Recovery Fund e l'Imperialismo frugale dell'Unione Europea

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Recovery Fund e l'Imperialismo frugale dell'Unione Europea

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Caro direttore de “L’AntiDiplomatico”, in virtù del nostro importante rapporto di collaborazione ti invio in anteprima questo editoriale di Carla Filosa per “Cumpanis”. Un caro saluto, Fosco Giannini, direttore di “Cumpanis”
 
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di Carla Filosa*

 
Mio marito è ricco, egoista e tirchio.
Frugale insomma.
Da una vignetta di Altan: due signore a colloquio.
 
 
Imperialismo frugale.
 
La semplificazione geniale di Altan, che però richiede sempre capacità critiche, nella vignetta di due signore benvestite a confronto, è forse la spiegazione più evidente e immediata da fornire alle masse sull’uso mistificante del momentaneo significato di “frugale”, di cui si sono auto-fregiati gli stati europei più predatori di questi ultimi tempi. Al raggiro delle parole segue però più rilevante quello del contenuto, relativamente ai 209 miliardi che la bravura e la tenacia di Conte avrebbero strappato all’Europa, cui sarebbe stata chiesta l’inusuale “solidarietà” per la crisi pandemica “in comune”, di cui effettivamente nessun paese dell’Unione è stato economicamente responsabile. Come ormai risulta più chiaro, rispetto alla crisi economica già precedentemente in atto, la crisi sanitaria si è configurata in termini inediti, peraltro inattesa, sebbene già preannunciata da diverse “voci” verosimilmente ben informate. A circa sei mesi dalla sua sconvolgente comparsa, e tuttora innalzando il livello delle difficoltà economiche ormai mondiali nel calo dell’accumulazione di plusvalore, i governi degli stati europei si sono riuniti per affrontare una situazione “comune” all’interno della differenziazione imperialistica che avvicina le prede ai loro razziatori, nella contemporanea gestione di una propaganda per le masse credulone, con  narrazioni di umanità fraterna e comprensiva che avrebbe unito un’Europa sempre idealizzata, e perciò mai esistita. 

Per chi ancora riconosce nel termine imperialismo il dato di realtà presente, va ricordato che dal punto di vista delle sue precipue condizioni economiche, per quanto riguarda sia l’esportazione dei capitali sia la spartizione del plusvalore da parte dei capitali con base su potenze ex-coloniali e universalmente considerate “civili”, va preso atto che, finché perdura questo regime capitalistico, l’unità europea, sempre auspicata o invocata, è impossibile o può avviarsi prevalentemente verso derive reazionarie. Ormai l’odierno imperialismo mondiale si alimenta della spartizione di influenza politica sugli altri stati, del controllo del loro debito pubblico potenzialmente da innalzare il più possibile, dal ricavare interessi usurari mediante “prestiti” o con altre insospettabili formule, acquisendo inoltre posizioni strategiche su zone di transito delle merci o ricche di risorse materiali di cui appropriarsi monopolisticamente. Ultimamente poi, da parte Usa, si è avviata una guerra politica e mediatica per ricondurre sotto controllo i miliardi di dollari degli oligopoli digitali con tanto di gestione dei dati, per ottenere un inattuale apparente ripristino del “libero mercato” concorrenziale, ovvero assicurarsi il solo bacino di voti necessario al mantenimento della presidenza e dell’egemonia mondiale. Si allineano perciò su questa falsariga, in dimensione ridotta, anche gli accordi europei recentemente stipulati, su cui peraltro non si ha ancora una completa chiarezza circa le modalità della loro futura effettuazione. Ampiamente esaltati e magnificati dalla stampa votata alla massificazione, non hanno però fornito certezze né sui tempi di concessione del denaro né sulle condizionalità poste alla direzione del suo utilizzo.

