L’insostenibile pesantezza del non essere

Morte di Milan Kundera: l’egemonia della cultura liberale rilancia il più insipiente dei romanzi: “L’insostenibile leggerezza dell’essere”

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L’insostenibile pesantezza del non essere


 di Fosco Giannini, direttore di “Cumpanis”

 

“De mortuis nihil nisi bonum” (dei morti niente si dica se non il bene) è una famosa frase idiomatica contenuta nell’opera “Vita e opinioni di filosofi eminenti” che lo storico greco Diogene Laerzio, autore dell’opera, attribuisce a Chilone, uno dei sette saggi di Sparta.  La locuzione è importante poiché, assieme, svolge sia il ruolo di rivelazione di una già vigente cultura, di un senso comune, volti alla venerazione, al rispetto dei morti (siamo circa a 200 anni dopo Cristo) che quello di propagazione del culto e persino dell’enfatizzazione della vita e delle opere dei morti. Un’enfatizzazione spesso così tanto vicina alla distorsione della realtà da spingere il giornale “Vita cattolica.it”, il 20 maggio 2016, in relazione alla morte di Marco Pannella a scrivere: “Non sempre «De mortuis nihil nisi bonum». A volte è meglio tacere”.

Lo scorso 11 luglio, a Parigi, a 94 anni, è morto lo scrittore ceco Milan Kundera, autore - come hanno ricordato tutti i media attraverso una grancassa mediatica rivolta ad una nuova, acritica, celebrazione dell’opera – de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Diversi giornali e telegiornali (tra i più enfatici il TG La7) hanno proclamato sul campo Milan Kundera “uno dei più grandi scrittori della seconda metà del ‘900 e “L’insostenibile leggerezza dell’essere” “tra i più grandi romanzi dell’intero ’900”. Rilanciando in pieno, attraverso questo discutibile stile di lavoro, la retorica insita nell’asserzione apodittica “de mortuis nihil nisi bonum” dell’antico Chilone. Un’asserzione apodittica, lo abbiamo già visto, per la quale anche la cultura cattolica contemporanea chiede più sorveglianza etica e culturale.

Liberati anche da “Vita cattolica.it” dalla gabbia ideologica del panegirico pregiudiziale dei morti possiamo, più sollevati, chiederci: ma davvero Milan Kundera è uno dei più grandi scrittori della seconda metà del ’900? E davvero “L’insostenibile leggerezza dell’essere” è uno dei più grandi romanzi del ’900?

È bene, intanto, parlare della trama poiché, a nostro avviso, già in essa è fortemente ravvisabile una zoppia letteraria che non depone certo a favore di un’opera affascinante come un cavallo razza, ma piuttosto evocativa di un Ronzinante alla Miguel Cervantes.

La trama è complessa e, peggio ancora, inutilmente complessa, poiché essa, nell’ “Insostenibile leggerezza”, non risponde a nessuno dei princìpi retorici che richiedono la complessità del plot, dal romanzo d’appendice, o feuilleton, che attraverso una vasta “ragnatela” di relazioni sociali e famigliari può raccontare il popolo e una fase storica, sino alla complessità oscura (che ad esempio segna di sé il thriller, ma anche il “colpo di scena” shakespeariano) funzionale alla messa in campo della suspense, dell’inaspettato.

La complessità della trama dell’“Insostenibile leggerezza” vorrebbe piuttosto evocare - attraverso una sorta di struttura letteraria modernista ceco-morava concettualmente rintracciabile nell’opera di Antoni Gaudi, attraverso, dunque, una sorta di architettura volutamente “obliqua” rispondente ai canoni stilistici della Sagrada Familla - il corposo non dicibile che domina il campo delle relazioni umane, politiche e sociali.

Lo vorrebbe evocare ma, per chiaro difetto letterario, dogma ideologico e meschino utilizzo del pensiero filosofico, non riesce ad evocare altro che (abbassiamo volutamente i toni, poiché Kundera merita questo) i “mal di pancia” e i “bovarismi” della piccola borghesia intellettuale e (peggio ancora) pseudo artistica della Cecoslovacchia ancora socialista che la degenerazione liberale della “Primavera di Praga” sta già aggredendo e disfacendo.

