Serbia – Kosovo: tutte le fake news dei media occidentali (Prima Parte)

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Serbia – Kosovo: tutte le fake news dei media occidentali (Prima Parte)

 

 

di Chiara Nalli per l’Antidiplomatico

In tempi normali sarebbe bizzarro osservare come i media occidentali tornano a interessarsi della situazione in Kosovo solo quando l’esasperazione della popolazione serba del luogo esplode in azioni eclatanti e tragiche, mentre rimangono silenti in tutti i restanti frangenti, non ritenendo utile e doveroso informare il proprio pubblico sugli elementi e le variabili che agiscono in un contesto tanto complesso.

Ho detto “sarebbe” perché si sa, quelli che viviamo non sono tempi normali: la propaganda a senso unico sulla guerra in Ucraina - con i suoi eroi in mimetica permanente e le sue cheerleader da tastiera - ce lo ricorda ogni giorno. Del resto, è stata proprio la narrativa del “c’è un aggressore e un aggredito” a inaugurare un nuovo modo di raccontare i conflitti: concentrarsi sull’ultimo accadimento, sulla scintilla di innesco, ignorando in che misura sia stata provocata o resa inevitabile da tutto un complesso antecedente di fatti e situazioni. La crisi serbo-kosovara non sfugge a questa legge: nei mesi che ci hanno separato dal 29 maggio (data delle rivolte che hanno causato il ferimento di alcuni militari della KFOR) a oggi, nessuna testata (salvo forse poche eccezioni) ha riferito di come i rapporti tra Kosovo, Serbia e i loro partner occidentali siano scivolati su un pericoloso piano inclinato, spinti in questo soprattutto dalle azioni del governo di Pristina.

Dalla mia ultima analisi per l’AntiDiplomatico, non vi sono stati cambiamenti significativi; al contrario, l’evoluzione dei fatti si è consolidata lungo le direttrici che avevamo indicato: le autorità kosovare rifiutano di dare applicazione, per la propria parte, agli accordi per la normalizzazione delle relazioni (del 2013 e del 2023), negando la formazione della “Unione dei Comuni Serbi del Kosovo” (ZSO), unico punto negoziale ritenuto imprescindibile dal governo di Belgrado. I molteplici inviti alla distensione pervenuti dai rappresentanti americani ed europei sono stati clamorosamente disattesi, non ostante il loro scopo fosse diretto più alla forma che alla sostanza: alla richiesta di organizzare nuove elezioni per i sindaci dei comuni a maggioranza serba e di ritirare le forze speciali di polizia da quegli stessi comuni, Kurti ha risposto con un’ondata di arresti di cittadini serbi e poi con il blocco all’ingresso delle merci serbe nel paese (*). Alcuni arresti - e le relative detenzioni - sono stati condotti fuori dalla legalità e con metodi violenti, creando un clima di arbitrarietà e terrore politico. Negozi e farmacie sono rimasti senza alcune tipologie di beni e soprattutto senza farmaci. Gli episodi di violenza ai danni della popolazione serba - non direttamente imputabili al governo di Pristina ma che pure da questo sono ispirati - sono aumentati, contribuendo a rendere insostenibile la vita nella regione. Citerò un solo esempio per tutti: due giorni prima gli eventi di Banjska (22 settembre), ignoti hanno lanciato ordigni esplosivi sulle abitazioni private di alcuni cittadini serbi che svolgono incarichi pubblici. Appena una settimana prima (14 settembre), dopo il fallimento delle consultazioni condotte a Bruxelles, il premier kosovaro aveva dichiarato alla stampa: “i rappresentanti della Lista Serba () pagheranno e soffriranno per gli errori commessi”. E il 20 settembre il tribunale di Pristina aveva disposto l’arresto di tre cittadini serbi ultrasettantenni (di cui uno malato oncologico) per presunti crimini di guerra: fatti avvenuti, presumibilmente, trenta anni fa, come stigmatizzato dallo stesso ambasciatore americano a Belgrado, Cristopher Hill. Nel quadro di tali vicende, infatti, i vertici della diplomazia americana ed europea hanno mostrato un crescente fastidio per le intemperanze di Albin Kurti; ma - al pari dei mesi precedenti - non sono stati in grado di produrre azioni decisive a influenzarne il comportamento, a parte qualche sporadica dichiarazione di disapprovazione e un generico apprezzamento rivolto al governo serbo, ritenuto un partner coerente e affidabile. Fino ad oggi. Ma su questo tornerò oltre.

Al momento mi preme sottolineare che se si vuole parlare di crisi serbo-kosovara, sarebbe necessario seguire periodicamente il filo di tali accadimenti o per lo meno ricordare di menzionarli quando si renda necessario, per fornire un quadro completo del contesto in cui maturano. Ma questo metodo mal si adatterebbe alla narrativa del “c’è un aggressore e un aggredito” che nel caso della Serbia, si sta lentamente imbastendo anche tramite l’utilizzo di informazioni riferite in maniera parziale e tendenziosa, quando non palesemente false; conoscerle per evitarle. Ecco una lista delle migliori.


