Pietro Secchia: La storia che guida il futuro

Pietro Secchia: La storia che guida il futuro

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Speciale “Cumpanis” sul 100esimo del PCd’I

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di Norberto Natali

Il 7 luglio 1973 moriva il compagno Pietro Secchia: non aveva ancora 70 anni. Era stato avvelenato dalla CIA i primi giorni del gennaio 1972, in Cile. Avrebbe dovuto morire subito ma la sua forte fibra lo fece sopravvivere per oltre un anno e mezzo, sia pur tra crescenti sofferenze.

Tre mesi dopo, nel marzo 1972, il compagno Enrico Berlinguer venne eletto segretario generale del PCI. Ho già avuto modo di scrivere sul ruolo che il compagno Secchia ricopre nella storia.

Il compagno Stalin mancò nel marzo del 1953. E nel periodo 1954-1956 (dopo l’effettivo avvento di Kruscev alla guida del PCUS) ci fu un’ondata di cambiamenti di dirigenti in quasi tutti i principali Partiti Comunisti del mondo. Tutto ciò fu chiamato “destalinizzazione”.

In Italia, nel luglio ’54, con il pretesto di un intrigo tipicamente italiano il compagno Secchia fu estromesso dalla carica di vicesegretario generale del PCI e responsabile dell’organizzazione. A cui seguì la sostituzione e l’emarginazione di centinaia e centinaia di dirigenti a vari livelli del Partito, quasi tutti di estrazione operaia, i quali avevano avuto importanti compiti nella lotta armata partigiana (comandanti, commissari politici, ecc.).

La “destalinizzazione” italiana fu chiamata rinnovamento (non rottamazione) benché il compagno Secchia avesse appena 50 anni e fosse uno dei più anziani tra i “rinnovati”. D’altra parte il “nuovo” responsabile dell’organizzazione (il compagno Amendola) che sostituì Secchia e guidò tutto questo “rinnovamento” aveva appena tre anni meno di lui!

Senza l’italica “destalinizzazione”, il compagno Secchia avrebbe certamente sostituito Togliatti dopo la sua morte e guidato il PCI per molto tempo, anche per diversi anni oltre il 1972. Con ogni probabilità avrebbe vissuto fino a metà degli anni ’80 (era nato nel 1903) e forse più. La storia d’Italia, in un certo senso d’Europa, sarebbe stata completamente diversa e lo stesso, anzi ancor di più, vale per la realtà attuale. Tuttavia va respinta con forza, in primo luogo perché è una grossolana falsificazione storica, qualsiasi insinuazione su una pretesa continuità tra PCI e PD.

Anche per questo non vanno prese in considerazione quelle tesi che pretendono ci sia una sorta di predestinazione del PCI a tradire la sua storia e mutarsi in qualcosa di molto diverso: una lettura irrealistica, fondata su una concezione lineare e piatta, senza salti e rotture, della storia stessa.

Riflettendo bene, quest’impostazione è gemella anziché opposta (come, invece, potrebbe sembrare a prima vista) di quella che vede un’esaltazione acritica di tutta la vita del PCI che dovremmo, quindi, “accollarci” interamente: un’altra interpretazione piatta e lineare della storia secondo cui dovremmo plaudire ogni scelta, per esempio, del compagno Berlinguer, per poter approvare tutte quelle precedenti.

Sostenitori della genealogia “comunista” del PD e “ultrarivoluzionari” che ritengono che il PCI sotto sotto è stato sempre un po’ di destra si fondono in una concezione della storia che non ha nulla di marxista ma che può scaturire solo da quella di Benedetto Croce o dalla teologia.

In realtà, non c’è mai stato un “Partito di Pietro Secchia”: lui (e tante altre compagne e compagni come quelli cui si è già fatto cenno) erano una particolare garanzia della natura rivoluzionaria, internazionalista, di classe del PCI. Averli liquidati è stato come essersi privati del sistema immunitario: per un po’ l’organismo continua ad essere simile a quello di prima ma alla lunga viene sopraffatto da batteri ed altri elementi che non trovano più gli anticorpi adatti a respingerli.

