L'ingannevole sobrietà europea
Lo scontro tra i membri dell'UE svela inediti scenari geopolitici
di Michel Fonte
Draghi, il custode del vello d’oro
Che Mario Draghi non abbia alcuna simpatia per approcci neokeynesiani è risaputo, lo certifica, tra l’altro, il fatto che si sia reso protagonista di una politica monetaria che mentre lasciava in strada milioni di cittadini alle prese con seri problemi di sopravvivenza, elargiva miliardi di euro non solo per consentire il salvataggio di istituzioni creditizie – nel più dei casi responsabili della crisi per l’investimento in titoli tossici e bolle immobiliari, collocazione di rischiosi strumenti finanziari (mutui subprime) e concessione di linee di fido a un ristretto numero di imprese con annosi e manifesti problemi di solvibilità – ma addirittura ne favoriva attività lucrative di dubbia utilità per il sistema economico generale. L’alleggerimento quantitativo (QE) adottato dal governatore della BCE, ha pompato fiumi di liquidità nel circuito creditizio, ed è proprio tale misura la causa delle difficoltà che le banche italiane stanno scontando in questi giorni a seguito dell’attacco di alcuni fondi di inversione e grandi intermediatori mobiliari contro i titoli di Stato italiani, sobillati da opaci legami con le posizioni rigoriste e oltranziste della cupola dell’UE, nella fattispecie l’asse Draghi-Juncker-Moscovici-Macron-Merkel, con l’obiettivo di imporre modifiche esterne e unilaterali al DEF (Documento di Economia e Finanza), prerogativa indefettibile di un paese sovrano, e in caso di resilienza da parte del governo Conte, innescarne il tracollo spingendo il differenziale (titoli a 10 anni) con i Bund tedeschi ad un punto di manifesta sfiducia dei mercati finanziari (spread oltre i 400 punti base).
Draghi, che conferma il suo storico ruolo di guardiano del vello d’oro, si è premurato, in maniera del tutto inconsueta, di incontrare al Quirinale, in questi convulsi giorni, Sergio Mattarella. Per quanto si ignorino i contenuti della conversazione, non ci vuole molto a comprendere che non si è trattato di una visita di cortesia ma di un summit istituzionale per fare pressioni sul Presidente della Repubblica, affinché utilizzi tutti i mezzi di persuasione a sua disposizione (potere di esternazione) per indurre il capo di gabinetto a fare retromarcia sul DEF, e se la situazione lo richiedesse, bloccarlo con un insolito riferimento alla Costituzione. La massima carica della BCE non ha inteso che lo scenario geopolitico è totalmente cambiato con la nuova strategia statunitense (“America First”), questo è sempre stato un limite che però ha saputo trasformare in un punto di forza per i suoi piccoli interessi di bottega, incorporandosi, al momento giusto, alla corte della nuova élite dominante. Lo stesso Mattarella, soltanto pochi mesi fa, dopo aver elaborato un’interpretazione piuttosto soggettiva del dettato costituzionale, rifiutandosi di nominare sulla base della sola libertà di manifestazione del pensiero (l’antieuropeismo di un membro della squadra ministeriale non può essere giudicato in contrasto con la legge fondamentale dell’ordinamento giuridico, prima ancora che inizi ad operare) il professor Paolo Savona nel ruolo di ministro, ha dovuto ingoiare il rospo e piegarsi alle sollecitazioni di Washington. Nei fatti, giocata l’improbabile carta Cottarelli nella speranza di frantumare, grazie al sostegno delle alte sfere del FMI, la anomala maggioranza parlamentare, ha in cambio dovuto richiamare velocemente i leader della Lega e del M5S per permettere la nascita dell’esecutivo Conte. I maggiori quotidiani nazionali presentarono l’accaduto come una vittoria dell’inquilino del Quirinale, invece, diversamente da ciò che si è veicolato all’opinione pubblica, Mattarella fu sconfitto su tutta la linea, con la sola opzione di salvargli la faccia e mantenerlo nell’incarico, assegnando a Tria il Ministero dell’Economia e spostando Savona al Ministero per gli Affari Europei, un chiaro segnale di guerra lanciato all’UE.
