Non è un paese per lavoratrici

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Non è un paese per lavoratrici

 

Se mai ce ne fosse stato bisogno, gli ultimi anni ci hanno ricordato in maniera incontrovertibile che le crisi economiche e i periodi di recessione non sono uguali per tutti. Le classi dominanti – una piccola minoranza di privilegiati – ne approfittano per accaparrarsi ulteriori quote di reddito a scapito della grande maggioranza della popolazione. Quest’ultima, invece, vittima di un inarrestabile processo di ristrutturazione capitalista che avanza una riforma dopo l’altra, un PNRR dopo un Next Generation EU, vede inesorabilmente erosi diritti e reddito. La realtà degli ultimi anni ha anche ribadito che l’appartenenza di classe non è l’unica dimensione lungo la quale disuguaglianze e sfruttamento si estrinsecano, e che ad essa si intreccia un’ulteriore faglia, rappresentata dalle disparità di genere.

Un rapporto appena pubblicato da Save the Children, dall’emblematico titolo “Le equilibriste”, fornisce uno spaccato drammatico di un problema atavico del nostro Paese, che la pandemia ha contribuito solamente a esacerbare. I numeri, riferiti al 2021, sono impietosi.

Il tasso di occupazione (calcolato come il rapporto tra occupati e popolazione in età lavorativa) in Italia è stato pari al 67,1% per gli uomini e al 49,4% per le donne, un divario di quasi 18 punti percentuali. La situazione è ancora più grave nel Mezzogiorno: qui il tasso di occupazione maschile è pari al 56,8%, mentre quello femminile è al 33%. Il divario, dunque, è di quasi 24 punti percentuali.

Il tasso di inattività (calcolato come un rapporto dove al numeratore si trova chi non ha un lavoro e neanche lo sta cercando e al denominatore c’è la popolazione in età lavorativa) è pari al 26,4% per gli uomini e al 44,6% per le donne.

Ma non finisce qui. In un contesto caratterizzato dalla proliferazione di contratti di lavoro iper-precari, la situazione femminile è ancora più nera di quella della popolazione nel suo complesso. Concentrandosi sul primo semestre del 2021, emerge ad esempio come solamente il 38% delle trasformazioni contrattuali, da contratto precario a tempo indeterminato, abbia riguardato le donne. In altri termini, ogni 100 trasformazioni contrattuali da tempo determinato a tempo indeterminato, 38 riguardano donne. Le donne, però, incidono (dati ISTAT 2021) per il 47,5% sulla totalità dei contratti di lavoro a tempo determinato. Il fatto che le donne incidano per il 47,5% sul totale dei contratti a tempo determinato e per il 38% sulle trasformazioni suggerisce che il fatto stesso di essere donna riduce sensibilmente la probabilità di vedere il proprio rapporto di lavoro precario trasformarsi in un contratto a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda i nuovi contratti attivati nello stesso periodo, come riportato anche nel Gender Policies Report dell’INAPP, dei 1,3 milioni che hanno riguardato le donne, oltre l’85% ha una natura fortemente instabile e precaria (38,1 % a tempo determinato, 17,7% lavoro stagionale, 15,3% somministrazione, 4% apprendistato, 10,4% intermittente) a fronte di uno striminzitissimo 14,5% di nuovi contratti a tempo indeterminato. Per comparazione, circa due milioni di nuovi contratti hanno invece riguardato uomini, per i quali i contratti precari rappresentano oltre l’80% del totale (44,4% a tempo determinato, 13,2% lavoro stagionale, 13,7% somministrazione, 4,4% apprendistato, 6,4% intermittente), contro il 18% a tempo indeterminato. Come a dire: la classe lavoratrice nel suo complesso è sotto un attacco feroce e senza remore; all’interno della classe lavoratrice, le donne hanno meno lavoro e più precariato.

Per chiudere questa fosca panoramica, bastano altri due dati: circa una donna su tre ha un contratto part-time (a fronte di meno di un uomo su dieci), per un totale di circa tre milioni di persone coinvolte, di cui ben il 60% subisce e non sceglie questa opzione. Si tratta cioè di part-time involontario, che la lavoratrice eviterebbe ben volentieri se potesse avere accesso a un lavoro migliore. Strettamente collegato a questo, possiamo notare che nel 2020 il 77,4% delle dimissioni volontarie totali è stato presentato da lavoratrici madri, che segnalano la ‘difficoltà a conciliare il lavoro con la cura della prole, per ragioni legate ai servizi di cura’ come la principale delle cause per le dimissioni.

Questi sono i dati, i numeri, la realtà oggettiva di fronte ai nostri occhi. Rimane da interrogarsi sulle ragioni e chiedersi se si tratti di qualcosa di immutabile, di ineluttabile, di necessario. Forse la maniera più semplice di dare una risposta (negativa) a questo interrogativo è contenuta nel rapporto stesso di Save the Children, che mette in luce un elemento paradigmatico e non esaustivo di come precise scelte politiche siano alla base della situazione che abbiamo provato a descrivere: nell’anno scolastico 2019-2020, meno del 15% dei bambini nella fascia di età 0-3 anni ha avuto accesso a un asilo nido o strutture analoghe, con le ovvie conseguenze in termini di difficoltà per le madri di poter conciliare attività lavorativa e cura della famiglia. Una precisa ed esplicita scelta da parte dei Governi che si sono succeduti di risparmiare, in ossequio al dogma dell’austerità e della ‘prudenza’ di bilancio, su un sistema pubblico di cura e supporto fa ricadere tutto il peso sulle spalle delle famiglie, e in misura sproporzionatamente maggiore su quelle delle madri.

A fronte di questo contesto, il Governo Draghi non ha perso occasione per mostrare, ancora una volta, le sue priorità e il suo orientamento politico. Con la Legge di Bilancio 2022, il Governo si impegna, infatti, a raggiungere entro il 2027 un obiettivo del 33% per quanto riguarda la copertura dei servizi educativi per l’infanzia. A questo punto, una serie di domande sorge spontanea: perché solamente il 33%? Perché per il 67% dei bambini non deve essere prevista la possibilità di avere accesso a un asilo nido? Perché solamente entro il 2027?

A queste domande, se ne collega un’altra: quante risorse sono stanziate a tale scopo? Si parte da 120 milioni di euro per il 2022, 175 milioni per il 2023, 230 milioni per il 2024, 300 milioni per il 2025, 450 milioni per il 2026, fino a 1,1 miliardi nel 2027. Sono tanti soldi? Sono pochi? L’attualità suggerisce purtroppo un metro di paragone con cui effettuare un confronto: le spese militari in Italia, per il 2022, ammontano a 27,5 miliardi di euro. A seguito dell’impegno assunto dal Governo Draghi nell’ambito degli accordi NATO di portare le spese militari al 2% del PIL entro il 2028, si avrà un ulteriore aumento di circa 13 miliardi di euro all’anno, cifre che rendono perfettamente l’idea di come le poche risorse stanziate per i servizi per l’infanzia siano strutturalmente e deliberatamente insufficienti.

Non ci sono grandi ragioni per stupirsi, d’altronde. Un sistema economico fondato sul profitto si nutre del fatto che una piccola minoranza può prosperare e fare fortuna grazie allo sfruttamento e al lavoro della maggioranza, una maggioranza da dividere e segmentare per poter individuare categorie su cui esercitare dosi ulteriori di sfruttamento, approfittando di un retaggio culturale maschilista e retrogrado che risulta particolarmente propizio allo scopo.

Coniare Rivolta

Coniare Rivolta

Collettivo di economisti 

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