L'Italia non cambia mai

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L'Italia non cambia mai

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di Michele Blanco*

La politica italiana riflette i vizi culturali del nostro paese, ma oggi siamo passati direttamente da parentopoli a parentocrazia. Infatti in tutto il sistema politico italiano vige una legge ferrea: Come far eleggere parenti, mariti e mogli… nel sistema elettorale senza preferenze.

Johann Wolfgang Goethe, che nella seconda metà del XVIII secolo viaggiò per anni in Italia, amava la nostra nazione e gli italiani, malgrado questo scrisse: “L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, ancora truffe al forestiero … c’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina; ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida, e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé”. Dopo secoli, purtroppo, vediamo che la situazione non è cambiata affatto. Secondo Peter Nichols, giornalista britannico che fu per trent’anni corrispondente del Times in Italia, la Famiglia è «il più celebre capolavoro della società italiana attraverso i secoli, il baluardo, l’unità naturale, il dispensatore di tutto ciò che lo stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore e il rimuneratore». Il Giornalista allude chiaramente alla compattezza dei rapporti famigliari, alla centralità che essi hanno, nel nostro paese, rispetto agli interessi generali della società civile e dello Stato.

Chi detiene il potere spesso immagina, nel nostro paese si è passati ai fatti, di poterlo esercitare anche a favore di parenti, congiunti, amici. E’ anche un modo per verificare sul campo quanto potere si ha e fino a dove lo si può esercitare. Se si riesce nell’operazione a favore di un parente, significa che il proprio potere non è sterile ma, esercitarlo, può determinare il soddisfacimento di qualche aspirazione in qualche caso perfino illegittima. Dunque nessuna novità ma semmai il perpetuarsi di comportamenti inaccettabili, spesso illegittimi, sempre insopportabili. 

Oggi però verifichiamo un “salto di qualità” se così si può dire. Da parentopoli siamo passati direttamente alla parentocrazia. Anche in questo caso, non è che ci troviamo di fronte ad un fenomeno inedito; nei Paesi con una scarsa consuetudine democratica, non infrequentemente ai vertici degli Uffici, anche di quelli più importanti, ci imbattiamo in numerosi parenti dei potenti, tutti nei ruoli di comando. Ma da noi, in Italia, la parentocrazia, sia pur non sconosciuta, non rappresentava una consuetudine cosi radicata forse anche perché un pizzico di pudore, se non di attenzione, imponevano almeno una riflessione prima di farsi affiancare sul seggio parlamentare da un congiunto con una affinità parenterale più o meno vicina. 

 Oggi, con una legge elettorale scellerata, dove i candidati non vengono eletti ma scelti da una oligarchia di politici, gli argini si sono rotti e nei collegi, maggioritari o proporzionali che siano, ritroviamo mogli, figli, nipoti, fidanzate, amanti. La tentazione di far eleggere la moglie, la fidanzata, un congiunto diretto è diffusa tra tutti i partiti. Serve a far definitivamente non solo quadrare il bilancio familiare ma ad elevare il reddito in modo considerevole, a circondarsi di persone di assoluta fiducia e consonanza politica anche se, non infrequentemente, anzi spessissimo, ne risente la qualità della proposta politica. Dall’altro lato è da considerare che una legge elettorale cosi fatta male rende completamente ininfluente la volontà di riconoscere capacità ed intelligenze. 

Queste doti ci saranno nei tanti congiunti candidati e poi quasi sicuramente eletti ma è indiscutibile anche che il loro destino viene scelto dal parente potente, oligarca e non certo favorito dalle loro capacità. In definitiva abbiamo, per questi comportamenti, un parlamento non di eletti ma di scelti, composto da parenti e conoscenti, fedeli, amici, parentocratico e con una percentuale bassissima di meritevoli e capaci. Non è certo un buon viatico per un parlamento che deve fare scelte importanti e perfino epocali in un tempo fatto di guerre armate e commerciali, razziali ed economiche che avrebbe voluto che fossero richiamati al servizio politico della nazione persone capaci e scelte democraticamente dai cittadini, invece di mogli, amiche, amanti, fratelli, cugini e “nani e ballerine”.

Nel contesto del nostro paese lascensore sociale, cioè la possibilità reale di realizzarsi attraverso lavoro e sacrifici, funziona solo, oltre che per i parenti dei politici, per chi si trova nelle fasce alte della popolazione e ha buone conoscenze personali e famigliari. Sono meno del 30 per cento le persone che si riconoscono appartenenti alle classi medie. Le classi medie, in una società capitalista, da sempre hanno rappresentato il nucleo fondante e stabilizzatore della società stessa. Nella definizione di ceto medio vale sempre la perfetta definizione del sociologo Arnaldo Bagnasco, secondo la quale ne faceva parte: “chi ritiene di aver trovato un posto per lui accettabile e riconosciuto nella società in cui vive senza seri problemi per un soddisfacente tenore di vita e di sicurezza per il futuro”. 