Il PCI non avrebbe fatto una politica molto diversa, se nei 10/12 anni successivi alla loro emarginazione fosse stato guidato da Secchia e dagli altri compagni. Successivamente, questo è sicuro, non ci sarebbe stato il cosiddetto eurocomunismo e tanto meno la politica organizzativa e di selezione dei quadri seguita, invece, dal gruppo dirigente di Berlinguer.

Per fare un esempio semplice, supponiamo che il PCI fosse una bottiglia di eccellente vino e il compagno Secchia ne fosse il tappo che ne garantiva la purezza e l’affinamento. Non si trattava di due bottiglie o due vini contenuti nella stessa. Tuttavia una volta “saltato” il tappo, la bottiglia è rimasta aperta ed esposta all’aria. Per un po’ di tempo il vino è rimasto quello, eccellente, di prima ma via via ha cominciato a subire delle modificazioni. Alla lunga sapeva quasi di aceto, conteneva un po’ d’acqua piovana e aveva subito altre modificazioni dovute a fattori esterni. Non era più il vino ma un altro tipo di liquido, benché contenesse ancora parte del vino iniziale.

Fuor di metafora, la liquidazione del compagno Secchia (e di tante altre ed altri) alla fine ha portato al PCI degli anni ’80 e ad Occhetto. Quest’ultimo non guidava più il PCI ma un partito di altro tipo, benché contenesse ancora “ingredienti” provenienti da quello originario. Ciò è pacifico, tanto che fin da allora lo stesso compagno Cossutta parlò di “mutazione genetica” ed oggi nessuno, onestamente, può smentire tale giudizio.

Berlusconi diceva, per le sue esigenze propagandistiche, che il PDS era il PCI con un altro nome ma – storicamente – è vero il contrario: era il PCI occhettiano ad essere già, in un certo senso, il PDS con un altro nome.

Se torniamo, per un attimo, alla nostra bottiglia abbandonata all’aperto, non si ripristina il vino puro che c’era precedentemente dividendone il contenuto in due e mettendone una parte in un contenitore protetto (esteticamente comunista): al massimo si evita che quest’ultimo continui a degenerare, fino a divenire tossico, come capiterà a quello lasciato nella bottiglia aperta.

La scissione avvenuta nel 1991 era in un Partito già geneticamente mutato: già non era più “vino” genuino. Per questo la “Rifondazione” (ossia tutte le vicende e le organizzazioni derivate da quella scissione) non poteva essere la via della rigenerazione del PCI ma solo una variante di sinistra (esteticamente, simbolicamente comunista) del Partito occhettiano ossia non più autenticamente comunista, già carente di continuità e possibilità di identificazione con tutta la storia e la natura del PCI.

Tant’è che la “Rifondazione” ha finito per disperdere anche quel poco di vino rimasto e oggi non abbiamo quasi più neanche il vetro della bottiglia. Sarebbe già un passo avanti poter disporre di acqua fresca e potabile.

Concluderò con un concetto un po’ arzigogolato e complesso.

La “Rifondazione”, come NEGAZIONE dello scioglimento del PCI è fallita e i suoi esponenti, in grande maggioranza, seguono le orme della degenerazione del Partito. Chi è già approdato al PD, chi ha dato vita a SEL (non si capisce perché questi ultimi non abbiano aderito, all’epoca, al PDS), chi è ancora nominalmente comunista ma già preannuncia “rinnovamenti” e “modernizzazioni”, ecc.

Questo tipo di NEGAZIONE dello scioglimento del PCI ha riportato, come nel gioco dell’oca, al punto di partenza e anche peggio. La grande maggioranza delle organizzazioni e dei dirigenti provenienti dalla “Rifondazione”, infatti, oggi è su posizioni ideologiche e politiche generalmente più di destra di quelle di Occhetto di 25 anni fa. Da questa situazione, per ispirarsi ad Engels, si esce solo con la NEGAZIONE DELLA NEGAZIONE: ossia la critica della “Rifondazione” non può significare il ritorno alla situazione da cui è stata generata, il PCI di Occhetto, ovvero la bottiglia già aperta da tempo con il suo contenuto ormai mutato.

La NEGAZIONE DELLA NEGAZIONE significa che la via, sempre più necessaria come è evidente, deve essere la ricostituzione del PCI, quello storicamente determinato ovvero col tappo. Il PCI si ricostruisce in Italia, oggi, solo integrando nella sua base storica e ideologica la figura del compagno Secchia e di tutti gli altri.

