Realtà e mito del femminicidio: una (parziale) analisi del femminismo postmoderno
di Francesco Corrado
Nel trattare il tema del femminicidio è necessaria una premessa utile a chiarire una cosa: l'Italia è uno dei paesi meno violenti d'Europa; spesso in compagnia degli altri paesi mediterranei. Anche se le nazioni del nord hanno la fama (meritata) di essere civili, questo pare che non gli impedisca di essere molto più violenti di noi. In tutto e per tutto: la cosa infatti riguarda i suicidi, gli omicidi ed i femminicidi. Roma, per esempio, è una delle capitali più sicure d'Europa e Napoli, che ha una fama sinistra in merito, non rientra nella classifica delle 50 città più violente d'Europa. I grafici che seguono indicano gli omicidi ed i femminicidi per 100.000 abitanti.
Omicidi volontari nei Paesi dell’Unione europea – Anno 2017.
Omicidi volontari di donne in alcuni Paesi dell’Unione europea – Anno 2017
I primi due grafici, disponibili sul sito dell'Istat, si riferiscono a studi dell'Eurostat riguardanti il 2017, il terzo grafico, dell'OMS, si riferisce invece ad un periodo di venti anni durante i quali facciamo sempre e solo meglio di paesi come Finlandia, Svezia, Francia e Germania. Quindi teniamo presente che, per quanto ci vogliamo considerare dei trogloditi, rimane il fatto che nel resto d'Europa, in termini di crimini violenti, la cose vanno mediamente molto peggio che da noi.
In Italia il fenomeno del femminicidio, oltre ad essere meno problematico che nel resto d'Europa, è rimasto sostanzialmente stabile da quando abbiamo statistiche in merito e cioè da almeno 35 anni. In questi anni non c'è stato alcun incremento del fenomeno: non si tratta di una curva che cresce ma anzi è in flessione. Eppure leggiamo costantemente che i femminicidi sono in aumento, perché? La cosa nasce da una lettura errata, volutamente o per idiozia non sappiamo, dei dati: la pezza d'appoggio consiste nel fatto che i femminicidi negli ultimi 30 anni sono cresciuti come percentuale rispetto al totale degli omicidi commessi. La cosa è corretta, ma dipende dal fatto che sono diminuiti in modo assolutamente drastico gli omicidi in cui le vittime sono i maschi, quindi la percentuale è cambiata. Come spiega il seguente grafico Istat che riporta il numero di vittime per sesso nel periodo che va dal 1992 al 2016; i dati sono per 100.000 abitanti.
Il grafico seguente riporta invece i numeri assoluti tra il 2000 ed il 2018.
Insomma il numero dei femminicidi diminuisce, ma più lentamente rispetto a quanto faccia il numero degli omicidi con vittime maschili, che rimangono comunque la maggioranza. Se nel 1992 gli omicidi totali furono oltre 1400 con 200 vittime donne, durante l'anno 2000 gli omicidi totali scesero a 750 ma il numero di donne vittime era sceso di pochissime unità. In pratica il numero delle vittime maschili, pur essendo sempre molte di più di quelle femminili, nel corso degli anni '90 è più che dimezzato. Nel corso del nuovo secolo sono diminuiti gli omicidi sia maschili che femminili ma quelli maschili di più.
Appena 10/15 anni fa i criminologi ritenevano che la situazione della violenza omicida in Italia fosse estremamente positiva. Il numero di omicidi è sceso a tal punto da non considerare utili ulteriori interventi di politica criminale repressiva. Peraltro in questi stessi anni le pene non sono affatto aumentate per gli omicidi anzi si è assistito ad una maggior indulgenze giudiziale. Con la "pax mafiosa" che ha ridotto la violenza della criminalità organizzata, con la scomparsa del fenomeno terrorista e con la generale diminuzione della violenza politica, le statistiche italiane si sono fatte davvero interessanti. Nonostante i dati siano ulteriormente migliorati nel corso del nuovo secolo, trovare oggi un criminologo disposto a dire che le cose in Italia vadano benino è problematico: sarebbe linciato dalla stampa e rischierebbe di entrare nel mirino di organizzazioni come MeToo o NonUnaDiMeno.
Ma analizziamo più da vicino il fenomeno. La quasi totalità di cosiddetti femminicidi si verifica nell'ambito familiare in senso stretto o comunque all'interno di relazioni più o meno stabili. Quindi siamo di fronte a casi nei quali la vittima ed il carnefice non solo si conoscono bene ma spesso convivono da anni. All'interno di queste relazioni ogni anno si verificano degli omicidi. La maggior parte delle vittime è di sesso femminile ma ovviamente anche uomini e bambini vengono assassinati da parte delle mogli/compagne e mamme. Il caso di Cogne fece scalpore solo perché ci volle tempo per accertare la responsabilità, quasi come in un romanzo giallo, non perché fosse un caso isolato.
Questo perché se è vero che gli uomini sono più violenti delle donne è assolutamente falso dire che le donne non siano violente.
