parassitaria di plusvalore avrebbero prevalso su quelli fondati sulla produzione diretta delle merci. Questi paesi, pertanto, non riusciranno più a fuoriuscire dalla loro condizione di dipendenza – a parte eccezioni che per l’appunto verranno bloccate per impedire minacce a quote di mercato presidiate da transnazionali occidentali – costretti dall’indebitamento obbligato dell’area valutaria in dollari, cui non potranno che restare legati. Essendo il loro commercio internazionale fatturato in dollari e quindi anche i loro debiti, di fatto forniscono continuamente dollari di ritorno agli Usa, che sono riusciti così a finanziare il proprio disavanzo corrente e a mantenere un’egemonia monetaria fino a pochi anni fa incontrastata. L’apparente crescita Usa ha rappresentato infatti sostanzialmente la quota di prodotto estorta all’estero, il cui successo dovuto ad accordi e conflitti con altre aree valutarie si è avvalso anche dell’uso di meccanismi di controllo sui paesi dominati, ed ha costituito le determinanti di una crescente interdipendenza e dipendenza tra aree economiche diverse del mercato mondiale.

 La trasformazione già attuata di delimitazione di aree produttive più profittevoli, indipendentemente dalla loro configurazione nazionale o statuale, trascina ancor oggi l’equivoco di interpretare la conflittualità internazionale legata a identità geopolitiche parzialmente rilevanti, ma non rispondenti all’identificazione di decisioni politiche di derivazione sempre economica. La funzionalità di un’area capitalistica mondiale, ancorché “valutaria”, non coincide con la sua estensione territoriale geografica, bensì viene espressa dall’egemonia della valuta cui fa riferimento, su cui si fa valere la superiorità di un capitale sull’altro, mediante l’uso trasversale delle istituzioni e della valuta a disposizione. Così è stata costruita la supremazia mondiale Usa, sollevandone la dominanza britannica, inneggiando alla propria democrazia che forniva con investimenti diretti esteri (o di portafogli), “aiuti” e “piani di ricostruzione” da parte delle grandi imprese finanziarie industriali e bancarie, di stanza in Usa. Nello stesso tempo, l’uso della coercizione bellica ed economico-finanziaria ha consentito ripetuti attacchi speculativi altamente distruttivi, anche mediante le agenzie di rating al loro servizio, (ad es. Grecia 2009-2015), unitamente all’innalzamento di dazi, sanzioni, programmi di quantitative easing da parte della Federal Reserve, in modo da poter incamerare pacchetti azionari da tutto il mondo e sostenere il dollaro, anche se di sola carta.

Lo stesso concetto di democrazia o stato autoritario, che la retorica di un’informazione dominante tenta continuamente di distinguere e superficialmente opporre, risulta infatti svuotato di significati reali, appunto mai menzionati nella noncuranza mistificatrice. Celebrare la propria superiorità “democratica”, di contro al nemico “autoritario”, meglio “totalitario”, o mancante del “rispetto dei diritti umani”, è stata l’arma in codice con cui si è impedito agli alleati di stringere accordi economici indipendenti con i paesi definiti “canaglia”, “impero del male” o altra esecrazione, e conseguentemente mantenere nell’impotenza subalterna la massa proletarizzata e impoverita mondiale. Si è conquistato così il massimo possibile di un bottino di plusvalore da spartire poi tra i vincitori alleati/fratelli, prima che nel giro di un ulteriore mutamento del mercato mondiale diventassero anch’essi potenziali nemici. La democrazia per antonomasia è stata sempre ritenuta quella statunitense, la cui moneta sembrava coerentemente rappresentare non solo la potenza del complesso militare industriale – così denominato dal generale-presidente Eisenhower – ma anche il veicolo su cui si sarebbe realizzato il falso proposito di “esportare la democrazia” nei paesi che ancora ne erano privi. Quest’ultimo inganno, infine, si è evidenziato inequivocabilmente nella vergognosa fuga dei militari Usa/Nato dall’Afghanistan, nel maggio 2021.