Che l’invasione di campo non sia stata gradita dal navigato esponente di estrazione democristiana, si percepisce dai segni di insofferenza manifestati in varie occasioni pubbliche, nelle quali ha velatamente biasimato l’attività di un governo che gli è indigesto (“La Costituzione italiana – la nostra Costituzione – all’articolo 97 dispone che occorre assicurare l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico. Questo per tutelare i risparmi dei nostri concittadini, le risorse per le famiglie e per le imprese, per difendere le pensioni, per rendere possibili interventi sociali concreti ed efficaci”, 29 settembre 2018, nel raduno dei partecipanti all'iniziativa “Viaggio in bicicletta intorno ai 70 anni della Costituzione Italiana”; “L’esercizio del potere può provocare il rischio di fare inebriare, di perderne il senso del servizio e di fare invece acquisire il senso del dominio nell'esercizio del potere”, 11 ottobre 2018, in un incontro con alunni delle scuole secondarie di secondo grado), gli ha fatto da eco l’irritazione e i piani di infiltrazione del deep state europeo, con annessa una larga parte del WEF (World Economic Forum) non allineata sulle posizioni trumpiane, ossia, uno Stato dentro lo Stato integrato da politici, aristocrazia del capitale e l’industria, alti burocrati, funzionari pubblici e pezzi deviati dei servizi di sicurezza e intelligence, di cui Draghi, coscientemente o meno, è collettore e portatore di interessi. Lo testimoniano le affermazioni dello stesso governatore della BCE, che nel recente meeting annuale di Bali di Banca Mondiale e FMI (12 ottobre 2018) ha dichiarato che “nei paesi in cui il debito pubblico è elevato la piena adesione al Patto di stabilità e crescita è fondamentale per salvaguardare sane posizioni di bilancio”; concetto ribadito da Poul Thomsen, capo del dipartimento europeo del FMI e responsabile del piano di salvataggio di Portogallo e Grecia durante la crisi del 2009, che nella stessa sede ha espresso come la manovra finanziaria italiana vada “in direzione opposta rispetto ai suggerimenti del FMI. Pensiamo che un allentamento fiscale di tale portata in Italia nelle attuali circostanze non sia corretto”. Per finire, Luigi Federico Signorini, vicedirettore generale di Bankitalia, una di quelle autorità indipendenti che secondo il Presidente della Repubblica è necessario tutelare perché sono a garanzia della collettività in un ordinamento imperniato sulla divisione dei poteri e adeguati contrappesi, dimenticando, tuttavia, di menzionare che il capitale sociale dell’istituto non è detenuto da una pluralità di normali cittadini ma da 119 soggetti (alla data del 10 settembre 2018), per la maggioranza banchei (di cui le prime quattro sono Intesa Sanpaolo S.p.A., UniCredit S.p.A., Cassa di Risparmio in Bologna S.p.A. e Banca Carige S.p.A.-Cassa di Risparmio di Genova e Imperia), e a seguire assicurazioni, casse di ordini professionali e fondi pensione, molti dei quali collegati agli stessi istituti di credito attraverso forme di interlocking directorate.
Non sorprende, pertanto, che il suo management oltre a considerare l’effetto della manovra sul Pil di proporzioni modeste, sollevi perplessità sul reddito di cittadinanza, per il quale preferirebbe un’introduzione graduale e che, allo stesso tempo, non permetta ai beneficiari di ottenere più di quello che offre la controparte aziendale (“Con riferimento al reddito di cittadinanza il perseguimento dell’obiettivo di protezione sociale non deve disincentivare l’offerta di lavoro. Determinante a questo fine è il livello del beneficio rispetto al salario potenziale che il lavoratore sarebbe in grado di guadagnare sul mercato), detto in altri termini, la misura erogata dovrebbe essere sempre inferiore alla retribuzione conseguibile per il tramite della libera contrattazione, anche se rappresentata da una remunerazione inadeguata per condurre una vita dignitosa. Infine, boccia qualsiasi modifica della legge Fornero che ripristini una maggiore equità sociale, mettendo la riduzione del debito pubblico come prioritario rispetto ad ogni altro obiettivo (“I rischi per la sostenibilità dei conti pubblici aumentano anche a causa del peggioramento delle proiezioni demografiche”).
