Perché ha vinto Trump

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Perché ha vinto Trump

 

di Michele Blanco

 

I problemi nella società statunitense non sono iniziati con Trump. La sua rielezione è stata un sintomo del logorio dei legami sociali e di una difficile situazione democratica.

Nella società statunitense il divario tra vincitori ricchi e perdenti poveri nella società si è allargato negli ultimi decenni, con il risultato di avvelenare la vita politica e creare divisioni. A partire dagli anni Ottanta e Novanta, le élite governative hanno portato avanti un progetto di globalizzazione neoliberale che ha comportato un guadagno enorme per chi sta ai vertici, ma la perdita di posti di lavoro e salari bloccati per la stragrande maggioranza dei lavoratori. I sostenitori del neoliberismo farneticarono che i guadagni dei superricchi potevano essere utilizzati per risarcire i perdenti della globalizzazione. Il “risarcimento”, però, non è mai arrivato. I ricchissimi hanno usato il proprio patrimonio per comprare influenze e consolidare le proprie ricchezze. Il governo ha cessato di fare da contrappeso alla concentrazione del potere economico. Democratici e repubblicani si sono uniti nel deregolamentare Wall Street, raccogliendo una quota considerevole di contributi per le campagne elettorali. Quando la crisi finanziaria del 2008 ha portato il sistema sull’orlo del baratro, hanno speso miliardi solo per salvare le banche con i fondi pubblici mentre hanno lasciato i comuni cittadini nella miseria.

La rabbia per il salvataggio delle banche con i fondi pubblici e la delocalizzazione dei posti di lavoro in Paesi dai bassi salari ha alimentato la protesta lungo l’intero spettro politico: a sinistra, il movimento Occupy e la sfida sorprendentemente forte di Bernie Sanders a Hillary Clinton nel 2016; a destra, il movimento del Tea Party e le due elezioni di Trump.

Alcuni dei sostenitori di Trump sono stati attratti dai suoi appelli razzisti, il quale ha sfruttato soprattutto la rabbia diffusa nell’intera società. Quattro decenni di governo neoliberale hanno portato a disuguaglianze di reddito e di ricchezza che non si vedevano dagli anni Venti del secolo scorso. La mobilità sociale si è totalmente bloccata. Sotto le crescenti pressioni delle imprese, soprattutto finanziarie, e dei loro alleati politici, i sindacati sono andati in declino. La produttività è enormemente aumentata, ma i lavoratori hanno ricevuto una quota sempre più piccola di ciò che producevano. La finanza ha rivendicato una quota crescente dei profitti aziendali, ma ha investito sempre meno in nuove imprese produttive e sempre più in attività speculative, che hanno aiutato poco l’economia reale. Anziché affrontare direttamente la disuguaglianza e i salari bloccati, i partiti mainstream hanno invitato i lavoratori alla competizione non alla solidarietà.

Nel primo mandato Trump non ha fatto nulla per i lavoratori che lo hanno sostenuto, ma il suo blaterare contro le élite e contro il loro progetto di globalizzazione ha toccato le corde giuste anche in questa campagna elettorale. La sua promessa di costruire un muro lungo il confine con il Messico, e di farlo pagare al Messico, è un caso esemplare. I suoi sostenitori hanno reagito con entusiasmo a tale promessa non soltanto perché credevano che avrebbe ridotto il numero di immigrati che si ponevano in competizione con loro per i posti di lavoro con bassi salari. La retorica del muro rappresenta purtroppo qualcosa di più grande: la riaffermazione della sovranità perduta e dell’orgoglio nazionale. In un’epoca in cui le forze economiche globali ostacolano l’affermazione del potere e della volontà dei cittadini, in cui le identità multiculturali e cosmopolite complicano le idee tradizionali di patriottismo e appartenenza, il muro di confine avrebbe “reso di nuovo grande “l’America”. Avrebbe riaffermato le certezze messe in dubbio dai confini porosi e dalle identità fluide dell’era globale.

