Paolo Maddalena - Il disastro economico dell'Italia e la proprietà pubblica del popolo

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Paolo Maddalena - Il disastro economico dell'Italia e la proprietà pubblica del popolo

 

La disastrosa situazione economica italiana, che si verifica in un contesto geopolitico internazionale tutt’altro che rassicurante, e, per giunta, sotto la guida di un governo inetto e incapace, che è arrivato al punto di proporre una modifica della Costituzione che avvantaggia i ricchi e impoverisce i poveri distruggendo alla radice la nostra democrazia, impone allo studioso del diritto di mettere sotto gli occhi di tutti la “grandiosità” della vigente Costituzione repubblicana e democratica e far notare come soltanto la sua convinta attuazione, specialmente per quanto concerne i “principi e diritti fondamentali” in tema di “rapporti economici”, può salvarci dall’incombente stato di una irreversibile rovina.

In proposito occorre innanzitutto ricordare che la Costituzione italiana costituisce il punto di “approdo” di un lungo percorso di idee, che, nate durante il secolo dei Lumi, hanno trovato la loro prima attuazione con la rivoluzione francese, che determinò il trionfo dei principi di “libertà, eguaglianza e solidarietà”, “rompendo” definitivamente con l’Ancien Regime, fondato sulla superata idea secondo la quale “il diritto discende dall’alto”. E si deve sottolineare al riguardo che, se si guarda alle prime “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, si scopre agevolmente che nella affermazione della “naturalità” dei “diritti dell’uomo” è già insita la consapevolezza che spetta al Popolo anche il “potere costituente”, il potere cioè di “darsi” esso stesso una propria Costituzione. Ne è prova inconfutabile l’art. 25 della Costituzione del 1793, nel quale si sancisce che “la sovranità risiede nel Popolo”. Ed è importante ricordare in proposito che il cammino per l’attuazione di quelle idee passò attraverso il grave problema dei “rapporti tra datori di lavoro e lavoratori”, un tema che fu affrontato innanzitutto dall’Enciclica “Rerum Novarum”, di Leone XIII, emanata il 15 maggio 1891, poi dall’Enciclica di Pio IX “Quadragesimo anno”, del 15 maggio 1931 (la quale precisò che la “naturalità” del “diritto di proprietà privata” “discende dal fatto che essa “favorisce il legittimo, libero sviluppo, umano e spirituale, della persona”), e infine dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, firmata, in sede ONU, a Parigi il 10 dicembre 1948 (nella quale, molto opportunamente, si precisò, all’art. 17, che “ogni individuo ha diritto ad avere una proprietà sua, personale o in comune con gli altri”).

Si tratta, tuttavia di dichiarazioni che tentano di risolvere il problema in chiave “interindividuale” e non mediante una modifica del “sistema economico”. Tuttavia, non può non essere ricordato che un validissimo contributo in questa direzione fu dato dalla Costituzione della Repubblica di Weimar del 1919, la quale, all’art. 153, affermò che “la proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune”.

Tuttavia, la reale emersione del “Potere costituente” del Popolo, con la conseguente realizzazione di un “ordine costituito”, che risolvesse il menzionato conflitto tra datori di lavoro e lavoratori, si ebbe soltanto con l’avvento dalla nostra Costituzione repubblicana, data a Roma il 27 dicembre 1947 e entrata in vigore il 1 gennaio 1948, la quale, all’art. 1, comma 1, afferma che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e, al secondo comma, che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. E’ un inizio molto eloquente che fa subito capire che non si tratta di dichiarazioni astratte, ma della realizzazione concreta delle sopra descritte idee di libertà ed eguaglianza. Una realizzazione che peraltro diventa possibile con la “fondazione” di una “nuova forma di Stato”, che non ha nulla a che vedere con lo “Stato persona giuridica”, Ente astratto, dei precedenti regimi, ma si sostanzia in una vera e propria “Comunità politica”, in altri termini, uno “Stato comunità”.

