Operazione Spade di Ferro. Le ragioni del “riorientamento” israeliano

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Operazione Spade di Ferro. Le ragioni del “riorientamento” israeliano

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di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Lo scorso 15 gennaio, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha annunciato che la fase bellica a maggiore intensità prevista dall’Operazione Spade di Ferro era ormai prossima a concludersi, sia nelle aree settentrionali della Striscia di Gaza che presso Khan Younis. Contestualmente, migliaia di truppe inquadrate nell’Israeli Defense Force sono state ritirate dalla Striscia, per ragioni che il «Wall Street Journal» rintraccia nella crescente esigenza del governo di Tel Aviv di venire incontro alle richieste statunitensi per quanto concerne l’adozione di un approccio maggiormente “chirurgico” al conflitto.

L’esecutivo israeliano necessita di preservare l’appoggio sostanzialmente incondizionato garantito finora dagli Stati Uniti, sia per assicurarsi la continuità delle forniture militari senza le quali l’Operazione Spade di Ferro verrebbe interrotta da un giorno all’altro, sia in un’ottica di “regolamento dei conti” con l’Asse della Resistenza. Verso cui Netanyahu e i suoi collaboratori stanno puntando in maniera piuttosto evidente, come si evince dai quattro raid arei perpetrati in Siria e Libano culminati con l’assassinio dell’alto ufficiale dei Pasdaran Razi Mousavi; dell’esponente di punta di Hamas Saleh al-Arouri, di Wissam Tawil, vertice di uno dei corpi d’élite inquadrati in Hezbollah; di cinque ufficiali delle forze al-Quds iraniane.

Dal punto di vista statunitense, tuttavia, lo spalleggiamento sine die a una campagna militare apertamente bollata come genocida da un documento sudafricano attualmente al vaglio del Tribunale Penale Internazionale comporta tuttavia un gigantesco danno reputazionale. Talmente grave da spingere Biden, stando a un’indiscrezione riportata giorni fa dal sempre ben informato Barak Ravid, ad esaurire la pazienza nei confronti di Netanyahu.

In realtà, il cambio di registro proclamato da Gallant potrebbe rispondere a due motivazioni supplementari e parimenti rilevanti rispetto a quella indicata dal «Wall Street Journal».

Il ritiro di migliaia di soldati dalla Striscia di Gaza può preludere o a uno spostamento di forze verso il confine settentrionale, dove vanno intensificandosi gli scontri con Hezbollah, o al ritorno dei riservisti alle loro mansioni ordinarie, rientranti in larga parte nel trainante settore dell’alta tecnologia. Il reintegro della forza lavoro porrà l’economia israeliana nelle condizioni di ammortizzare i costi giganteschi della guerra, che Zvi Eckstein, ex vicegovernatore della Bank of Israel ed economista presso l’Università di Reichman, ha stimato in circa 220 milioni di dollari al giorno. Secondo i suoi calcoli, l’impatto del conflitto sul bilancio pubblico – compresa la contrazione delle entrate fiscali – è quantificabile in 19 miliardi di dollari per il quarto trimestre del 2023, e ammonterà presumibilmente a 20 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2024, a condizione che le ostilità non si espandano al Libano. Le previsioni di crescita formulate per il 2024 dalla Bank of Israel sono state riviste da un +3 a un +1%, mentre alcuni economisti indipendenti vaticinano una recessione.

D’altro canto, «Israele non sta compiendo passi sostanziali verso una vittoria decisiva, e riscontrerà difficoltà crescenti a conseguirla in futuro alla luce delle circostanze venutesi a creare», scrive Hamos Arel sul quotidiano israeliano «Haaretz». Secondo il Ministero della Difesa israeliano, il bilancio dei feriti israeliani inquadrati nelle forze armate e di polizia ammontava all’11 gennaio a 6.000 unità, di cui più di 2.000 resi disabili in via permanente. Il «Jerusalem Post» ha parlato di «numeri terrificanti», e riportato che già a novembre del 2023, ad appena un mese di distanza dall’inizio delle operazioni militari, il Ministero della Sanità israeliano aveva messo la Knesset al corrente dell’impreparazione delle strutture ospedaliere a gestire un numero di feriti tanto imponente. Edan Kleinman, presidente dell’organizzazione no-profit israeliana Disabled Veterans, ha dichiarato lo scorso dicembre di non aver mai assistito a una disastro di simili dimensioni, e stimato che il numero delle vittime in seno alle forze israeliane avrebbe di lì a poco sfondato la soglia delle 20.000 unità, se si includono nel compito i soldati afflitti da disturbo post-traumatico da stress.