La sponda statunitense
Che per la prima volta un governo abbia potuto rispondere con forza ai diktat di Bruxelles è da collegarsi non solo alla peculiarità dei partiti che lo sostengono, fermamente antieuropeista la Lega e con una posizione moderatamente critica il M5S, ma soprattutto alla circostanza di poter contare, in questo frangente storico, della sponda nordamericana. Infatti, alla presentazione del DEF, mentre una parte dei partner del WEF iniziava a vendere titoli del debito pubblico italiano facendo innalzare lo spread – tra cui alcune banche nazionali promotrici di un auto-attacco con il proposito di provocare un ripensamento dell’esecutivo – dall’altra parte, fondi di inversione e trader vicini all’amministrazione Trump hanno iniziato a comprarli, questo spiega perché il differenziale pur portandosi di poco al di sopra dei 300 punti base non ha mai dato l’impressione di poter sfondare.
Fondamentalmente, lo scontro si è consumato tra Soros e i suoi sodali, in linea con le posizioni iperliberiste di matrice clitoniana e obamiana, e gli ex aderenti, soprattutto finanziari, del dissolto “Strategic and Policy Forum” (Jaime Dimon, presidente e direttore esecutivo di JP Morgan Chase; Larry Fink, presidente e consigliere delegato di BlackRock; Paul S. Atkins, direttore esecutivo di Patomak Global Partners LLC; Rich Lesser, presidente e direttore esecutivo di Boston Consulting Group; Adebayo Ogunlesi, presidente e socio gerente di Global Infrastructure Partners; Mark Weinberger, presidente e consigliere delegato di Ernst & Young;), un organismo voluto e creato dall’attuale anfitrione della Casa Bianca. La maggioranza di questi soggetti malgrado lo scioglimento del SPF (16 agosto 2017) e pur continuando ad essere membri del Forum di Davis (Dell Technologies e Blackstone giusto per citarne due), ha abbracciato il nuovo corso presidenziale, tra gli altri, alcuni potenti uomini d’affari filosionisti come Sheldon G. Adelson e Stephen A. Schwarzman. Tutto ciò avallerebbe la tesi che gli Stati Uniti vogliano disarticolare la UE, in verità, occorre ricordare che nel dopoguerra furono dapprima i principali ispiratori della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio nata nel 1951), e poi, nel 1957, della CEE (Comunità economica europea), e per motivi più militari che economici connessi alla guerra fredda. Questa considerazione deve far riflettere sull’atteggiamento della leadership statunitense, la quale, più che altro, sembra contrariata da un certo tipo di Europa che si è andata forgiando negli ultimi anni, vale a dire, germanocentrica e fondata sull’asse franco-tedesco, due nazioni che in maniera diversa hanno sempre mantenuto una relativa autonomia da Washington. La Francia, seppur concedendo la base di Istres-Le Tubé alla United States Air Force (USAF), per operazioni congiunte, e facilitazioni nei porti di Marsiglia e Tolone alla United States Navy (USN), si è rifiutata a partire dal 1966 di accogliere basi Nato nel proprio territorio, diniego sancito con la famosa lettera di De Gaulle a Johnson in cui esigeva la totale evacuazione delle truppe a stelle e strisce dal paese (29 basi e circa 100.000 soldati), accelerando al contempo tanto il piano nazionale di dotazione di arsenale atomico, denominato “Triade nucleare” e che subentrava all’accordo tripartito (Italia, Germania, Francia), come la fuoriuscita delle truppe francesi dai comandi integrati, già iniziata nel 1964. L’annuncio di rientro da parte di Sarkozy nell’Alleanza Nordatlantica nel marzo del 2009, dopo ben 43 anni dalla separazione, sembra essere stata una parentesi consumatasi velocemente, malgrado la partecipazione all’operazione “Colpo di spada” in Afghanistan (2009), e la guerra scatenata in Libia (operazione “Harmattan”, 2011) per rovesciare il regime di Gheddafi in accordo con il premier britannico Cameron, difatti, a giudicare l’atteggiamento di Macron, questi sembra essere incline a innalzare nuovamente il vessillo dell’indipendenza gallica.