 L’Italia è un Paese che si percepisce spaccato in due, con il 51 per cento degli italiani che si sente incluso e il 46 per cento che si percepisce escluso. Il dato si polarizza nelle classi sociali: gli inclusi salgono al 65 per cento nel restante ceto medio, mentre gli esclusi volano al 66 per cento nei ceti popolari. La maggioranza degli italiani (56 per cento) sostiene che la propria rete sociale e amicale è in contrazione (al 65 per cento tra i ceti popolari), mentre la quota che avverte la rete in crescita si ferma al 38 per cento (44 nel ceto medio). Il 37 per cento degli italiani non è in grado di fare fronte a una spesa imprevista (una quota che nei ceti popolari sale al 63 per cento); il 16 per cento ha difficoltà a pagare le bollette (40 per cento nei ceti popolari). Ma dopo gli ultimi accadimenti, in particolare la guerra in Ucraina, che ha portato l’aumento dell’inflazione come conseguenza dell’aumento dei prezzi dei carburanti e del gas. 

Un fenomeno significativo come la diminuzione delle vendite di generi alimentari, non avveniva da decenni, una tendenza che segnala la difficoltà anche del ceto medio-basso a mantenere il proprio tenore di vita, per effetto dell’aumento delle voci del suo paniere-base di spesa (energia e cibo). Il risultato economico è stato quello di accentuare anche all’interno degli intermedi una polarizzazione alto-basso.

Si nota che la maggior parte delle nuove proposte di investimento (alberghi e immobiliare, soprattutto) sembra indirizzata a privilegiare il mercato di alta gamma che non si è ridotto di consistenza e si è dimostrato non risentire rispetto all’aumento dell’inflazione. In questo contesto nessuno si accorge che ci sono larghi strati della popolazione che vivono una sofferenza economica, ma anche civile e democratica. Di certo non basta andare incontro a questi “sventurati” con un atteggiamento caritatevole: serve un’analisi critica dei meccanismi che generano l’ingiustizia sociale, come fanno alcuni politici che si dicono di sinistra. 

Bisogna riflettere sul paradigma economico dominante, seppur in crisi, del neoliberismo. Se non si riporta la politica in una condizione di superiorità rispetto all’economia, è impossibile pensare di fermare la crescita delle diseguaglianze. Ma oggi la qualità della vita e i legami sociali sono andati in crisi. E in una situazione come quella attuale non si può tollerare che i lavoratori siano sempre più sfruttati, precari e senza certezze ed è giusto mettere in cima all’agenda politica la lotta alle diseguaglianze. Però gli slogan non bastano più, se si punta a costruire un discorso serio, servono proposte di modifica delle strutture della società, dalla sanità alla scuola, al ruolo dello stato in economia. Proposte radicali e al tempo stesso concrete, e, soprattutto, facilmente comprensibili. L’insicurezza esistenziale di milioni di persone va contrastata con provvedimenti reali e concreti. Servirebbe un grande e serio partito di sinistra con un’immagine completamente nuova. I partiti “di sinistra” attuali sono pro-establishment e senza forza critica verso il sistema dominante. 

Serve una chiara sconfessione delle scelte passate: un passaggio indispensabile per rivolgersi a chi subisce ingiustizie. Inoltre si avverte la necessità di un vero sindacato che abbia maggiori capacità di mettersi in sintonia con una larga fetta del mondo del lavoro, quella dei non garantiti. L’esempio del salario minimo è chiaro: bisogna essere consapevoli che la contrattazione nazionale da sola non basta a garantire salari dignitosi.

Una nuova sinistra, che vorrei, partecipativa e sociale per acquistare credibilità verso i settori della società più in sofferenza deve fare e portare avanti, concretamente, proposte serie che vadano a dare dignità, stabilità e garanzie economiche ai lavoratori.  Perché è dimostrato che un pezzo del popolo, nelle periferie delle grandi città soprattutto, ha scelto la destra perché non sapeva più a che santo votarsi. Sulle macerie del neoliberismo la destra ha prosperato. E quindi non basta certo solo evocare, con vuote parole, il soccorso verso i poveri per invertire questa tendenza. Bisogna fare delle vere riforme, perché il termine «riformista» nasce per indicare chi voleva superare il capitalismo con metodi non violenti, in contrapposizione, di metodo ma non di finalità, ai rivoluzionari. Non come negli ultimi 45 anni che il termine “riforma” è stato utilizzato per indicare chi vuole smantellare lo stato sociale per lasciare campo libero al mercato, alle privatizzazioni, alla sanità privata. Ma all’orizzonte non si vede, con certezza, ancora nulla che vada in questa direzione.

*Questo articolo è stato pubblicato su https://www.eguaglianza.it/

 

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