E non può sfuggire che fu proprio l’aspirazione, consapevole o inconsapevole, alla realizzazione di una Comunità fondata sulla “solidarietà” e sulla “eguaglianza economica e sociale”, allora diffusa nel Popolo italiano, che ispirò il Popolo stesso a porsi come “potere costituente” per la creazione di una nuova Costituzione. Un Popolo che, dopo aver subito l’autoritarismo del Regime fascista e dopo aver sopportato le pesanti sofferenze inflitte dalla seconda guerra mondiale, con le elezioni a suffragio universale del 2 e 3 giugno 1946 (indette a seguito del decreto luogotenenziale di Umberto II di Savoia, del 16 marzo 1946), ebbe il merito di aver saputo eleggere come membri dall’Assemblea Costituente, intellettuali di prima grandezza, i quali, peraltro, avevano fatte proprie, non solo le idee di “libertà, eguaglianza e solidarietà”, ispiratrici della rivoluzione francese, ma anche le preziose idee sul valore della “persona umana”, che erano state portate avanti da straordinari studiosi come Maritain e Mounier. Ed è da sottolineare che i Padri costituenti si rifecero a quelle idee, non come a “idee personali” dei membri dell’Assemblea, il che avrebbe fatto pensare a idee imposte dall’Autorità, come poi avvenne per la Costituzione francese del 1958 voluta da Charles De Gaulle, ma come idee “preesistenti” al Potere costituente, in quanto profondamente radicate nella “natura” dell’uomo. E fu per questo che la scrittura nel testo costituzionale dei vari “principi e diritti fondamentali” comincia sempre con le parole “la Repubblica riconosce e garantisce”.

Geniale fu la scelta dei nostri Costituenti di far ricorso al pregnante concetto della “Comunità politica”, già sperimentato sul piano delle cosiddette “Comunità intermedie”, secondo gli insegnamenti di Santi Romano, elevandolo al superiore livello della “Comunità nazionale”. Si trattò di una scelta di fondamentale importanza, poiché consentì di inserire in Costituzione, oltre ai “principi e ai diritti fondamentali” astrattamente riguardanti “i diritti fondamentali dell’uomo”, anche, e in particolare, i “principi e i diritti fondamentali” che riguardavano “i rapporti economici” (Titolo III, della Parte Prima). Infatti nel concetto di “Comunità”, come dimostra, ad esempio, la fondazione di Roma, e la struttura delle citate “comunità intermedie”, confluiscono tre elementi: il “Popolo”, e cioè un “aggregato umano”, il “territorio”, e cioè uno “spazio di terra” delimitato da confini, e la “sovranità”, cioè un ordinamento giuridico, necessario per assicurare una ordinata vita civile.

Si tratta di concetti strettamente legati fra loro, per cui è impossibile parlare di Popolo o di territorio senza parlare anche della sovranità e del titolare di questa. Ed è appena il caso di ricordare che la precisa volontà dei Costituenti di dar vita a una “Comunità politica” di questo tipo risulta con estrema chiarezza, oltre che dall’impianto complessivo dell’”Ordinamento della Repubblica”, anche, in particolare: dal riferimento dell’art. 2 Cost. alle “formazioni sociali”, ove si svolge la “personalità” dell’individuo (considerato che, al giorno d’oggi, la “formazione sociale” in parola, come molti autori sottolineano, non può non identificarsi nella “Comunità nazionale”); dal riferimento dell’art. 3 Cost. al “diritto fondamentale” di “partecipazione” di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese; dal riferimento dell’art. 49 Cost. al “diritto fondamentale” di ogni cittadino ad “associarsi liberamente in partiti”, per concorrere a determinare la “politica nazionale”; dal riferimento dell’art. 118, comma 4, Cost. alla possibilità dei “cittadini, singoli o associati, di svolgere “attività di interesse generale, sulla base del principio di solidarietà”.

Come agevolmente si nota, risulta evidente che, nella delineata prospettazione, viene in primaria evidenza il rapporto tra “Popolo” e “territorio”, e cioè tra il mondo delle persone e il mondo delle cose. Ricorda a tal proposito Carl Schmitt che si tratta di “un primordiale rapporto” che nasce “all’atto stesso del venire in essere della Comunità politica”, ed “è insito nel concetto stesso di sovranità”. Ciò significa, tra l’altro, che, diversamente da quanto comunemente si ritiene, la “proprietà comune, o collettiva, che dir si voglia” è “originaria” e “illimitata”, a differenza della “proprietà privata”, come meglio si vedrà in seguito.

In questa visuale brilla di luce particolare l’articolo 42 della Costituzione, secondo il quale: “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, a Enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. L’importanza di questa disposizione fu immediatamente colta, all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, dal grande amministrativista Massimo Severo Giannini, il quale, aderendo in fondo alla teoria istituzionistica del diritto di Santi Romano, subito capì che il riferimento alla “proprietà pubblica” era da intendersi come un riferimento alla “proprietà collettiva demaniale” del Popolo”, ovviamente considerando quest’ultimo come una “Comunità politica”, nella quale la tutela dei “diritti inviolabili dell’uomo”, non poteva non accompagnarsi alla tutela dei mezzi di sostentamento della Comunità medesima.