In primo luogo vediamo allora come la voce suadente della Confindustria, attraverso il Sole 24 Ore del 23 luglio scorso, si è espressa a favore del Recovery Fund, nominalmente diverso ma nella sostanza molto simile al famigerato Mes e al suo portato di austerità tradizionalmente imposta. In una serie di conti per equiparare quantitativamente le dimensioni di erogazione di fondi tra questo e il Piano Marshall della fine dell’ultimo conflitto mondiale, l’articolo in questione concludeva che il Piano europeo appena varato risulta sicuramente più vantaggioso dell’altro. La rievocazione del Piano Marshall, ultimamente ad opera di Berlusconi, si era già palesata nel 1987. Reagan, Lucchini e G. Agnelli lo indicarono come modello per investimenti privati in piena solidarietà con i capitali, la cui libertà ha sempre coinciso con la produttività attuabile. All’indomani di guerre o recessioni, infatti, la sovrapproduzione si presenta in forma di crisi con una pletora di capitale inutilizzato, che, in base ad appositi piani economico-politici, può servire come riconversione e ricostruzione profittevole, con interessi garantiti da riscuotere in un lungo periodo.

 È utile a questo punto rammentare le stesse parole del generale G. Marshall tratte dal testo dell’Erp: European Recovery Program del 5.06.1947, in quanto illuminanti anche sui meccanismi attuali delle parti più ambigue del Piano del nostro presente: “Ogni aiuto che il governo potrà fornire in avvenire dovrebbe rappresentare una cura piuttosto che un semplice palliativo. Ogni governo che è disposto a contribuire al compito della ricostruzione troverà piena collaborazione, ne sono sicuro, da parte del governo degli Stati Uniti. Ogni governo che manovri per impedire la ripresa di altri paesi non può aspettarsi da noi nessun appoggio. Inoltre, i governi, i partiti politici, i gruppi che intendono perpetuare la sofferenza e la miseria per trarne profitto, sul piano politico o in altri campi, dovranno fare i conti con l’opposizione degli Stati Uniti”. La minaccia implicita in questo discorso era rivolta all’allora Unione Sovietica, cui pure era stato offerto il Piano dietro un mutamento di politica esteso anche alla sua sfera d’influenza, in un tentativo di comprendere conciliazione e contrapposizione, secondo una concezione del “comunismo” che proliferava laddove la miseria umana si sarebbe presentata nelle forme più crude. Il Piano fu però respinto da Molotov per non rinunciare all’autonomia politica dell’Urss, segnando poi l’inizio della “guerra fredda”, ora forse rinverdita ma nei confronti della Cina quale nuovo, necessario nemico.

Ciò che il Sole 24 Ore, insospettabilmente, tralascia di completare nel Piano Marshall è la portata dei congrui obiettivi economici – pur accennati alla fine – quale vero impianto degli “aiuti”. E, se volessimo sostituire i governi e le organizzazioni degli anni ’40 con quelli autocertificatisi “frugali” di ora, forse vedremmo con occhi più aperti o meno accecati molte similitudini, e gli obiettivi realizzati di allora potrebbero chiarirci gli obiettivi non ancora del tutto trasparenti che però pazientemente ci attendono. La ripresa economica dei partner dell’Europa occidentale era fondamentale per lo sbocco delle merci e dei capitali Usa, proprio come oggi è fondamentale la produzione in conto terzi dei Paesi mediterranei, in particolare Italia, per la produzione tedesca, nello sterile intento di evitare una recessione non già più postbellica ma “post” pandemica.

 La recessione del 2020 non è stata evitata, non solo in Europa ma anche in Italia, con un -17,1% rispetto alla fine del 2019, ma il riferimento concettuale mancante nel parallelo confindustriale, quello fondamentale, che avrebbe dato significato non ideologico o quantitativo all’accostamento dei due “Recovery” in tempi così diversi, è il capitale “uno” come sistema, perdurante, e “molteplice” su basi nazionali, competitivo, conflittuale e obbligato alla mutevole convivenza nella ricerca dell’egemonia dell’uno sugli altri per sopravvivere come tale, oggi forzatamente spronato anche dalla globalizzazione. La condizione prioritaria e inderogabile nella corsa alla supremazia si attua costantemente nell’aumento della produttività lavorativa, cioè del plusvalore da estorcere, con la minimizzazione dei costi, ovvero con l’abbattimento del salario diretto, di quello indiretto denominato anche stato sociale, di quello differito e cioè pensioni e tfr, con il conseguimento ideologizzato della più neutrale “disoccupazione” e dell’auspicato “ordine” sociale, di cui oggi Trump è campione nel suo sbandierato “law and order”. Ecco che allora i due “Recovery” sono confrontabili: ambedue hanno fatto leva sull’aumento dello sfruttamento dei superstiti del dopoguerra e del post – se è lecito pre-dirlo – pandemia, per ripagare gli “aiuti” con gli interessi calcolabili in base agli accordi stipulati. “L’economia che riparte” è però sempre quella di questo sistema, cioè quella delle industrie superstiti (l’Italia ha precedentemente subìto un ammanco di 1/5 della sua produzione industriale complessiva) che sopravviveranno con investimenti, incentivi per le assunzioni di personale, detassazioni, tutte voci che fanno capo al denaro pubblico gestito dallo stato al loro servizio. 

