Michelle Bachelet, diritti umani modello Gringolandia

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Michelle Bachelet, diritti umani modello Gringolandia



di Geraldina Colotti
 

Chi è rimasto vigile rispetto al funzionamento di questo sistema-mondo, prevalentemente governato dai meccanismi del profitto e dagli interessi delle grandi multinazionali, sa che la retorica sui diritti umani viene usata spesso come schermo proprio da chi i diritti umani li nega dalle fondamenta: rendendo cioè un privilegio il diritto all'alimentazione, alla salute, all'educazione, ossia a una vita degna di essere vissuta. Chi ha ben presente l'asimmetria che regola la geopolitica attuale, sa che la funzione delle grandi istituzioni internazionali è governata o indirizzata dal gendarme nordamericano, senza il quale nessuna nomina dirigenziale potrebbe passare. Chi considera l'azione politica come scontro di interessi, ossia come risultato di una lotta di classe, inquadra in questi termini le figure dei dirigenti. E in questa prospettiva leggerà anche il vergognoso rapporto ONU di Michelle Bachelet sui “diritti umani in Venezuela”.


Un'informativa a senso unico che sembra più riferirsi alla “Gringolandia” da cui è dipesa la nomina di Bachelet come Alta Commissaria per i Diritti umani, che alla Repubblica Bolivariana del Venezuela. Un documento che sembra più una fotografia della “democradura” esistente nel Cile della signora Bachelet che della democrazia partecipata del Venezuela. Una relazione sdraiata sulla filosofia di quei partiti del “centro-sinistra” modello europeo che a forza di non volersi schierare né da una parte né dall'altra della barricata, hanno finito prima per essere loro stessi la barricata, e poi per saltare decisamente nel campo degli oppressori. L'abbraccio di Bachelet al giovane nazista venezuelano Lorent Saleh, laureato dal Parlamento europeo come campione della “libertà d'opinione” è un'immagine che ne racchiude il micidiale capovolgimento di senso, a cui si è prestata e si presta la ex presidenta cilena.


Perciò, risultano quasi commoventi quei 70 punti con i quali il governo bolivariano si dedica a smontare il rapporto dell'Alta Commissaria ONU, basandosi sui fatti e non sui pregiudizi imposti dal sistema che difende oggi la ex allendista Bachelet. Risultano commoventi quegli incessanti appelli al dialogo e alla pace – una pace con giustizia sociale, e non la pace del sepolcro che impone il capitalismo ai settori popolari – rivolti dal presidente Nicolas Maduro all'opposizione e a chi la sostiene da fuori. Quale “dittatore” avrebbe invitato Bachelet e le avrebbe aperto le porte così come ha fatto Maduro, tendendo la mano e ricevendone in risposta le solite coltellate?


Dal 2002 a oggi – dal Chavez che torna vincitore dal golpe reggendo in una mano la croce, e nell'altra la costituzione, alla liberazione di golpisti che hanno immediatamente ricominciato ad azzannare di nuovo – la scena si ripete. E non basta mettere in rilievo il risultato politico, indubbiamente significativo, che ha portato Bachelet a riconoscere la legittimità del governo bolivariano, presieduto dal legittimo presidente Maduro. La luce artificiale dell'”autoproclamato” presidente a interim si era già appannata per l'azione intelligente della diplomazia bolivariana e per i “nervi d'acciao” mantenuti dalla resistenza popolare all'interno del paese: a dispetto di tutti gli attacchi portati avanti dalla masnada di golpisti e truffatori che vuole a tutti i costi impadronirsi del paese.


Il punto principale che occore considerare è la natura concreta dal proceso bolivariano: quella di una rivoluzione incompiuta che le forze dell'imperialismo vogliono bloccare con ogni mezzo, o almeno fare in modo che affondi, restando a metà del guado. A vent'anni dalla vittoria di Chavez alle elezioni presidenziali, nonostante il consenso e il potere politico, il grande capitale riesce ancora a fare il bello e il cattivo tempo in Venezuela, imponendo la guerra economica e il traffico del dollaro parallelo, e ora cercando di “dollarizzare” il paese con i fatti compiuti.


Di quale autoritarismo parla, Bachelet? Guardando le cose dall'Italia, dove nessun governo ha voluto tassare le grandi fortune, la legge discussa dall'Assemblea Nazionale Costituente indica che fin'ora, le grandi fortune, che abbondano in Venezuela, hanno pagato – o meglio avrebbero dovuto pagare – lo 0,25% all'anno. Ora l'imposta verrà portata all'1,50% all'anno... L'imposta sui grandi patrimoni è stata proposta nel 2017 da Nicolas Maduro per compensare almeno in parte il deficit fiscale, uno dei principali problemi che la guerra economica ha provocato, e per far restituire allo Stato almeno qualche briciola degli enormi profitti realizzati con i traffici che questa guerra ha imposto e diffuso. Ben poca cosa rispetto al furto sistematico compiuto dal capitalismo ai danni del popolo venezuelano.