E non sfugga, a questo punto, che il Giannini ha parlato (in piena consonanza con una larghissima dottrina) non solo di “proprietà collettiva”, ma anche di “proprietà demaniale”, e quindi di “demanio”. Insomma, la “proprietà pubblica”, citata dall’articolo 42 della Costituzione, si riferisce al “demanio”, che nasce con la costituzione della Comunità politica e si identifica con quella parte del “territorio”, che ”ab origine”, è “riservata” alla fruizione, all’uso e al godimento diretto dell’intero popolo, così assicurando una, almeno tendenziale, “eguaglianza economico sociale”. Molto chiarificatrici appaiono al riguardo le parole del Meucci, scritte peraltro sotto il vigore dello Statuto albertino, le quali precisano che “titolare del demanio è sì lo Stato, ma non lo Stato persona giuridica, bensì lo Stato come Popolo, rammentando che “il soggetto vero sono i primi associati”. “Essi possono dir sempre a rigore di verità: questa terra è nostra”. E la conferma dottrinaria dopo l’avvento della Costituzione viene da Sabino Cassese, il quale, criticando il Ranelletti, afferma: “se è la collettività a usare necessariamente il bene, se cioè solo la collettività può usarlo e nessun altro; e se, d’altra parte, i fini che l’ente deve realizzare sono della collettività, non si vede perché si debba fare un giro logico inutile; in realtà la collettività gode direttamente del bene soddisfacendo così i suoi bisogni senza che l’ente che la rappresenta debba affermare un diritto di proprietà sui beni, diritto che si risolverebbe nella necessaria destinazione all’uso da parte della collettività”.

Ed è da sottolineare che la profondità di significato della “proprietà pubblica demaniale” si manifesta anche nel fatto che, a termine dell’art. 42 Cost. in esame, la “proprietà privata” è “riconosciuta e garantita dalla legge”, non in modo “illimitato”, ma con quei “limiti” atti ad “assicurare” il perseguimento della “funzione sociale” del bene ceduto. In altri termini è il Popolo sovrano che, mediante l’opera dei suoi rappresentanti parlamentari (la legge) “cede” parte del suo patrimonio pubblico (il territorio), trattenendo nella propria ”proprietà pubblica demaniale” quelle “utilità pubbliche” che la cosa esprime, peraltro imponendo al proprietario privato “l’obbligo” (“la proprietà obbliga”, sanciva l’art. 153 della Costituzione di Weimar) di “assicurare” l’utilizzazione del bene, non solo a fini individuali, ma anche a fini sociali (come a suo tempo previsto dall’Enciclica “Quadragesimo anno”). Con l’inespressa, ma necessaria conseguenza che il mancato perseguimento di questa funzione rende inesistente il diritto di proprietà privata. Il che significa, ma questo è un altro discorso, che i beni “abbandonati” tornano là da dove erano venuti, e cioè nella “proprietà pubblica” del popolo sovrano. E non si può non ricordare in proposito che l’art. 827 del vigente codice civile sancisce che “i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”.

A questo punto, sembra importante precisare che l’espressione “limiti alla proprietà privata” è impropria, perché presuppone una “originarietà” della proprietà privata, propria della cultura borghese, mentre “originaria”, come si è visto, è la “proprietà collettiva demaniale”, o “pubblica” che dir si voglia. Di conseguenza si deve ritenere che la parola “limiti” sta per indicare la “permanenza” sulla “proprietà privata” di poteri propri della “proprietà pubblica”.

E, a questo proposito, non resta che porre in luce la differenza sostanziale che corre tra il “demanio” previsto dal vigente codice civile e il “demanio” sancito dalla Costituzione. Nel primo caso si tratta di beni che il legislatore elenca “tassativamente”, per assicurare l’utilizzazione pubblica del bene, del quale ne decreta la “inalienabilità, inusucapibilità e la inespropriabilità”; nel secondo caso, si tratta di “individuare, con una fine operazione “ermeneutica”, quali beni debbano considerarsi “originariamente costitutivi” della nascita e del funzionamento della Comunità politica. Insomma, la Costituzione rimette all’interprete del diritto (che in ultima analisi è la Corte costituzionale) la definizione di quello che possiamo denominare il “demanio costituzionale”. E in proposito si può affermare che alcuni beni o servizi da ritenere “demaniali” sono chiaramente indicati in Costituzione. Si pensi all’art. 9 Cost., che parla della tutela del “paesaggio, del patrimonio storico e artistico della Nazione, dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi”, oppure all’art. 43 Cost., secondo il quale dovrebbero essere in mano pubblica o di comunità di lavoratori o di utenti: “i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia, le situazioni di monopolio”.