Conclusioni: le prospettive di un lungo conflitto

Il lento, ma progressivo, processo di estinzione dell’egemonia del dollaro si è storicamente determinato a partire dal collasso dell’Urss. L’abilità politica della predazione statunitense fin qui solo tratteggiata non ha però fatto i conti con le contraddizioni reali che avrebbe lasciato emergere, a partire dalla bancarotta della Lehman Brothers (2008) che ha trascinato con sé fallimenti di altri istituti finanziari. Perdita di competitività internazionale, aumento di squilibri commerciali, accumulo di debiti nei confronti di Paesi fornitori di energia e materie prime, come pure di manufatti, hanno caratterizzato in questi ultimi anni il declino della cosiddetta globalizzazione dell’Occidente. Il distanziamento da questa forma egemonica divenuta sempre più inconsistente, si è prodotto con il consolidamento economico-finanziario russo e cinese, le cui valute sono ora accettate in buona parte delle transazioni asiatiche e mediorientali.

L’oggettiva convergenza di interessi dei sanzionati dagli Usa, confluita in organismi denominati BRICS(+)[2], Shanghai Cooperation Organisation o in tutte le sue forme, ha costituito almeno dall’inizio del secolo il progetto di emancipazione dalla sudditanza del dollaro, quale “strumento di attacco”. La Belt and Road Initiative – da molti considerata la principale minaccia alla stabilità degli Usa[3] – ha attratto progetti infrastrutturali, oltre l’utilizzo di sistemi internazionali di pagamento indipendenti da Bic Swift, ultimamente interdetto alla Russia, quale innalzamento della conflittualità attuata. Pur temendolo, il riavvicinamento Russia – Cina è stato determinato da una complessità di fattori materiali legati principalmente alla insostenibilità e sfiducia della moneta cartacea statunitense, al sistema dei cambi fissi, idonei alla “fissità” del potere, quello Usa fino a qualche decennio fa.

Il lento processo di dedollarizzazione è stato dunque l’esito più attendibile di una tendenza di questo tipo. La progressiva erosione del dominio del dollaro[4] ha coinciso con l’incedere violento della crisi da sovrapproduzione del capitale che, almeno in parte, ha visto i paesi dell’area dello yuan-reminbi resistere in maniera significativa rispetto a quelli della principale area concorrente. Lo squilibrio che si è andato consolidando tra un paese enormemente indebitato (gli Usa, per 18.000 mrd $) e gli altri creditori, appartenenti in gran parte ai BRICS+, è qualcosa ormai difficile da sostenere. La crisi da sovrapproduzione ha infatti portato con sé una incessante centralizzazione di capitali e una evidente tendenza al monopolio, così come descritta da Marx nel Capitale. Il predominio assoluto del dollaro – timidamente scalfito dall’Euro per un periodo risibile e messo a tacere con la crisi del 2010-2012[5] – ha permesso al capitale a esso vincolato di gestirne, anche con il supporto militare, le principali dinamiche. Ciò che ora sta sostanzialmente mutando è la pressante richiesta dei paesi “creditori” che, avendo accumulato ingenti capitali per più di un quarto di secolo, avendo esportato merci in eccesso rispetto a quelle importate, richiedono che tali risorse fungano esattamente come capitali, ossia possano effettivamente collocarsi lì dove possibile autovalorizzarsi con maggiore profitto. Sino ad ora, infatti, la gran parte di essi è stata utilizzata per l’acquisto di obbligazioni, titoli di stato e prestiti con un ritorno sul capitale enormemente al di sotto delle possibilità che ha offerto il mercato. Ciò è stato un esito obbligato delle politiche commerciali di chiusura verso l’estero inaugurata da Obama e poi resa celebre da Trump e Biden: in altre parole è stato impedito al capitale di origine asiatica di acquisire azioni di grandi imprese statunitensi, partecipando così al processo di centralizzazione che è stato invece gestito esclusivamente in ambito “occidentale” anche con la partecipazione di enormi fondi di investimento (per un approfondimento si veda anche Brancaccio E, Lucarelli S e R Giammetti (2022), La guerra capitalista, Mimesis Edizioni, Italia e anche Brancaccio E (2024) Le condizioni economiche della pace, Mimesis Edizioni, Italia). Il tentativo di internazionalizzare lo yuan-reminbi può essere letto come necessaria reazione a una condizione che va configurandosi in maniera sempre più polarizzata: tuttavia, per quanto per la prima volta gli scambi internazionali della RPC, nel 2023, siano stati effettuati utilizzando prevalentemente la valuta locale (il dollaro Usa era quasi esclusivo solo pochi decenni prima) e per quanto si sia parlato per la prima volta di petroyuan giacché l’Arabia Saudita ha esplicitamente richiesto di commerciare il petrolio anche in yuan-reminbi (rinunciando all’accordo con gli Usa), ancora oggi il ruolo del dollaro è ridimensionato ma prevalente (almeno come valuta di riserva). Tuttavia, le preoccupazioni sull’erosione “dell’esorbitante privilegio” del dollaro Usa anche in ambito istituzionale ci induce a avvalorare la tesi sin qui esposta per cui la conflittualità tra aree valutarie è ciò che si pone alla base delle attuali dinamiche economiche e militari. Il 21st Century Dollar Act[6] e il Chinese CDBC Prohibition Act, rappresentano due strumenti normativi di rilievo nella strategia di protezione del dollaro Usa[7] che evidentemente si pongono nella direzione già indicata.