Avanziamo questo nostro punto di vista, cioè che il romanzo, non ha la forza letteraria  di evocare nulla al di là della propria trama dichiarata (rimanendo dunque uno scatolone vuoto, una trama inutilmente “storta” alla Sagrada Familla e inutilmente piena di “intrecci” come quella de “I Miserabili”,  ma senza il cuore pulsante del feuilleton di Victor Hugo),  affermiamo tutto questo perché il proposito dichiarato di Kundera era quello di scrivere, invece, un romanzo collocato all’interno di una cornice filosofica, un romanzo-saggio  avente il compito, attraverso la trama e la messa in scena dei personaggi, di offrire una “concezione del mondo”, una weltanschauung da formarsi attraverso la dialettica oppositiva di Parmenide tra “pesante e leggero”, tra il non essere e l’essere, tutto ciò sotto il cono d’ombra dell’idea nietzschiana dell’Eterno ritorno, ripetizione dell’Essere e sua irrefrenabile pulsione al  ritorno.

Un progetto letterario-filosofico dichiarato (da Kundera stesso e ripetuto didascalicamente dai suoi mille esegeti occidentali) non così facile da rintracciare nelle pagine del romanzo, sia perché debole “in nuce”, sia perché non emergente nella sua fatiscente traduzione letteraria. Una trasposizione nella struttura semantica del progetto letterario-ideologico piuttosto segnata, nella sua oscura grammatica concettuale, da una chiara subordinazione al mercato editoriale occidentale affamato di esotismo. Subordinazione, e ancor meglio osmosi, con quel mercato che già appaiono in tutta la loro evidenza nella delineazione di un titolo, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, che sia Kundera che i recensori/lanciatori del romanzo sanno già essere un formidabile Cavallo di Troia per la vendita di massa, poiché fortemente accattivante nella sua magistrale somiglianza ai migliori spot pubblicitari occidentali.

Parmenide, Nietzsche, l’essere, il non essere, l’Eterno ritorno: categorie filosofiche maldestramente, ma anche biecamente piegate a sostenere una trama che doveva essere allusiva, evocativa, volta a dare un’anima a personaggi che, nell’intento di Kundera, avrebbero dovuto, nella loro sofferenza e disorientamento esistenziale, denunciare – questa è l’essenza scarnificata del discorso, piaccia o non piaccia - il socialismo cecoslovacco e con esso tutto il socialismo, iniziando da quello sovietico. Ciò cercando “un altro mondo”, quello delle “libertà”, della fine del non essere, quel non essere mostruosamente cresciuto, per Kundera, nella “triste” uguaglianza imposta dal socialismo cecoslovacco.

Oltre il “non essere”, quale corno della dialettica essere-non essere di Parmenide, Kundera gioca con la categoria nietzschiana dell’Eterno ritorno, identificato da una parte, e nell’ottica borghese, come grigia ripetizione del sé nelle società senza imprevisti costituite da individui dalla vita priva di imprevisti del socialismo (gli intellettuali borghesi che non conoscono la durezza della vita non apprezzano certo la garanzia del vivere materiale che offre il socialismo, anzi ne disprezzano, per la loro fascinazione esistenzialista e per la loro inclinazione ideologica alla pirateria del vivere, la natura egualitaria e non “eroica” per l’individuo).

D’altra parte, Kundera gioca con la categoria dell’Eterno ritorno, questa volta interpretandola positivamente, nella speranza che esso, agente consolidato nella Storia, possa riportare, dopo “l’oscurità del socialismo” e anche attraverso le crepe liberiste che può aprire la Primavera di Praga, il mondo idilliaco borghese, tutto amore, erotismo liberato e libertà individuali.

Nell’essenza, il cuore filosofico dell’“Insostenibile leggerezza” risiede in una miserevole riproposizione di un esistenzialismo d’accatto volto – secondo Kundera e i suoi mille aedi liberali – a riguadagnare la totale “libertà” del soggetto individuale, non importa se a scapito dell’uguaglianza e dell’equilibrio socialista, forme oscure, per Kundera, dell’Eterno ritorno.