E c’è un ultimo aspetto da precisare a proposito della “proprietà collettiva demaniale”: il fatto che si tratta, non solo di una proprietà “non cedibile a terzi”, poiché ciò che è di tutti non può essere dato a un singolo, ma anche “non comprimibile”, poiché, trattandosi di una “proprietà sancita come “piena”, è inammissibile che si “ceda” a terzi la sua “gestione”, con i relativi “profitti”.
Dunque, non può essere dubbio che la “gestione” dei beni in “proprietà collettiva demaniale” deve essere affidata soltanto alla “pubblica Amministrazione”, tenuto conto del fatto che è soltanto questa che, come “organo” dello Stato comunità, può garantire la tutela dell’interesse pubblico.

Dopo quanto detto, dovrebbe apparire evidente che si deve proprio alla concentrazione della ricchezza nazionale nella “proprietà collettiva demaniale” del Popolo, se l’Italia è riuscita a realizzare il cosiddetto “miracolo economico” degli anni sessanta, diventando, negli anni ’80, mediante l’attività svolta dalle proprie Aziende pubbliche (entità giuridiche “fuori mercato” e “sottratte al fallimento”), la “terza” potenza economica industriale d’Europa e la “quinta” del mondo.

Purtroppo questo meraviglioso impianto costituzionale è stato messo fuori gioco dall’imperversare di un sistema economico, detto “neoliberista”, fondato non più sulla “solidarietà”, come il precedente sistema Keynesiano, ma sul più bieco “egoismo”, al punto da far affermare al suo maggiore sostenitore, Milton Friedman, della Scuola economica di Chicago, che l’economia non è più “una economia dello scambio, ma una economia della concorrenza”, in virtù della quale il più forte annienta il più debole e non pensa più a “produrre”, ma ad “accaparrarsi” la “ricchezza” esistente. La sua “ricetta”, come è noto, prescrive la “liberalizzazione” e la “privatizzazione” dei beni e dei servizi in proprietà pubblica dello Stato, nonché la “riduzione delle spese sociali”. Ricetta puntualmente eseguita dai nostri politici, che, con le loro “liberalizzazioni e privatizzazioni” hanno distrutto l’intero patrimonio pubblico italiano, e hanno consentito che divenisse “merce” il “lavoro”, cioè il “fondamento della Repubblica” (art. 1 Cost.)

In questo completo disastro, il governo Meloni ha avuto persino l’ardire di proporre una modifica della Costituzione, che renderebbe inoperanti “i principi e i diritti fondamentali”, senza tener presente che l’istituto della “revisione costituzionale” è stato creato dal Potere costituente, per rendere costantemente operativa la Costituzione, adattandola alle mutevoli esigenze dei tempi, e non per stroncare la sua effettività. E non sfugga che è assurdo pensare che una revisione costituzionale votata da una maggioranza del tutto fittizia possa radicalmente cambiare una Costituzione che, a suo tempo, riportò 453 voti a favore e 62 contrari.

Viceversa è proprio dall’attuazione della vigente “costituzione economica”, e quindi dalla ricostruzione del nostro “demanio costituzionale”, e cioè delle nostre “fonti di produzione della ricchezza nazionale”, che può arrivare la nostra salvezza. Per superare questa crisi, abbiamo bisogno: che rientrino nella “proprietà collettiva demaniale” le nostre industrie strategiche; che tornino a essere “Aziende di Stato” tutte quelle imprese trasformate in SPA e svendute alle multinazionali straniere; che il principio economico della “concorrenza” (introdotto in Costituzione dalla revisione del Titolo V) sia dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale per insanabile contrasto con il prevalente “principio fondamentale” della “solidarietà” (art. 2 Cost.); che non si parli più di “minimo salariale”, ma di una retribuzione che sia “sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.); che tornino a prevalere, nel mondo del lavoro, i principi della “cooperazione” (art. 45 Cost.) e di “collaborazione alla gestione delle aziende” (art. 46 Cost.); che il sistema economico italiano torni ad essere una “economia mista”, in modo che non esista una economia soltanto privata, che riduce il lavoro a merce, ma una economia pubblica e privata, “che possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (art. 41, comma 3, Cost.).

A tali fini è indispensabile una forte campagna di “nazionalizzazione” delle “industrie strategiche, dei servizi pubblici essenziali e delle fonti di energia” (art. 43 Cost.). Mentre è da tener presente al riguardo che nulla si oppone a far valere quello che il Dossetti (membro dell’Assemblea costituente) denominò il “diritto di difesa” del cittadino nei confronti dei suoi rappresentanti, e cioè la possibilità di adire, con ricorso in via indiretta, la Corte costituzionale, per ottenere l’annullamento di quelle insane leggi sulle liberalizzazioni e sulle privatizzazione, sulla base degli articoli: 118, comma 4, Cost.; 2 Cost.; 3, comma 2, Cost., i quali, in conformità alla struttura della “Comunità politica”, fanno rivivere l’antica “actio popularis”.

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