Per quel che concerne la Germania, pur sopportando e supportando la massiccia presenza yankee, in quanto territorio strategico tra occidente ed oriente (si pensi alla divisione di Berlino in zone militari e all’importanza odierna della base aerea di Ramstein), e dopo aver terminato il lungo processo economico di riunificazione, ha gradualmente coltivato un programma di riarmo, in particolare, non solo attualmente è la nona potenza a livello mondiale per stanziamenti nell’acquisto di armamenti, ma, esaminando la tendenza storica a prezzi costanti (2009-2017, dati SIPRI), ha dapprima aumentato di 2 miliardi il budget di esercizio, portandolo a un livello medio di 41 miliardi di dollari all’anno rispetto al lustro 2004-2008 (39 miliardi di dollari in media), e, successivamente, ha mantenuto stabile tale quota di spesa con addirittura un lieve incremento nell’ultimo biennio (41,5 miliardi nel 2016 e 43 miliardi nel 2017). Tutto ciò, in un contesto in cui, nello stesso periodo, la maggior parte dei principali Stati dell’Europa occidentale (Gran Bretagna, Austria, Olanda, Belgio, Spagna, Portogallo, Grecia) riduceva, in valori assoluti, i fondi destinati al capitolo difesa (l’Italia è passata dai 34 miliardi di dollari del 2008 ai 28,4 miliardi del 2017, con una diminuzione ininterrotta tra il 2008 e il 2015).
Non è un mistero che l’establishment teutonico accarezzi l’idea di costruire un esercito europeo per sganciarsi dall’alleanza angloamericana, così come non è una casualità che il progetto abbia cominciato a definirsi in una serie di dichiarazioni congiunte e incontri bilaterali tra Merkel e Macron (15 maggio 2017, Berlino; 22-23 giugno 2017, Consiglio europeo di Bruxelles; 13 luglio 2017, comunicazione franco-tedesca; 28 settembre 2017, summit UE su economia digitale e cyber security a Tallin; 15 novembre 2017, Cop 23 a Bonn; 16 marzo 2018, Parigi; 10 maggio 2018, Premio Carlo Magno ad Aquisgrana; 19 giugno 2018, riunione a due a Meseberg; 7 settembre 2018, vertice a Marsiglia), capo di Stato dell’unica nazione, a parte la già citata Germania, che nel suddetto decennio ha mantenuto un costante e elevato budget in spese armamentistiche (sempre superiori ai 50 miliardi di dollari ed in crescita tra il 2014 e il 2016), che la consolidano al sesto posto della graduatoria mondiale. È evidente che una tale prospettiva a livello geopolitico, peraltro caldeggiata dal Presidente della Commissione europea Juncker, preoccupi non poco l’amministrazione statunitense, che diffida di una Germania forte economicamente e nuovamente armata al centro di un continente, che già deve fare i conti con le mire di espansione russa, permetterlo, significherebbe consentire l’entrata di un altro scomodo attore nella contesa del potere globale. Se a questo aggiungiamo, al netto delle sanzioni economiche stabilite dall’Unione europea per il conflitto in Crimea, le strette relazioni tra la cancelleria e la Federazione Russa nel settore energetico, si comprende l’attrito tra Trump e il governo teutonico emerso in numerosi incontri (17 marzo 2017, Washington; 7-8 luglio 2017, G20 di Amburgo; 27 aprile, Washington; 11-12 luglio 2018, vertice Nato), il cui perdurante eccesso di surplus nella bilancia commerciale (una percentuale rilevante del quale matura nei confronti degli USA), che ha permesso alla nazione di assurgere al titolo di quarta potenza economica mondiale, è solo il motivo superficiale di un più ampio scontro ideologico.