Povera e distorta, filosoficamente, superfetazione dell’individualismo in salsa anticomunista. Super bovarismo di Kundera. Perché lo affermiamo? Vediamo i personaggi: il primo è Tomáš, medico a Praga (nelle pagine di Kundera sale l’odore della sanità pubblica socialista come cosa ammuffita e grigia, non troppo buona). Tomáš ha un figlio, nato da un matrimonio fallito, figlio col quale non ha più rapporti. Da quando Tomáš si è separato ha avuto diversi rapporti con altre donne, ma mai più relazioni stabili, solo, come egli stesso asserisce, “amicizie erotiche”, guidate da una sua regola: mai dormire insieme. Come si vede, questioni – oh, sì! - di grande rilevanza sociale, che di certo avrebbero affascinato un Balzac (qualora fosse debole il sarcasmo di chi scrive rimarchiamo che proprio di sarcasmo di tratta) e che la nuova letteratura cecoslovacca post socialista e anti socialista elegge a, seppur dolorosi, paradigmi delle nuove libertà neo borghesi (l’auspicato riaffermarsi, come una Vandea, dell’Eterno ritorno).

In una piccola città della Boemia, Tomáš incontra una barista, Tereza.  Dopo la partenza di Tomáš, Tereza decide di lasciare la sua piccola città e raggiungerlo a Praga. Tereza si ammala e Tomáš è costretto ad ospitarla a casa sua, infrangendo la regola del “mai dormire assieme”. L’intento di Kundera di addensare di potenza filosofica tale evento è una vera caduta nel ridicolo, filosofico e letterario. Un’ala degenerata dell’esistenzialismo francese segna miserabilmente di sé questo atto letterario e questo intento “filosofico” dello scrittore ceco. La libertà individuale, nella metafora di Kundera, cade sotto la dittatura della ragione illuminista, propedeutica a quell’odiato socialismo regolatore malsano di ogni casualità.

A Praga Tereza diventa fotografa, ma dopo quella che il sistema mediatico occidentale di allora e di oggi chiama “invasione sovietica dell’agosto 1968 e soppressione violenta della Primavera di Praga” e che Kundera fa risaltare, nella sua griglia evocativa di neri e di grigi, come l’orrore comunista, Tereza e Tomáš fuggono in Svizzera, a Zurigo. Quando tornano a Praga (lui che rincorre lei) Tomáš, “naturalmente”poiché ovvia è la ferocia comunista – perde il lavoro.

Intanto - colpa del socialismo, del suo grigiore da Eterno ritorno? - il rapporto tra Tereza e Tomáš si complica: lui la tradisce regolarmente e finisce di avere un rapporto più stabile con Sabina, naturalmente pittrice (come nei film di Woody Allen, nei quali si perlustra la piccola borghesia intellettuale ed artistica di Manhattan, anche nel romanzo di Kundera appaiono solo medici, artisti e intellettuali, come se essi fossero l’intera società, l’intero sociale.)

Tereza diviene amica di Sabina, poi quest’ultima lascia Praga (chi non vuole lasciare l’oscura Praga socialista, rievocata da Kundera con i malsani segni della Praga del “Golem”, il romanzo del 1915 appunto ambientato a Praga, di Gustav Meyrink?) e a Ginevra si innamora di Franz (finalmente un operaio, un postino, un infermiere? No: un professore universitario), il quale, in un ginepraio sentimentale degno di Liala, confessa il suo tradimento alla moglie Marie-Claude. Sabina si trasferisce poi in America (dove si va, se non negli Usa a conquistare la propria libertà?), Franz in Cambogia (la colpa del tradimento si punisce inviando il “traditore” a contatto col socialismo asiatico, il più truce nel pregiudizio di Kndera?), Tereza e Tomáš in una località di campagna, inseguendo l’illusione, come Bouvard e Pècuchet, della “bella vita agraria lontana dal chiassoso mondo”, solo che Flaubert ironizza su Bouvard e Pècuchet, ridicolizzandoli nel loro desiderio piccolo borghese, mentre Kundera non scherza e manda davvero Tereza e Tomáš  e guadagnar pace nella campagna, dove peraltro moriranno in un incidente automobilistico. Morte alquanto banale. Perché inevitabilmente banale è la vita, e la morte, di chi è stato segnato dal socialismo e da esso non riesce totalmente a liberarsi?

“L’insopportabile leggerezza” è un romanzo di un’inconsistenza rara, segnato da trame sentimentali sul piano letterario imbarazzanti, da un erotismo continuo, da una sorta di sessualità seriale e di maniera che strizza l’occhio, tutti e due gli occhi, al botteghino e diviene per questo piatta pornografia. Un’opera che ricorda, e per ciò ne segue il passo, il grande successo di un’altra opera insulsa, “Histoire d’O”, del 1954, di Dominique Aury, che con qualche pagina di ridicola pornografia si assicurò un vitalizio per la vita.