Nel Piano Marshall, inoltre, erano ovviamente inseriti funzionali obiettivi politici – di cui alcuni oggi pienamente raggiunti – per la formazione di gruppi moderati quale scudo contro i comunisti, oltre la nascita della Nato (North Atlantic Treaty Organisation) nel 1949, e l’ampliamento delle basi aeree in Europa quale deterrenza atomica. Gli Usa si assicurarono anche una stabile influenza politica in Grecia e in America Latina, oltre a realizzare una sostituzione politico-commerciale con mezzi giuridico-militari, vòlta alla dissoluzione dell’egemonia degli imperi ancora in auge. Molte industrie Usa si trasferirono in Europa per incrementare lo sviluppo dei settori tecnologicamente già maturi che avrebbero così cooperato con gli Stati Uniti, in modo da definirne un’avanguardia nei settori tessili, della plastica, dell’elettronica leggera proprio per il basso costo della manodopera locale. Esattamente quello che i “frugali” tentano di realizzare ora, a monte per alcuni di essi di essere già detentori di facilitazioni o proprio di “paradisi fiscali”, in termini di vicinanza ai luoghi di produzione e ai mercati di consumo, per lo sviluppo di filiali commerciali e di indotti o filiere produttive. 
 

L’imperialismo era conosciuto.
 
Durante il periodo più duro della crisi sanitaria alcune considerazioni di minoranza hanno fatto riemergere la necessità di farla finita con questo sistema di accumulazione privata e contemporaneamente di immiserimento e degrado sociale, ed ora anche causa complessa di distruzione degli ecosistemi e quindi dell’insorgere di virus letali. Il ricorso alla possibilità concretizzabile di un’uscita socialista dal sistema, non è pensabile però come solo atto singolo rivoluzionario – anche di un solo paese ormai –, frutto del desiderio, sebbene di molti, sparsi individui, ma deve potersi ipotizzare come un lungo “periodo di tempestose scosse politiche ed economiche, della più acuta lotta di classe, di guerra civile, di rivoluzioni e di controrivoluzioni” (V. I. Lenin, Gli Stati Uniti d’Europa). Facendo tesoro delle riflessioni ancora di Lenin e di J. Hobson sul contenuto e significato e­conomico nel primo novecento in cui si prospettava ancora la spartizione della Cina, la fase imperialistica lasciava già individuare la necessità di gruppi di finanzieri e di “investitori di capitale” al controllo economico delle proprie rendite e dividendi, che avrebbe condotto al “gravissimo rischio di un parassitismo occidentale”, producendo “grandi mas­se di impiegati e di servitori addomesticati, che sarebbero occupati nel servizio personale o in lavori industriali di secondo ordine sotto il controllo della nuova aristocrazia finanziaria”.