Ogni illusione di ridare vita al Partito in termini di continuità con la “Rifondazione” oppure – secondo una versione più subdola – rincorrere una presunta correzione o ripristino di un supposto spirito autentico originario della “Rifondazione” può portare solo al fallimento, può solo ripetere – in sedicesimo – la sua miserevole parabola.

La gran parte delle compagne e dei compagni, tutti meritevoli del massimo rispetto e considerazione, che hanno seguito la “Rifondazione” pensavano che PRC significasse voler ridare vita al PCI, invece, come dimostra la realtà attuale, voleva dire non riconoscere neanche le fondamenta dell’identità comunista (“rifondare” inteso come cambiare anche le fondamenta).

Tutto ciò significa che le forze e le storie che riconoscono il ruolo del compagno Secchia e di ciò che egli rappresenta, hanno una responsabilità particolare nel processo di ricostituzione del PCI e quei tentativi di farlo che discriminano tali forze e tali storie sono votati all’insuccesso e al tradimento.

Detto ciò, non basta evocare il nome del compagno Secchia: figuriamoci se ciò può essere sufficiente, in una fase nella quale fin troppi si illudono che un nome, un simbolo, una bandiera possano – di per sé – garantire e qualificare un partito. Sarebbe come dire che basta la bottiglia per assicurare che il contenuto è vino buono!

A questo punto, questa nota si deve concludere lasciando il posto alla riflessione sui programmi futuri. Cosa significa, per esempio, considerare il compagno Secchia come parte del “DNA” di un progetto di ricostituzione del PCI? Oltre alla simbologia e all’integrazione delle compagne e dei compagni i quali, per storia e orientamento, sono più qualificati in tal senso, proporrei, un po’ alla rinfusa e senza voler indicare gerarchie di importanza, tre temi.

1. “Fiducia nella borghesia, sfiducia nel proletariato e rinuncia agli obiettivi di fondo per supposti vantaggi immediati”. In questo modo Secchia sintetizzava i criteri per individuare (e respingere) l’opportunismo che voleva introdursi nel Partito. A rifletterci bene, sono validissimi oggi e quei difetti sono talmente radicati che a volte si stenta a riconoscerli, come avviene con gli oggetti troppo vicini all’occhio.

2. La morale di classe, rivoluzionaria. Oggi c’è troppa indifferenza, tra i comunisti (diciamo così) alla sfera dell’etica, dello stile di lavoro, del costume che deve caratterizzare il Partito e qualificare i suoi dirigenti. Il personalismo e il politicantismo dilagano e troppo spesso si contrabbandano il lassismo etico e la subalternità all’ideologia e alla moralità borghese con la laicità, la modernità, la democrazia interna, ecc.

3. La natura di classe del Partito. Ho sentito personalmente importanti dirigenti comunisti ridurre tale questione a quella dei “problemi sindacali” o “del lavoro”. Bisogna innanzitutto riconoscere che la classe più rivoluzionaria, tra tutte quelle esistite nella storia, è la classe operaia. Mi sembra che questa, troppo spesso, venga sostituita con gli intellettuali, i quali non sono una classe ma – in quanto tali – sono borghesi. Si è dimenticata la lezione di Gramsci, la sua concezione su funzione e natura dei veri intellettuali, si è dimenticato anche Lenin e – soprattutto – nessuno ricorda più che “la liberazione della classe operaia può avvenire solo per opera della classe operaia stessa”.

Il Partito Comunista (come è stato il PCI per quasi 70 anni) è il Partito della classe operaia, ne promuove le istanze e l’organizzazione e propugna il suo potere politico ed economico. La “Rifondazione” ha portato al dominio, anche in Italia, della sinistra borghese e il Partito Comunista si ricostruisce in rottura e come alternativa a questa situazione.

Prima o poi il confronto investirà sempre più compagne e compagni, spazierà su tanti altri temi e alla fine troverà la strada per riavere il PCI, primo obiettivo oggi per salvare il paese e unirsi alle forze mondiali della pace e della giustizia.

Ciò sarà possibile grazie al compagno Secchia, ai fondatori e a tanti dirigenti del PCI e a milioni di compagne e compagni i quali, con la loro lotta e i loro sacrifici, sono stati capaci di accendere un faro nella storia che ci rischiara la via del futuro.



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