La nascita del fronte mediterraneo
Gli Stati Uniti da tempo chiedono all’UE di ridurre la dipendenza dalle forniture russe, investendo in gassificatori per favorire l’acquisto del gas americano ottenuto dalla fratturazione idraulica (fracking), però, per tutta risposta, la Merkel ha pensato bene di riunirsi con il suo omologo Putin (18 maggio 2018, Sochi) per portare avanti il progetto North Stream 2, che raddoppiando la capacità di approvvigionamento (da 55 a 110 miliardi di metri cubi all’anno) del già attivo North Stream, consentirebbe alla Russia di bypassare il pantano ucraino trasportando il gas, attraverso i fondali del Mar Baltico, direttamente in Europa centrale (da Vyborg nella regione di Leningrado a Greifswald) e da lì in direzione della vasta zona occidentale. L’operazione lascerebbe le mani libere ai russi e convertirebbe la Germania in hub energetico continentale, risolvendo la sua atavica sete di idrocarburi e soddisfacendo il 50% della domanda dei partner d’oltrecortina. Un’evoluzione che per gli Stati Uniti è intollerabile, soprattutto se si tiene in considerazione che gli abboccamenti tra Merkel e Macron per la costituzione di forze armate dell’UE vanno di pari passo con atti concreti.
La ex segretaria dell’Agit-prop ha affermato che l’obiettivo della difesa comune vede come fulcro del progetto Francia e Germania, incaricate di tracciare il percorso generale dell’unione per i prossimi dieci anni, escludendo che si possano accettare orientamenti in contrasto con quelli stabiliti da questi due paesi (22-23 giugno 2017, vertice del Consiglio europeo a Bruxelles), e ribadendo, in sostanza, quanto pattuito in una precedente riunione bilaterale tenutasi a Berlino (15 maggio 2017), fatta eccezione per alcune discrepanze in materia economica (diniego della mutualizzazione del debito e cessione di ulteriori competenze alla Commissione europea). Inoltre, si è già conseguito un iniziale compromesso con l’accordo (28 giugno 2018) per la costruzione del primo caccia da combattimento franco-tedesco, un jet multifunzione definito come strategico per l’arsenale europeo, che sarà progettato dai transalpini e sovvenzionato e comprato in gran numero da Berlino, dove sono desiderosi di rinnovare la propria vetusta flotta aerea.
D’altra parte, la Francia che vanta una lunga esperienza nel campo, ha cominciato ad allargare il giro dei suoi clienti spingendosi in territori pericolosi, dato il loro emergente antiamericanismo, come la vendita (5 gennaio 2018) alla Turchia di Erdogan di un sistema di difesa aerea e antimissili e di 25 apparecchi A350 della compagnia Airbus, il cui capitale azionario è di prevalenza franco-tedesco (22,15%, di cui 11,08% della Sogepa di proprietà della Repubblica francese e 11,07% della GZBV, partecipata al 100%, per il tramite di altre società, dallo Stato tedesco). La questione non stupisce se si considera, da un lato, l’aumento del budget nazionale per la difesa annunciato dal Capo di Stato francese (8 febbraio 2018), che passerà dai 160 miliardi di euro del periodo 2014-2018 ai 198 miliardi del quinquennio 2019-2023, con un aumento del 23,8%, e dall’altro, gli attacchi all’amministrazione Trump (15 novembre 2017) per il duplice ritiro unilaterale dall’Accordo di Parigi (COP21 presentato in data 12 dicembre 2015), con la contemporanea proposta del subentro dell’UE per il finanziamento della ricerca scientifica sul cambio climatico, e dal Piano d’azione congiunto globale (PACG siglato il 14 luglio 2015) sul nucleare in Iran (annunciato in data 8 maggio 2018 dal presidente statunitense).