 Ora la Cina è una grande potenza economica ma proprio per questo è sotto continuo attacco da parte degli Usa, che non sono riusciti a rendere coeso l’Occidente dei profitti monopolistici, alcuni dei quali intrattengono perciò rapporti bilaterali vantaggiosi con il grande partner cinese, proiettato anch’esso verso l’egemonia mondiale. La globalizzazione, ovvero la complessa competizione mondiale della produzione e della grande finanza, si serve dei governi di poche grandi potenze per la spoliazione delle relative masse subalterne. “E nessun’altra forma di organizzazione è possibile in regime capitalistico. Ma in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza. Il miliardario non può dividere con altri il “reddito nazionale” di un paese capitalista, se non secondo una determinata proporzione: «secondo il capitale» (e con un supplemento, affinché il grande capitale riceva più di quel che gli spetta). Il capitalismo è proprietà privata dei mezzi di produzione e anarchia della produzione. Predicare una «giusta» divisione del reddito su tale base è proudhonismo, ignoranza piccolo-bor­ghese, filisteismo. Non si può dividere se non «secondo la forza». È la forza che cambia nel corso dello sviluppo economico. Per mettere a prova la forza reale di uno stato capitalista, non c’è e non può esservi altro mezzo che la guerra. La guerra non è in contraddizione con le basi della proprietà privata, ma è il risultato diretto e inevitabile dello sviluppo di queste basi. In regime capitalistico non è possibile un ritmo uniforme del­lo sviluppo economico, né delle piccole aziende, né dei singoli stati. In regime capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, al di fuori della crisi nell’industria e della guerra nella politica. Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili degli accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti europei ... Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa. Il tempo in cui la causa della democrazia e del socialismo concerneva soltanto l’Eu­ropa, è passato senza ritorno. L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo” (Lenin, Sotsial-Demokrat, N.44, 23.08.1915; L’Imperialismo, fase suprema del Capitalismo, 1916)
 

Questa citazione ha il senso oggi di riproporre un’analisi – con la necessaria verifica qui sottoposta – le cui categorie di fondo agiscono tuttora solo su un piano mondiale, con le inevitabili influenze sulle situazioni locali in termini costrittivi, altrimenti monitorabili con effetti distorsivi. Argomentare sugli accordi europei appena varati deve tener presenti non solo i precedenti storici riferiti e non, ma soprattutto sapere che i capitali sopravvivono in base a leggi ormai conosciute, e non per merito o volontà di individui che solo le osservano attuandole. Gli accordi relativi ai Recovery Funds o Next Generation EU si sono basati sulla produzione italiana ormai subalterna della piccola e media industria, il cui plusvalore ricavato è per lo più trasferito ai grandi capitali esteri dominanti, che così possono imporre i livelli necessari di sfruttamento lavorativo per mantenersi competitivi. Inoltre, la duplicazione della crisi di capitale e pandemica ha reso più visibile il capitale fittizio speculativo italiano, e cioè la necessità di riavviare una produttività inesistente o con bassissimi livelli di plusvalore erogabili, tali da dover comprimere ulteriormente i costi e innalzare i tassi di sfruttamento del lavoro residuo, mediante l’abbattimento di fatto dei diritti sindacali o costituzionali. Le condizionalità interne a questi accordi rispondono dunque non alla durezza personale di un Rutte, o chi per lui, ma ai meccanismi di funzionamento economico prima brevemente indicato, e i piani di spesa dei miliardi per ora accordati forniranno alle commissioni preposte al loro vaglio la chiave tecnica, non politica, per l’imposizione di riforme del lavoro o della fiscalità. “Il capitale finanziario non vuole libertà ma egemonia”, scriveva Hilferding nel 1910, mostrando che i creditori dello stato trasformano la somma prestata in obbligazioni trasferibili come denaro in contanti. Inoltre, il debito pubblico ha dato avvio alla speculazione borsistica e alla bancocrazia moderna, innalzando progressivamente il tasso d’interesse e prospettando i tagli sociali per pagare gli interessi maturati. Pertanto le pressioni politiche, necessarie per la restituzione dei prestiti, sono appunto dovute alla interna dipendenza universalizzata del capitale transnazionale, e l’accordo politico può solo dilazionare i tempi o far ricontrattare il debito.
 

Gli accordi possibili.
 
