Quando Matteo Renzi dice "non farò mai un governo con la destra", conoscendo le sue abitudini si può dire che stia enunciando un programma esattamente opposto. Così era stato per "non andrò mai al governo senza passare per elezioni" e così era stato per "Letta può stare sereno".
Specifica che sta parlando di una destra aggettivata, "populista", il che fa intendere che diverso è il discorso per una destra più o meno "moderata".
Qui viene al pettine un antico nodo irrisolto della sua discesa in campo di quasi un ventennio fa (il 18 febbraio 2002 da segretario della Margherita ritirava i suoi assessori dal governo del Comune di Firenze). Intendiamoci: lui ha scalato la sinistra unicamente perché era nato in Toscana, fosse nato in Lombardia avrebbe scalato Forza Italia. E tutta la sua strategia vittoriosa si basava sulla promessa di uno "sfondamento" a destra, amichevole o conflittuale che fosse. Fin dall'inizio Denis Verdini era stato suo socio in politica e in affari, e il Foglio aveva preso a definirlo il "golden baby", la definizione che nel Regno Unito si dà per l'erede al trono appena nato.
Qui c'è stato un grosso fallimento strategico: Renzi non ha mai sfondato a destra e non è mai riuscito a vincere la diffidenza di quell'elettorato per chi si presentava come leader di una "sinistra" sia pure stravolta e rovesciata nei suoi presupposti storici.
Diverso sarebbe il discorso se si ripresentasse ora con lo scalpo dell'ultimo governo possibile di centro-sinistra e col proposito di federare il "centro" di un possibile e rinnovato centro-destra.
Questa sembra essere l'unica prospettiva che gli è rimasta, una volta rotti i ponti alle sue spalle, per uscire dal fallimento di una scissione che lo ha inchiodato, contrariamente alle sue previsioni, in dimensioni totalmente irrilevanti e tali da rendere impossibile la sua sopravvivenza nel quadro politico attuale.