È evidente che Merkel e il suo parigrado d’oltralpe viaggino spediti verso l’autonomia militare che gli permetta di edificare un nuovo spazio geopolitico, la cancelliera lo ha espresso apertamente in occasione della consegna del premio Carlo Magno (10 Maggio 2018, Aquisgrana), sottolineando che non si può più confidare nell’ombrello americano e che tocca ai paesi europei farsi carico del mantenimento della pace e della stabilità nella regione, l’affermazione ha fatto il paio con quella di Macron, che nell’occasione ha dichiarato che “i nazionalismi sono come una lebbra in Europa”. Insomma, se ancora non fosse chiaro, l’UE che perseguono qualifica gli associati del sud come semplici vassalli, e di fronte a una tale prospettiva e non certo per spirito di carità, che gli Usa sono sempre più convinti della necessità di organizzare un fronte mediterraneo, la cui colonna portante sarebbe rappresentata dall’Italia per quattro rimarchevoli fattori:
1. la posizione strategica, in quanto punto di raccordo tra l’Africa del Nord e l’Europa, vicinanza al Medio Oriente e ponte naturale tra l’est e l’ovest del vecchio continente;
2. la indefettibile lealtà al patto atlantico e l’importanza tattica delle sue basi militari;
3. la potenza economica, che per quanto in declino la mantiene come un alleato affidabile (13° potenza mondiale per Pil secondo la fonte CIA The World Factbook, dato 2017);
4. la concordanza tra l’agenda sovranista dell’attuale coalizione di maggioranza italiana e la linea nazionalista tracciata dal magnate newyorchese.
Questo ragionamento fa comprendere il perché l’esecutivo non ha temuto di confrontarsi a muso duro con la Commissione europea, mentre fa specie che diversi analisti abbiano cavalcato la paura dei mercati senza tenere in conto una serie di segnali rilevanti. Tra questi, le affermazioni dell’ambasciatore americano a Roma, Lewis Michael Eisenberg, che in data 3 ottobre 2018, a due giorni dalla presentazione ufficiale del DEF, ha dichiarato che “l’attuale governo in Italia è la quintessenza della democrazia in azione, al di là di come ognuno di noi la pensi le ultime elezioni in Italia hanno dimostrato che il popolo ha parlato. Questa è la democrazia”.
Un’affermazione graffiante che riveste grande importanza per due motivi, il primo, è che ci troviamo di fronte ad un delegato che non è un semplice burocrate ma un amico personale del presidente, nato nell’Illinois 75 anni fa da una famiglia ebraica e che si è affermato come uomo d’affari lavorando prima in Goldman Sachs e successivamente creando una propria società (Granite Capital International Group, 1990), secondo, la storia insegna che le esternazioni dei diplomatici nordamericani di stanza nel Bel Paese non vanno mai sottovalutate. A tal proposito, Basti ricordare le parole di John Antony Volpe, ambasciatore dal 1973 al 1977, che durante la trattativa che portò al “compromesso storico”, in un’intervista ad un settimanale dell’epoca, manifestò il disappunto dell’amministrazione Ford (1974-1977) circa il possibile ingresso del PCI nella compagine di governo, conosciamo bene, poi, quale fu il tragico epilogo di quell’ambigua stagione politica. Qualcosa in più lo si intuirà in caso di partecipazione di Trump alla conferenza sulla Libia di Palermo del 12 e 13 novembre, che potrebbe significare un’inequivocabile investitura del ruolo italiano e la fondazione ufficiale di un blocco meridionale, al servizio di un’inedita “Guerra Calda”.
i https://www.bancaditalia.it/chi-siamo/funzioni-governance/partecipanti-capitale/Partecipanti.pdf