È probabile che la politica contemporanea, nella misura in cui mette in discussione gli Stati sovrani e le sovranità in sé, susciti le reazioni di quanti vorrebbero rigettare l’ambiguità, rafforzare i confini, irrigidire la distinzione tra inclusi ed esclusi e promettere una politica per “riprenderci la nostra cultura e riprenderci il nostro Paese”, per “ripristinare la nostra sovranità”.

Le rimostranze che hanno portato alla rielezione di Trump sono lo scontento, istigato da pandemia, iper-faziosità, ingiustizia sociale, tossicità delle comunicazioni dei media e dei social media.

Il nuovo approccio alla gestione dell’attività economica ha aumentato le disuguaglianze, ha eroso inesorabilmente la stessa dignità del lavoro e ha svalutato l’identità nazionale. Per i vincitori, la linea di divisione politica che importava non era più tra sinistra e destra, ma tra apertura e chiusura ai mercati. Quanti mettevano in discussione gli accordi sul libero scambio, la delocalizzazione dei posti di lavoro in Paesi dai bassi salari e il flusso di capitali senza restrizioni attraverso i confini nazionali, vengono, additati come persone dalla mentalità chiusa, come se l’opposizione alla globalizzazione neoliberale fosse equiparabile a una qualche forma di intolleranza.

Nel 2016, il voto della Gran Bretagna per l’uscita dall’Unione Europea è stato uno choc per le élite mondiali, così come la prima elezione di Trump alcuni mesi dopo. La Brexit e il muro di confine rappresentano, per molti esclusi, la reazione contro una modalità di governo tecnocratico guidato dal mercato che aveva prodotto la perdita di posti di lavoro, i salari bloccati, l’aumento delle disuguaglianze e la sensazione irritante provata dai lavoratori nel sentirsi sempre guardati dall’alto in basso dalle élite. I voti a favore della Brexit e di Trump sono stati un tentativo, dettato dall’ angoscia, di riaffermare la sovranità e l’orgoglio nazionali.

In un mondo dove il sistema del capitalismo globale è truccato a favore delle grandi aziende e dei ricchi, le ansie per la perdita del senso di comunità hanno lasciato il posto alla polarizzazione e alla diffidenza. L? autogoverno richiede che le istituzioni politiche mantengano il potere economico in mani democratiche. Richiede inoltre che i cittadini si identifichino in modo significativo gli uni negli altri affinché si possano impegnare in un progetto comune. Oggi queste condizioni sono messe costantemente in forte dubbio.

Negli Stati Uniti i contributi alle campagne elettorali e gli eserciti di lobbisti permettono alle aziende e ai ricchi di piegare le regole e le leggi a loro favore. Poche e potenti aziende dominano i comparti delle big tech, dei social media, della ricerca su Internet, della vendita al dettaglio online, delle telecomunicazioni, delle banche, dei prodotti farmaceutici e altri settori chiave, distruggendo la concorrenza, facendo innalzare i prezzi, aumentando le disuguaglianze e sfidando, sempre più, il controllo democratico.

Nel frattempo, la società statunitense è sempre più profondamente divisa. Infuriano le guerre culturali su come affrontare l’ingiustizia razziale, su cosa fare riguardo all’immigrazione, alla violenza delle armi, al cambiamento climatico e al flusso di disinformazione che, amplificata dai social media, inquina inesorabilmente la sfera pubblica. I residenti degli Stati democratici e degli Stati repubblicani, dei centri metropolitani e delle comunità rurali, quelli con e senza un diploma di laurea al college, vivono vite, sempre più, separate.

Per rivitalizzare la democrazia e la partecipazione dei cittadini potrebbe essere importante fare in modo che il sistema economico sia controllato da una politica democratica di redistribuzione dei profitti, attraverso giusti salari con adeguati servizi sociali, l’assistenza sanitaria garantita e una adeguata istruzione di qualità per tutti.

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