Entrando nel merito specifico di questi accordi, vediamo subito che il 17-18 luglio si è avviato un summit europeo nel tentativo di operare una mediazione per la riduzione del budget europeo tra i “frugali” Olanda, Svezia, Austria, Danimarca e i paesi mediterranei. L’iniziativa dei sedicenti “sobri” aveva teso a ridurre l’importo proposto prima di 1100 miliardi a 1074, se non proprio a 1050 come ultima richiesta. Si è prospettata, in altri termini, la restrizione dell’iniziativa del presidente Conte, mostrando più apertamente le difficoltà dell’attuale governo rispetto all’ipotizzato beneficio destinabile alle classi lavoratrici, la cui voce sindacale sembra ormai peraltro spenta. Nell’interesse appunto delle classi lavoratrici, che dovranno risanare il debito pubblico, ripagare gli interessi e sopportare pesanti riduzioni dei redditi, è necessario divulgare l’ambiguità deliberata delle oscure condizionalità interne a questi accordi, dove l’occultamento della prosecuzione delle politiche d’austerità è la naturale conclusione dei rapporti di forza, unitamente al requisito per poterle praticare senza contestazioni popolari. La tecnica standard del Consiglio è infatti quella di mantenere l’ambiguità in attesa di contesti politici variabili nei vari stati in questione, al momento delle decisioni che saranno prese in base a considerazioni del semestre europeo relativo a fisco, efficienza amministrativa e giudiziaria, pensioni, ecc. Il governo italiano dovrà poi indicare gli obiettivi di spesa discussi dalla commissione e in ultima istanza decisi dal Consiglio europeo. L’accordo appare perciò fluido, rispetto alla possibilità di costruire alleanze ancora in incubazione tra i paesi interessati, al fine di spostare il potere decisionale conclusivo verso il Consiglio.


Le condizionalità, analoghe a quelle presenti nel Mes, di fatto solo nominalmente diverso, non solo esistono ma emergono con “raccomandazioni” semestrali relativamente alla situazione lavorativa dello stato membro, come criterio di valutazione prioritaria. Attualmente il Patto di stabilità è stato momentaneamente sospeso per il 2020, ma quando diventerà nuovamente operativo presumibilmente il prossimo anno, bisognerà verificare se le condizioni economiche consentiranno la ripresa delle politiche di bilancio, e cioè la sostenibilità del sistema sanitario da corroborare o il sistema pensionistico da cambiare o meno e semmai in quale modalità. Se poi le “raccomandazioni” sono per ora giuridicamente atti di indirizzo non vincolanti, potrebbero invece diventare stringenti se unite a quelle precedenti, in particolare a quelle del 2019 in cui si richiedeva l’attuazione di alleggerimento dell’erogazione pensionistica. Se così fosse ci si troverebbe di fronte alla solita politica di austerità, ma in modo improvviso e/o inatteso con tutte le difficoltà del farvi fronte sul piano sia economico che politico.
 

 La pia illusione dell’integrazione europea sarebbe finalmente e definitivamente spazzata via e i paesi più soggetti al pagamento dei “tributi” all’imperialismo sarebbero Spagna, Italia e Francia, cioè quelli che sconteranno la differenziazione fiscale e giuridica pervicacemente mantenuta in Europa. La dominanza “frugale”, esercitata infatti sulla pratica profittevole del dumping che attrae il cosiddetto risparmio o riserve di capitali, o sedi fiscali di grandi imprese votate alla minimizzazione dei propri costi, si avvale anche dell’impunità assicurata alle corruttele o alle cordate mafiose internazionali, che trovano così scampo giuridico a scomode indagini di magistrati, ancora intenti a inseguire riciclaggi di denaro dalla provenienza insondabile.


Chi ancora punta alla possibilità di accedere anche al Mes, presumendo che sia ora meno condizionante, non si accorge che il Recovery Fund rappresenta una finta mutualità, solo perché la fase per il momento appena superata ha presentato aspetti emergenziali. Si è privilegiata in quest’ultimo accordo una comunicazione in grado di offrire una tutela del creditore, prospettando solo una diversificazione dell’involucro, nella marginalità dello strumento, lasciando però inalterata la sostanza della cosa. Continua anche su questo piano la politica impiantata sui simboli e sulle immagini costruite, dimodoché l’unica visibilità sia lasciata alle differenziazioni razziali – per le politiche dell’immigrazione in particolare e lavorative in generale – e a quelle nazionalistiche più o meno autoritarie, per mascherare completamente la realtà ineliminabile della lotta di classe, evidenziabile chiaramente solo nel contesto mondiale e di là riconducibile a territorialità più circoscritte.


