Mattarella, il 1938 e il futuro dell'Ucraina

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Mattarella, il 1938 e il futuro dell'Ucraina

 

 di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

Per quanto riportate in pochi frammenti su alcuni quotidiani, le parole pronunciate a Marsiglia da Sergio Mattarella qualche spazio di riflessione (e di interpretazione) lo lasciano. Ad esempio, il Presidente della repubblica, ricordando le vicende degli anni '30 e associando le nefandezze del Terzo Reich hitleriano alle odierne azioni della Russia, dice di voler mettere in guardia dal ripetere strategie che non funzionarono nel 1938, poiché se quelle di allora «furono guerre di conquista», quelle odierne di Mosca seguono lo stesso solco e «l’odierna aggressione russa all’ucraina è di questa natura». Cosa significa?

Alle strategie che non funzionarono nel 1938 (cioè il cosiddetto “appeasement” voluto da Gran Bretagna e Francia che, a ben guardare, risaliva al patto di Locarno del 1925, teso a spostare da ovest a est il revanscismo tedesco) per indirizzare l'aggressione di nazismo hitleriano e fascismo mussoliniano contro l'Unione Sovietica, corrisponderebbe oggi la ricerca di soluzioni non belliche per metter fine al conflitto in Ucraina.

A rigor di sintassi, dunque, un eventuale compromesso sulle prospettive di pace, oggi, non sarebbe altro che una ripetizione del patto di Monaco del 1938, con cui veniva disintegrata la Cecoslovacchia. Diciamo che piani di spartizione dell'Ucraina esistono da tempo, ma provengono da altri soggetti che non quelli supposti da Mattarella. In ogni caso, nessun accomodamento dovrebbe quindi essere accettabile, dato che, come fu negli anni '30, oggi «l’aggressione all’Ucraina è un progetto di conquista», proprio «come il progetto del Terzo Reich» cui, aggiungiamo noi, partecipò volentieri la “democratica Polonia, con il benestare di Londra e Parigi.

Ne discende, secondo logica, la “necessità” oggi di continuare la guerra «fino alla vittoria di Kiev»: lo esigono gli appetiti miliardari di quei «neo-feudatari del Terzo millennio» contro cui, a parole, pare scagliarsi la massima carica dello stato italiano. Ne consegue anche che, come dice Sergio Mattarella, l'Europa «non può accontentarsi della prospettiva di un vassallaggio felice» all'ombra dello scudo USA-NATO, ma «deve scegliere tra l’essere protetta e l’essere protagonista». Dunque, avanti con l'esercito europeo; avanti con le spese di guerra; avanti col rimpolpare le casse dei complessi militari-industriali euro-americani e col depredare quel che rimane di servizi pubblici, assistenza socio-sanitaria, istruzione, ecc., a danno delle condizioni di vita di operai, lavoratori e masse popolari in generale.

D'altra parte, quella indicata da Mattarella è proprio la linea su cui si muovono i guerrafondai di Bruxelles: sempre nuove sanzioni alla Russia, istituzione di un fantomatico “tribunale speciale” sui crimini (ovviamente russi) in Ucraina, riarmo a tutto spiano e niente tavoli di trattativa, tanto che ora, improvvisamente, pur di aumentare le spese che, infischiandosene della grammatica, loro chiamano «per la difesa», ecco che con circensi escamotage paiono potersi aggirare i limiti imposti dai tagliagole di Bruxelles ai bilanci nazionali.

Ma, “difesa” da chi? Ovviamente, dai «progetti di conquista» russi ai danni non più della sola Ucraina, ma dell'intero continente europeo. E c'è davvero urgenza di armarsi, ora e subito, finché il conflitto va avanti: se si dovesse arrivare a un cessate il fuoco, diventerebbe più “problematico” (ma, non dubitiamo che si inventerebbero comunque un raggiro mediatico per “giustificare” le scelte) far ingoiare alle masse i draconiani tagli sociali a favore dei profitti dei colossi della guerra.

