RUTTI, KALLI E I PIFFERAI VANNO (COMUNQUE) ALLA GUERRA

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RUTTI, KALLI E I PIFFERAI VANNO (COMUNQUE) ALLA GUERRA

 

di Diego Angelo Bertozzi

Può essere che la vittoria di Trump nella corsa presidenziale Usa abbia un poco messo in allarme i governi europei e lo stesso ceto dirigente dell'Unione Europea, ponendoli di fronte a un vero e proprio interrogativo esistenziale per il loro prossimo futuro: "Che fare con la guerra in Ucraina?".

L'ipotesi di essere lasciati soli in prima linea sul fronte, armati più di parole che di moschetti dev'essere una prospettiva non certo piacevole. Ma al di là del nuovo inquilino della Casa Bianca, ad aver gettato scompiglio nella fila, altere e orgogliose, che abitano nei palazzi di Bruxelles è stata l'intervista rilasciata al francese Le Parisien da Zelensky, il presidente in perenne uniforme militare dell'Ucriana, o meglio, di quel che rimane di un Paese utilizzato come campo di battaglia per carne da macello nel conflitto tra Russia e Nato. Le sue affermazioni, riportate da tutta la stampa, sono inequivocabili nella loro limpidezza: l'Ucraina non ha le forze (mezzi e uomini) per recuperare Crimea e Donbass occupati da Mosca.

E lo ha detto dopo settimane nelle quali l'esercito russo e le milizie delle due repubbliche popolari stanno avanzando a ritmo accelerato sul terreno. Ecco, lasciamo stare Trump e concentriamoci su queste dichiarazioni che possono rappresentare un'apertura a una soluzione diplomatica e negoziale (peccato sia vietata a oggi dalla normativa voluta proprio da Zelensky!): esse rappresentano, dopo ormai tre anni di guerra, l'irrompere della realtà nella fantasmagoria e nell'autonarrazione che i governi europei hanno spacciato per mesi e mesi alle proprie opinioni pubbliche (con Kiev fino alla vittoria! I russi senza cibo al fronte e costretti a combattere con i badili ecc...), alimentate con il puntuale fallimento, uno dopo l'altro, dei pacchetti di sanzioni che avrebbero messo in ginocchio Mosca. E alle parole del presidente ucraino - che interpretano di certo il malumore di un popolo che non ne può più di essere utilizzato come fanteria sacrificabile dell'impero - come rispondono pubblicamente i rappresentanti della Nato e della UE? Negando con insistenza la realtà a favore del sogno sul quale si sostengono, tanto da bollare ogni apertura al negoziato o il proferire la parole "pace" come una sorta di pugnalata alle spalle o un favore fatto alla Russia per rafforzarla sul terreno di guerra. Come se non fosse ormai a tutti evidente come proprio sul terreno quest'ultima si stia rafforzando, mentre l'Ucraina perda territori e sempre più forza negoziale, come testimonia il ricorso alla risorsa estrema del terrorismo. E così non c'è alternativa al proseguimento dello sforzo bellico che indebolisce proprio l'amico che si vorrebbe sostenere.

Mentre Rutte (segretario Nato) dichiara che "se ora iniziamo a parlare fra di noi di che forma prenderà la pace, rendiamo la vita molto facile ai russi", l'elegante Kaja Kallas (Alta rappresentante UE per la politica estera) sottolinea con fierezza che "è inutile fare pressioni su Zelensky affinché prenda in considerazione i colloqui di pace" anche perché - questa è il lato più umano della riflessione! - "sostenere economicamente Kiev ora è più conveniente che farlo in seguito". Altro che lo spauracchio e lo stupido timore dei "pugnalatori alle spalle", a preoccuparci sempre più devono essere i cantori della guerra ad ogni costo (ma meglio se si risparmia), i collezionisti delle sanzioni controproducenti (siamo al 15° pacchetto) e, soprattutto, i veri mandanti della distruzione di un Paese e della decimazione di un popolo. Sono coloro che, come Rutte, si complimentano per la decisione di Danimarca e Lituania di dirigere sempre più la spesa pubblica in senso bellico, perché "la decisione di comprare più armi, significa più armi all'Ucraina e più soldi per la sua economia". Già, non significa altro...

Diego Angelo Bertozzi

Diego Bertozzi

Diego Bertozzi

Laureato in Scienze Politiche all'Università degli Studi di Milano e in Filosofia e Scienze filosofiche all'Università degli Studi di Verona, si occupa da tempo di storia del movimento operaio e di Cina. Ha pubblicato per Diarkos  "La nuova via della seta. Il mondo che cambia e il ruolo dell'Italia nella Belt and Road Initiative" (2019)
 
 
 

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