Il mondo multipolare che si sta configurando in numeri crescenti di adesioni, volte a sostituire i meccanismi coercitivi del circolo debito/austerità proprio di un modo di produzione capitalistica in crisi irreversibile – potrebbe significare anche la necessità della trasformazione in un modo di produzione socialista, o come altro lo si voglia chiamare. La dimensione politica o istituzionale muterà le sue funzionalità di conseguenza, così anche il sistema monetario internazionale unitamente ai nuovi fini cui sarà diretto. Siccome però non intendiamo presentare “ricette per l’osteria dell’avvenire”, questo presente ci indica che un mutamento egemonico mondiale o è già avvenuto o è in corso di definizione. Dovrebbe essere chiaro a tutti che però tale trasformazione non potrà verificarsi senza determinare danni collaterali: al momento l’aumento del livello di scontro sia in Ucraina che in Medio oriente è testimone di tale tendenza che potrebbe incontrare improvvisamente delle accelerazioni. Se l’epicentro della prossima guerra mondiale sarà l’Europa o altro, al momento è solo in possibili congetture o previsioni analitiche capaci di cogliere solo le contraddizioni visibili o già emerse nel processo storico che si svolge sotto i nostri occhi. Non sono da dimenticare però tutte le contraddizioni ancora in nuce che la parzialità della vista più acuta non può mai cogliere.

L’alternativa è pertanto una convivenza imperialistica possibile – come già suggerito dal presidente Xi Jinping a Biden - con un sistema valutario bipolare o multipolare, in cui l’espansione cinese ha già proposto l’internazionalizzazione dello yuan-renminbi quale controllo sui movimenti di capitale, o lo scontro terminale di imperialismi che soccombono ai propri “seppellitori”, da loro stessi prodotti.

*Questo articolo è frutto di un lavoro collettivo intrapreso da alcuni redattori della rivista La Contraddizione, e in particolare da Gianfranco Pala, dagli inizi de secolo XXI. Per maggiori approfondimenti si rimanda a www.lacontraddizione.it.

[1] Nel 1971 unilateralmente gli Usa dichiarano sospesi gli accordi di Bretton Woods, ponendo fine all’esperimento del Dollar standard (o Gold Exchange Standard).

[2] Secondo il presidente Lula “i Brics in pochi anni rappresenteranno il 36% del Pil mondiale e il 47% della popolazione dell’intero pianeta. A questa prima fase se ne aggiungerà un’altra di ulteriore ampliamento”.

[3] Si veda anche https://media.defense.gov/2022/Jul/31/2003046329/-1/-1/1/05%20LINDLEY_FEATURE.PDF

[4] Si vedano tra gli altri, Gabellini G (2023), Dedollarizzazione, Diarkos, Italia e Arslanalp, S, Eichengreen BJ e C Sinpson-Bell (2022) The stealth erosion of dollar dominance: active diversifiers and the rise of nontraditional currencies, IMF Working Papers, 24.3.2022, e anche https://www.imf.org/en/Blogs/Articles/2024/06/11/dollar-dominance-in-the-international-reserve-system-an-update)

[5] Si veda anche Schettino F e F Clementi, “Crisi, disugualidade e pobreza”, in corso di stampa, LF, Sao Paulo, Brasil

[6] La norma letteralmente prevede: “This bill requires the Department of the Treasury to establish a strategy to facilitate the position of the dollar as the primary global reserve currency”.

[7] Si veda anche “Dollar dominance: preserving the Us’ dollar’s status as the global reserve countries”, 7.6.2023, https://docs.house.gov/meetings/BA/BA10/20230607/116068/HHRG-118-BA10-Wstate-NorrlfC-20230607.pdf

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