Perché la "dollarizzazione" di Milei non può fare a meno della Cina
di Michelangelo Cocco - Centro studi Cina contemporanea
Buongiorno da Shanghai.
Dopo la vittoria nel ballottaggio di domenica, Javier Milei si insedierà nella Casa Rosada il 10 dicembre, diventando ufficialmente presidente della Repubblica Argentina. L’ascesa al potere del populista ultra-liberista pone alla leadership di Pechino due sfide, una nel medio periodo, l’altra immediata. Per quanto riguarda la prima - in attesa del voto nel 2024 in Messico e Venezuela - c’è il timore che possa esaurirsi la “marea rosa”, il ciclo di governi di centrosinistra, fautori di una politica estera molto aperta alla cooperazione con la Cina. Sull’impatto che il nuovo governo di Buenos Aires avrà invece sul rapporto bilaterale Cina-Argentina, c’è grande incertezza, legata alla imprevedibilità del personaggio Milei, e alla quantità di variabili (economiche, politiche, geopolitiche) in gioco.
In campagna elettorale Milei ha promesso: «Non farò affari con paesi comunisti» e ha detto di voler tagliare le relazioni con la Cina in favore di quelle «con il mondo civilizzato», che il cinquantatreenne economista identifica soprattutto con gli Stati Uniti. A urne ancora calde, Diana Mondino, la sua consigliera in predicato di diventare ministra degli esteri, ha annunciato che l’Argentina rinuncerà a entrare nei Brics guidati da Cina e Russia, ai quali avrebbe dovuto aderire il 1° gennaio prossimo, dopo l’allargamento a sei novi paesi deliberato dal vertice di Johannesburg del 24 agosto scorso. Pechino ha minimizzato questa mossa, sottolineando che quella dei Brics (un forum informale) è «una famiglia aperta a chi voglia farne parte».
Per quanto riguarda invece la relazione bilaterale, la portavoce del ministero degli esteri, Mao Ning, ha dichiarato che «c’è un consenso ampiamente condiviso tra le persone di tutto lo spettro sociale di entrambi i paesi per far crescere ulteriormente le relazioni Cina-Argentina, che hanno portato benefici tangibili a entrambi i popoli».
La Cina è il secondo partner commerciale dell’Argentina (dopo il Brasile). Nel 2022, l’Argentina ha importato dalla Cina beni per 17,5 miliardi di dollari, e ne ha esportati per 7,9 miliardi di dollari. Per la Cina il paese sudamericano è un importante fornitore di materie prime alimentari, soprattutto semi di soia, sorgo, orzo e carne bovina, prodotti di uno dei settori più importanti dell’economia argentina.
Per quanto possa sembrare assurdo e, nonostante le implicazioni sulla sovranità argentina, Milei andrà avanti con il suo piano di dollarizzazione del paese, ovvero di (graduale) sostituzione del peso con il dollaro e la relativa abolizione della banca centrale: è per questo che ha ottenuto il mandato dagli elettori.
Cosa ne sarà del meccanismo di cambio tra la banca centrale argentina e quella cinese? Lo sviluppo più probabile è che Milei non possa rinunciarvi, perché la dollarizzazione non avverrà da un giorno all’altro. Dunque la linea di swap della banca centrale di Pechino potrebbe rimanere in vigore per un periodo transitorio.
Del resto, il mantenimento di buone relazioni con la Cina è stata la condicio sine qua non posta dall’ex presidente Mauricio Macri per garantire al ballottaggio il sostegno della sua destra moderata alla scalata al potere di Milei. Secondo il Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (Conicet), dal 2008 l’Argentina ha ottenuto dalla Cina prestiti per 8,1 miliardi di dollari, arrivati soprattutto attraverso la China Development Bank e la Export-Import Bank of China.
Il 30 agosto scorso, la banca centrale di Pechino ha annunciato il “primo investimento diretto in Argentina in yuan”, nell’ambito della sua promozione come valuta alternativa al dollaro per il commercio internazionale. La scarsità di valuta estera pregiata e il crescente rischio d’insolvenza sul debito con i creditori internazionali hanno avvicinato l’Argentina (così come altri paesi latinoamericani) alla valuta cinese, che negli ultimi mesi ha ottenuto il via libera del governo Fernandez per essere utilizzata (in luogo del biglietto verde) nel commercio bilaterale, così come per finanziare una serie di progetti infrastrutturali.