 Retoriche nazionalistiche apparse anche in occasione del covid 19 hanno il ruolo di impedire la possibilità che nell’accordo si capisca il motivo della mancanza del cenno ai finanziamenti con fondi propri, alla mutualizzazione del debito, al riferimento all’uso di tasse proprie come l’Iva versate all’Unione, come pure i tagli alla ricerca, al programma di transizione ecologica, d’istruzione, del Green Deal, ecc. È quindi plausibile che faccia parte del pacchetto l’insieme dei tagli al sistema sanitario e ai programmi di ricerca, all’istruzione, alla trasformazione digitale, all’innovazione, al sistema dell’asilo e del governo delle migrazioni del Recovery Fund, su cui poi il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, intende cordialmente aprire un negoziato. Questa plausibilità infatti è nel diktat che il capitale finanziario monopolistico esercita per la sua stabilità mondiale, nell’assoluta indifferenza per le forme virali e le sue conseguenze sugli umani, dato che non colpiscono la smaterializzazione del suo dominio realizzato. Circa il 70% delle risorse servirà a finanziare la “ripresa” dei capitali e non la sanità (prevista invece nel Mes), per cui la scelta di definanziare alcuni programmi altro non è che il prezzo da pagare ai paesi “frugali” che hanno accettato, come contropartite in termini di rimborsi, le uscite che diminuiscono e le entrate che li mettono in pareggio di bilancio, incontrando così il favore dei propri elettori. Simbolicamente rilevante a livello nazionale e al centro del dibattito politico in tutti i paesi, l’aver aumentato i prestiti e diminuite le linee di finanziamento a fondo perduto, poiché permette una decisione attendista che lascia le cose come stanno, compresa l’eliminazione della decisione politica da parte degli elettori.


Con lo scostamento di bilancio nel 2021 probabilmente si riconfermerà la politica di austerità, con una situazione legata al riavvio del patto di stabilità, che potrebbe ripresentare il déjà vu della Grecia. Le previsioni più nere fanno pensare a un innalzamento del rapporto debito/Pil forse oltre il 180%. In altre parole se il timore di accedere al Mes era rappresentato dall’intervento della troika, con il Recovery Fund la politica di austerità agirebbe in automatico ex ante, preventivamente, o in seguito ugualmente con il controllo della troika in casa. Anche con il Mes, le norme ambigue nel trattato dell’Unione non mancano, dato che i paesi che accedono al credito vanno in sorveglianza rafforzata. Inoltre, la sospensione del patto di stabilità come risoluzione interna al sistema potrebbe essere oggetto di una decisione unilaterale, data la possibilità di una esplosione del debito pubblico che potrebbe essere prossima. Se oggi si accede al Recovery e si potesse ottenere un minimo miglioramento, potremmo però non essere più in grado di chiedere la sospensione del patto di stabilità in quanto le condizioni per tale richiesta sarebbero mutate, nel senso che non avremmo più strumenti giuridici, non più titolo per richiederne l’estinzione. Se quindi tra due anni si ritornasse sul patto di stabilità si rischierebbe di stringere noi stessi un cappio intorno al  nostro collo, mentre le banche tedesche con titoli tossici dovuti sempre alla crisi di capitale dovrebbero sostenere il nostro apporto produttivo insieme a Francia e Spagna, dato che la Germania ha ancora il suo indotto in questi paesi.[1]

 Il detto tramandatoci dal letterato Lu Hsun: “Accetta un pasto e prenderai ordini”, non permette ai lavoratori di ogni paese di ignorare la saggezza, cinese.
 

 
[1] Per quest’ultimo paragrafo si ringrazia l’insieme degli interventi su Radio Quarantena del 28.07.2020 https://www.spreaker.com/episode/40014435, sulle cui analisi condivise ci si è appoggiati. 
 

*della redazione de “La Contraddizione”. con questo articolo Carla Filosa inizia a collaborare a “Cumpanis”
 

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