Difficile quindi accordare attendibilità alle raccomandazioni di Netanyahu, secondo cui il conflitto si protrarrà «fino alla vittoria totale» per molti mesi ancora. Specialmente alla luce delle clamorose esternazioni pronunciate urbi et orbi da Gabi Eizenkot, ex Capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano, esponente di spicco dell’opposizione centrista assieme a Benny Gantz e membro del gabinetto di guerra che nell’Operazione Spade di Ferro ha perso un figlio e un nipote. Nel corso di una intervista rilasciata all’emittente televisiva israeliana «Channel-12», Eizenkot ha dichiarato che «la nostra missione consiste, prima che nell’uccidere il nemico, nel salvare gli ostaggi», la cui liberazione può essere realizzata soltanto attraverso un accordo con Hamas anche a prezzo di una sospensione delle operazioni militari. Chi sostiene altro, ha concluso Eizenkot, «sta vendendo fantasie all’opinione pubblica». Una chiara allusione non soltanto a Netanyahu, ma anche a Gallant, identificati dal «Times of Israel» come i capifila della fazione incline a intravedere nella prosecuzione dei bombardamenti a tappeto accompagnati dall’invasione terrestre della Striscia di Gaza l’opzione maggiormente funzionale al rilascio degli ostaggi. Giudizio quantomeno discutibile, dal momento che la liberazione dei civili israeliani catturati da Hamas è stata sino ad ora ottenuta soltanto sulla base di accordi raggiunti con la controparte islamista.

La pressione militare, viceversa, ha condotto a risultati di segno opposto, come testimoniato dai tre civili uccisi dal “fuoco amico” dopo esser sfuggiti autonomamente al controllo dei propri sequestratori e da una recente denuncia della cittadina israeliana Maayan Sherman, il cui figlio – soldato dell’Israeli Defense Forces catturato da Hamas – sarebbe morto per asfissia causata dall’inalazione di gas tossici che l’esercito israeliano aveva diffuso nei cunicoli sotterranei di Gaza. Secondo Hamas, altri due ostaggi sarebbero morti per effetto diretto dei bombardamenti israeliani. Si tratta di un’accusa da prendere cum grano salis in quanto mossa da una fonte tutt’altro che imparziale, ma dal contenuto indubbiamente verosimile. Quella fondata sulla devastazione totale della Striscia di Gaza rappresenta oggettivamente una linea d’azione molto più conforme al famigerato Protocollo Annibale, piuttosto che strumentale alla liberazione degli ostaggi o anche al “disinnesco” di Hamas. «Chi parla di sconfitta totale di Hamas non dice la verità», ha aggiunto Eizenkot nel corso dell’intervista, avvalorando la tesi avanzata da numerosi osservatori e rilanciata recentemente dall’analista strategico Yossi Melman, secondo cui Netanyahu avrebbe riposto tutte le proprie speranze di sopravvivenza politica sul prolungamento, l’intensificazione e l’allargamento del conflitto. L’annessione previo “svuotamento” della Striscia di Gaza, combinata a un sostanziale ridimensionamento dell’Asse della Resistenza, a suo avviso conseguibile attraverso il coinvolgimento degli Stati Uniti, delineerebbe un successo strategico talmente decisivo da estinguere qualsiasi responsabilità politica – ed anche legale.

Il che rimanda a un altro punto nevralgico toccato da Eizenkot, che l’11 ottobre del 2023, ad appena quattro giorni di distanza dall’Operazione Diluvio al-Aqsa, avrebbe persuaso Netanyahu dallo sferrare un attacco preventivo contro Hezbollah, presentandoglielo assieme a Benny Gantz alla stregua di un «grave errore strategico».

La decisione di Eizenkot di uscire allo scoperto, con rivelazioni così pesanti nei confronti dell’attuale primo ministro israeliano, palesa la profondità delle fratture interne all’establishment israeliano, lacerato da  scontri durissimi in merito alla linea operativa da adottare che avrebbero addirittura indotto Netanyahu dapprima a ordinare la perquisizione del Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi per accertare che non indossasse registratori nascosti, e successivamente a richiedere la sottoposizione alla macchina della verità dei partecipanti alle riunioni del gabinetto di guerra.

La stessa fazione “oltranzista” del governo risulterebbe spaccata, con Gallant che ha ripetutamente preso le distanze dal premier con il chiaro intento di sgomberare la via che conduce alla direzione del Likud, e Netanyahu che si mantiene in linea di galleggiamento grazie al sostegno delle forze estremiste orientate verso la pulizia etnica della Striscia di Gaza e della Cisgiordania.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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