È un’opera, “L’insostenibile leggerezza”, che parte dal presupposto di essere un romanzo filosofico ma per la sua estrema leggerezza (questa si è presente: l’evanescente leggerezza letteraria) e per il suo dogmatico pregiudizio politico di carattere liberale diventa un povero pamphlet anticomunista. Che, ancora per il suo schierarsi decisamente nel campo ideologico liberale, nulla racconta della vera società socialista cecoslovacca dell’epoca, che magari poteva essere raccontata – ma sarebbe occorsa la penna di un Balzac, di uno Stendhal- nelle sue inevitabili contraddizioni e problemi. Senza invece ridursi, come un filosofo di serie “C” della Scuola di Francoforte o di un rappresentante di serie “D” della scuola esistenzialista parigina di Jean-Paul Sarte, a raccontare malamente le vite della piccola borghesia praghese anticomunista nella fase della “Primavera di Praga”, evento, peraltro, tutto ancora da raccontare nella sua essenza filo capitalista e anti sovietica, anche se Kundera sembra aver capito tutto, narrando ad un mondo, ben disposto ad ascoltare, la cupezza del socialismo anti individualista. Riducendo così “L’insostenibile leggerezza dell’essere” in una insostenibile pesantezza (letteraria) del non essere ontologico, del non essere nemmeno opera letteraria compiuta.

Forse non ci piace “L’insostenibile leggerezza” perché chiaramente liberale e antisocialista? No. Non si tratta di questo. Louis Ferdinand-Céline, autore del capolavoro letterario “Viaggio al termine della notte”, era un fascista e un razzista dichiarato. Ma la sua arte letteraria è così grande che occorre ogni volta fare uno sforzo enorme per non essere catturati, anche ideologicamente, dalla magnifica trappola del suo sistema letterario. Una nassa stracciata, invece, è la “rete” letteraria di Kundera e dovrebbe essere più agevole, dunque, sfuggire al suo lacciolo liberale, a meno che non si appartenga all’individuo-massa che sostiene il mercato, in questo caso editoriale. Ma la forza del mercato è vasta e capillare…

Forse non ci piace “L’insostenibile leggerezza” perché troppo “erotico”? Abbiamo già visto che il suo erotismo esangue scivola, proprio per questa sua natura “dissanguata”, in una noiosa pornografia. Il Marchese De Sade, in “120 giornate di Sodoma”, sparge perversione e violenza sessuale in ogni pagina, ma alla fine, compreso che questa scelta è funzionale ad una denuncia senza pari del potere oscuro dell’aristocrazia, l’opera di De Sade perde ogni parvenza pornografica trasformandosi in un manifesto illuminista e rivoluzionario.

“L’insostenibile leggerezza” non ha nulla, sul piano letterario, che possa dargli valore. E se ci chiediamo il perché del suo grande successo mondiale e di mercato la risposta è semplice e non ideologica: scritto nel 1982 ed uscito, in Francia, nel 1984, il romanzo di Kundera, nel suo totale antisocialismo esistenzialista (segnato, cioè, da quell’esistenzialismo  occidentale così ben letto, smontato e stigmatizzato da Domenico Losurdo, ma anche da teologi quali Dionigi Tettamanzi, capaci di contrapporre, come Lukacs, una concezione della totalità al relativismo esistenzialista), ha la fortuna di anticipare d’un soffio la crisi dell’URSS e dei Paesi socialisti, divenendo così un’opera “cult” per chi ha voluto credere, anche se per un solo minuto, anche in forma anticipata, alla “fine della storia” “ratificata” da Francis Fukuyama. Per un solo minuto poiché poi la storia vera, dalle rivoluzioni in America Latina, in Africa e in Asia, hanno celermente ricambiamo il mondo ricollocandone prepotentemente al centro la questione del socialismo e della rivoluzione. Facendo di botto invecchiare e morire, peraltro, opere insipide come “L’insostenibile leggerezza”. Romanzo ricordato solo ora, in questo luglio 2023, come atto dovuto per la morte (anche letteraria) di Milan Kundera.

 

 

 

 

 

 

 

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