E, però, cosa risponderebbero gli eredi dei komplizen filohitleriani che oggi occupano posti chiave a Bruxelles, nel caso Trump e Putin si sbarazzassero (a questo punto, anche donandogli una “pensione dorata” da qualche parte sul pianeta) del nazigolpista-capo Vladimir Zelenskij, con l'imporgli di indire elezioni dopo il cessate il fuoco e quale precondizione per trattative di pace, nonostante che, in base al passato decreto dello stesso Zelenskij, che nel frattempo ha prorogato lo stato di guerra fino al 9 maggio, queste non potrebbero tenersi? Risponderebbero probabilmente che la “minaccia russa” rimarrebbe comunque tale, finché le “democratiche” armi occidentali non saranno riuscite a smembrare il paese in tanti piccoli feudi da assegnare a questa e quella delle “democrazie” che, a Monaco, nel 1938, continuarono la politica interventistica lanciata vent'anni prima contro il “pericolo bolscevico”. Ovvio che la Russia putiniana non abbia nulla a che vedere con la Russia sovietica e con l'URSS, ma è l'effetto della parola che conta: la Russia, per definizione, è sempre quella che attacca: non lo insegnano, forse, i “martoriati” polacchi e i “lacrimevoli” baltici, oggi “cattedratici” di storia brevettata a uso e consumo di vomitevoli “risoluzioni” UE?  

E, in presenza di un eventuale cessate il fuoco, o “congelamento” del conflitto, come si accorderebbero le parole del capo dello stato italiano sul non funzionamento di quello che, a suo dire, sarebbe una riproposizione del 1938?

Non a caso, mentre stanno precipitosamente esaurendosi i fondi yankee per finanziare la guerra, arriva da Mosca una flebile apertura alla possibilità di condurre trattative direttamente con Zelenskij, nonostante il Cremlino insista sulla sua illegittimità quale presidente ucraino.

In ogni caso, se davvero si arrivasse al voto, i candidati non mancano e, nelle condizioni dell'attuale Ucraina, tutti in grado di sorpassare in popolarità l'attuale presidente: Julija Timošenko, Petro Porošenko, il sindaco di Kiev Vitalij Klichkò, il pugile Aleksandr Ysik, il presidente della Rada Dmitrij Razumkov e, naturalmente, Valerij Zalužnyj e Kirill Budanov. E vengono alla ribalta anche personaggi che, nel recente passato, hanno costruito le proprie fortune “politiche” sulla russofobia e che oggi, fuggiti all'estero, sono considerati “russofili”: Aleksej Arestovic, il co-fondatore del criminale “Mirotvorets” e oggi principale agitatore contro le retate dei distretti militari Miroslav Oleško e poi Igor Mosijchuk e altri.

Tutti in grado di surclassare, nei favori dell'elettorato, Vladimir Zelenskij che, come nota opportunamente Aleksej Zot'ev sul Servizio analitico del Donbass, si è adattato così bene al ruolo assegnatogli dai tecnopolitici occidentali di “presidente di guerra”, che rimarrà tale nella storia dell'Ucraina, responsabile della morte di milioni di ucraini e della distruzione di centinaia di città e villaggi. E, in tale ruolo, continua ad apparire, nonostante tutto, anche ora, nel momento in cui, mentre il presidente USA, principale sponsor del conflitto, dice che è ora di farla finita, lui continua a parlare (sempre meno, in realtà) di guerra fino alla vittoria.

In questo senso, i piani di togliere di mezzo (in particolare, alimentandone il discredito con accuse di appropriazioni miliardarie) il «rappresentante ufficiale» della junta, come rivelato dall'Intelligence estera russa, non sono privi di fondamento e di logica. Zelenskij è consapevole del destino che lo attende, anche se però ne addossa la responsabilità a Mosca: «non rientro nei piani dei russi, che oggi hanno bisogno di un fantoccio a Kiev, come prima della guerra influenzavano il nostro parlamento e facevano di tutto per impedire all'Ucraina di scegliere finalmente il cammino europeo», ha detto qualche giorno fa al giornalista britannico Piers Morgan.

Ma è evidente come el jefe de la junta non rientri nei piani USA, perché Trump, come Biden prima di lui, ha bisogno di una persona massimamente controllabile a Kiev, con la differenza che Biden ne aveva bisogno per la guerra, mentre i piani geostrategici mondiali di Trump sono abbastanza diversi e il sostegno all'Ucraina, per lui, in questo momento, rappresenta tutt'altro che una priorità.

Me le affermazioni del capo dello stato italiano, così come le farneticazioni belliciste del duo von der Leyen-Kallas, si ridurrebbero forse addirittura a zero, nel caso andasse a compimento il progetto, da anni ventilato nelle capitali di varie nazioni più o meno “europeiste” - Romania, Ungheria, ma soprattutto Polonia - di riappropriarsi di grosse fette del territorio ucraino, a loro dire “arbitrariamente” loro sottratte nel 1945. Cosa rimarrebbe da ”difendere dall'aggressione russa” e come reagirebbero i patroni di quell’unione europea che «costituisce un punto di riferimento» per i suoi valori e che quindi «deve scegliere tra l’essere protetta e l’essere protagonista»? Ma di questo un'altra volta.

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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