In vent'anni di governo socialista, praticamente tutti i funzionari della IV Repubblica hanno continuato a lavorare nelle banche e nei ministeri. E hanno continuato a sabotare, approfittando dei benefici del proceso, ma cercando di tornare al sistema di prima. Questo vale anche per l'impresa petrolifera di Stato, per la magistratura e per le forze di sicurezza e di polizia.


Questa è, però, la più evidente prova di democrazia. Se si fosse messa fuorilegge la borghesia, se anziché la democrazia partecipata e la ricerca di consenso si fosse imposta la dittatura del proletariato e una rivoluzione leninista o guevarista come quella cubana, di sicuro vi sarebbero stati costi da assumere, ma i problemi da affrontare sarebbero stati di altra natura. E' in questa chiave che la “democratica” Bachelet avrebbe dovuto analizzare la società venezuelana.


Invece, nel suo rapporto dà la colpa al povero per aver fame, e non denuncia la responsabilità di chi gli toglie il pane: in questo caso, l'imperialismo che blocca i fondi al governo bolivariano mediante raggiri e sanzioni. Bachelet ignora che, di fronte alla crisi, il governo cileno si è comportato in tutt'altra maniera, mentre quello socialista in Venezuela ha sempre erogato oltre il 70% degli introiti annuali ai piani sociali: ai Clap, alle Case di alimentazione, alle mense scolastiche e ai sussidi alle famiglie.


L'ipocrisia della ex presidente cilena, emerge almeno da due altri temi: quello degli indigeni e quello della repressione. In nessun governo come nel socialismo bolivariano, le popolazion indigene hanno ottenuto tanto, in termini di diritti e di poteri. Ma Bachelet prende ad esempio proprio uno degli episodi più emblematici e contraddittori che ha interessato di recente una parte dei nativi Pemones: una faccenda di estrattivismo selvaggio portato avanti da gruppi di nativi che più avrebbero dovuto essere interessati a proteggere l'ambiente in cui vivono, e che invece si sono fatti accecare dall'oro, mentre nei paesi capitalisti vengono angelicati come portatori di una purezza originaria, minacciata dal “dittatore Maduro”.


Bachelet avrebbe dovuto informarsi sulla storia della pietra cueca, simbolo ancestrale dei pemones, venduta a un artista tedesco e poi rivendicata dal governo bolivariano, che da anni ha avviato le pratiche di riscatto per riportare la pietra cueca al suo luogo natìo pagando molto denaro. Avrebbe dovuto visitare il villaggio dei nativi che vivono sulle palafitte, a cui il governo bolivariano ha costruito le case nei loro luoghi di sempre, senza sradicarli. Avrebbe dovuto pensare ai mapuche cileni, perseguitati, incarcerati e uccisi per far spazio alle grandi imprese forestali.


Come avrebbe reagito Bachelet se qualcuno avesse ingiunto al suo governo di sciogliere i carabineros, che vediamo costantemente all'opera con lo stesso accanimento con il quale agivano ai tempi di Pinochet? Invece, l'Alta Commissaria parla di tortura, di repressione e di censura in Venezuela. Dimentica che nei paesi capitalistici europei o in quelli che animano la banda del Gruppo di Lima, di cui fa parte il Cile, e principalmente negli USA, le esecuzioni mirate, le torture, gli arresti di massa sono un'evidenza, sempre giustificata con una qualche emergenza e per garantire “la sicurezza”. Cosa sarebbe successo se l'ONU avesse chiesto al Perù o alla Colombia, alla Spagna o all'Italia di sciogliere le forze speciali di sicurezza, di abolire la legislazione sul pentitismo e di liberare tutti i prigionieri politici?


In Venezuela, molti esponenti del proceso bolivariano hanno subito il carcere, la persecuzione o le torture durante la IV Repubblica, una democrazia camuffata in cui, come nei paesi d'Europa, il popolo andava a votare ma senza poter decidere del proprio destino. Nessuno di loro avallerebbe la tortura come politica di Stato. Hanno visto il vero volto della bestia e le hanno strappato la maschera: non per indossarla nuovamente sotto mentite spoglie, ma per gettarla una volta per sempre nell'immondizia della storia.

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