Ora, se analizziamo le dinamiche della violenza (omicida e non) nell'ambito dei rapporti familiari, vediamo che a fare da humus a questi comportamenti troviamo sempre le stesse cose presenti isolatamente o in combinazioni varie: stati di dipendenza da droghe o alcool, gioco compulsivo, problemi economici, marginalità sociale, insicurezza esistenziale, un basso livello culturale o di consapevolezza che non riesce a mitigare gli impulsi violenti (gelosia, possessività). Insomma segni caratteristici di un mancato vero sviluppo della persona. A questi fenomeni, almeno in parte, si potrebbe rimediare se si decidesse di affrontare i problemi per quelli che sono.
Ma la visione propugnata dai media, dalle organizzazioni internazionali e dai politicanti fucsia è quella degli studi di genere (ricordiamo: studi ascientifici basati su una filosofia antiscientifica (Come cerchiamo di spiegare qui) che vede il femminicidio come: "omicidio doloso o preterintenzionale in cui una donna viene uccisa per motivi basati sul genere".
All'interno di questa ideologia la violenza di genere è definita come "Qualsiasi forma di violenza esercitata in maniera sistematica sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione di genere a di annientare l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico della donna in quanto tale, fino alla schiavitù o morte" (D.Oli). Cioè le donne vengono uccise in quanto donne e non in quanto madri, mogli, fidanzate. L'umo è colpevole non solo in quanto personalmente responsabile, ma in quanto agente del patriarcato, membro della comunità maschile. Si aliena così il fenomeno dall'ambiente in cui realmente matura per darne una spiegazione astratta e staccata dalla realtà.
In questa visione ovviamente la donna come carnefice non trova posto. Nella teoria del patriarcato la donna è solo vittima e l'uomo è solo carnefice. Il matrimonio stesso si configura nel patriarcato come un sistema di dominio dell'uomo sulla donna. Se si adotta questo modello interpretativo quando poi si cerca di legiferare per risolvere i problemi, ci si trova di fronte ad un muro, rappresentato dalla realtà, che risulta essere invalicabile. Quindi in conseguenza si elaborano leggi troglodite dal punto di vista giuridico come la "Ley Organica de Medidas de Protecciòn Integral contra la Violencia de Gènero" del fucsia Zapatero, la peggiore legge entrata in vigore in Spagna dalla caduta del franchismo (almeno), che meriterebbe un approfondimento che è impossibile in questa sede.
In realtà il fenomeno del femminicidio rientra non tanto nel campo degli studi criminali quanto in quello degli studi di genere che da decenni stanno vittimizzando le donne convincendole che la loro vita sia quotidianamente in pericolo perché circondate da uomini che potrebbero ucciderle da un momento all'altro. Cosa che può fare danni soprattutto nell'immaginario delle più giovani.
Di fatto ciò che sta succedendo è che proprio da sinistra (che una volta era libertaria) si stanno facendo largo autentiche campagne di criminalizzazione dell'intera categorie degli uomini con continue richieste di aumenti di pena, riduzione delle garanzie dell'imputato (che è un diritto umano di quelli primari), criminalizzazione di comportamenti tendenzialmente inoffensivi (le famose microaggressioni) e il proliferare dei reati di odio: misoginia, razzismo, omofobia, transfobia e presto arriveranno anche le fat-fobia e compagnia cantante.
Facciamo timidamente presente che, se l'Italia nell'approvazione di queste leggi è in ritardo di quasi 15 anni rispetto agli altri paesi occidentali, vero pure è che prima di riproporle pedissequamente da noi si sarebbe potuto osservare quali performance queste leggi abbiano avuto nei paesi in cui sono già vigenti da molti anni. Ebbene i risultati sono stati penosi (basta tornare a dare uno sguardo ai primi grafici in alto). Ma sono stati ottimi per le carriere dei politicanti che le sostengono (il nome Boldrini suggerisce qualcosa?) ed ottimi soprattutto per chi crede che mettere in guerra gli uomini con le donne secondo il principio del "divide et impera" sia un'agenda che porterà risultati e questi individui non sono di certo i cittadini italiani che si cerca di dividere sempre di più ad una condizione tribale di uomo, donna, etero, gay, trans, migrante.
Gettare alle ortiche l'universalismo della Repubblica Italiana, fondata sul lavoro e retta da cittadini lavoratori con pari dignità sociale e uguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua e di condizioni personali e sociali, e sostituirlo con il tribalismo introdotto dagli studi di genere e dalle degenerazioni antiscientifiche dei saperi figli della filosofia postmoderna sarà un pessimo affare, che ci garantisce un regresso i cui limiti non sono facilmente identificabili a priori. Ancora una volta però quei saperi irrazionali ed antiscientifici che hanno spodestato il marxismo come guida della sinistra (fucsia) di governo, diventando mainstream, di fatto si ritrovano, ancora una volta, in perfetta sintonia con gli interessi del grande capitale finanziario globalizzato mai messo in discussione, mai sfiorato dall'interesse dei campioni del politically correct, tutti impegnati a cambiare le desinenze della lingua di Dante che gli consigliamo di studiare, insieme alla storia.