La Storia, questa sconosciuta

La Serbia non riconosce il Kosovo” (Tg 5)

[…] eventuale invasione serba nella sua ex provincia - che Belgrado non riconosce come indipendente

(Il Messaggero, 30 settembre)

 

La Serbia rifiuta di riconoscere l’indipendenza della sua ex provincia” (Il Corriere della Sera, 24 settembre)


Si tratta di informazioni storiche parziali. L’indipendenza del Kosovo, proclamata unilateralmente nel 2008, viola gli accordi di pace che posero fine alla guerra con la NATO e la successiva Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (sebbene nel 2010, un parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia abbia parzialmente disatteso questa interpretazione). Per tale ragione il Kosovo non è ad oggi riconosciuto come stato indipendente da 92 dei 193 paesi membri delle Nazioni Unite, tra cui 8 membri del G20 (Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Sud Africa) e anche paesi dell’Unione Europea, come Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro (tutti membri NATO, tranne Cipro). Non si tratta di un’informazione di poco conto se ci sofferma a riflettere sul fatto che altri processi di secessione, in altre parti del mondo, sono stati accolti decisamente con meno favore; riferirla in modo parziale significa porre il lettore in una condizione in cui non è in grado di comprendere che il problema del Kosovo non ha una lettura univoca – il che rappresenta anche la premessa basilare per comprendere la posizione negoziale della Serbia. Se poi, affermazioni come “la Serbia rifiuta di riconoscere l’indipendenza della sua ex provincia” si trovano sotto titoli come “Kosovo, assalto a un monastero nel nord del Paese: sette morti. Accuse alla Serbia” (Il Corriere della Sera del 24 settembre) l’effetto è chiaro.



“Ha stato Putin”

L’ombra di Putin […] Il dittatore russo pressa il presidente serbo Aleksandar Vu?i? affinché aumenti la tensione militare con il Kosovo” (LINKIESTA, 29 dicembre 2022)

Così lo Zar sta aprendo un nuovo fronte contro l'Occidente” (Il Messaggero, 2 ottobre 2023)


Un grande classico: Putin soffia sul fuoco dei Balcani per impegnare la NATO su un altro fronte e il governo serbo si presta al gioco. Uno schema che assume come presupposto un’innata vocazione masochista dei serbi - geograficamente isolati dalla Russia, stretti in un territorio senza accesso al mare, circondati da alleati NATO e con la più grande base militare americana all’estero (Bondsteel) proprio in Kosovo. I giornali di casa nostra proprio non vogliono sforzarsi di fornire spiegazioni diverse ai fenomeni geopolitici, pur avendo avuto a disposizione alcuni illuminanti contributi di professionisti del settore: il 29 settembre il Generale Michele Ristuccia (comandante della KFOR dallo scorso ottobre) rilascia un’intervista a Repubblica; il linguaggio è - ovviamente - “alto” (il Generale è pure sempre un militare in servizio) ma il senso complessivo è chiaro: a determinare la presente situazione è stata soprattutto la volontà politica del governo kosovaro che ha adottato una “valutazione non coerente con le nostre aspettative”. Ma Gianluca di Feo proprio non ce la fa a non pensare a Putin e chiede: in che misura la Russia ha influito sulla crisi? Risposta diplomatica, significato chiaro, anche in questo caso. Non soddisfatta, Repubblica decide allora di interpellare una fonte super partes e dalle spiccate sensibilità diplomatiche: la Presidente del Kosovo Vjosa Osmani. Colei che nel bel mezzo della attuale crisi, in un’intervista con la TV britannica Channel 4 News, alla domanda del giornalista “non dovreste formare l’Unione dei Comuni Serbi, avete preso questo impegno dieci anni fa” ha risposto sostanzialmente che non è necessario poiché i serbi “hanno già avuto abbastanza” e poi, alla seconda domanda “ma forse l’UE e gli USA vogliono di più?” ha replicato “non ne sono così sicura”. Dichiarazioni che smentiscono la buona fede di un anno di negoziati e che pongono in grave imbarazzo gli alleati americani ed europei. Sottigliezze, per Repubblica – che titola con un quote di Osmani: “Con le armi russe Vucic pensa all’annessione sul modello Crimea - La Serbia deve sapere che affronterà un popolo pronto a difendere la libertà a ogni costo”; con la scelta di queste parole, Repubblica ha ufficialmente avviato la trasfigurazione Ucraina-Kosovo nella narrativa propagandistica italiana. E con altrettanto dispiacere non si può fare a meno di osservare come vi sia un vero, inquietante parallelismo tra Serbia-Kosovo-Accordi di Bruxelles e Russia-Ucraina-Accordi di Minks: si firma un accordo di pace e per anni si finge di volerlo attuare, senza farlo. Nel frattempo, si esasperano le condizioni di vita nei territori contesi fin quando un intervento non si renda necessario e inevitabile. Per poi gridare all’aggressione.

Pronto? Qui radio Kurti

Kosovo, assalto a un monastero […] Accuse alla Serbia” (Il Corriere della sera, 24 settembre)

L’allarme della Casa Bianca: La Serbia ritiri le truppe ammassate al confine del Kosovo

(Repubblica, 29 settembre)

 

In Kosovo […] con i serbi accusati di volere l’invasione” (Repubblica, 2 ottobre)


Un altro tratto sintomatico della propaganda di guerra riguarda il costume di assumere per corrette le dichiarazioni rese e le notizie lanciate da uno solo dei due contendenti, autorità ucraine così come governo kosovaro. Un’abitudine che si fa beffa di 200 anni di giornalismo moderno, la cui pratica insegna a ricercare la “verità” nel complesso equilibrio di diversi interessi e punti di vista. Cose passate di moda. Del resto, l’appoggio incondizionato a Pristina offre argomenti sicuramente più sensazionalistici. Nell’articolo citato del 24 settembre, il Corriere della Sera riporta fedelmente le parole di Albin Kurti e Vjosa Osmani che parlano di un attacco “contro la sovranità della Repubblica del Kosovo” effettuato da professionisti, finanziati e organizzati da Belgrado e del ritrovamento di un arsenale idoneo ad armare 400 persone. Simili il Messaggero e Repubblica. Ancora, a partire dal 29 settembre, membri apicali del governo americano quali il segretario di Stato americano Anthony Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, alcuni diplomatici europei e pressoché tutti i giornali occidentali hanno rilanciato la notizia, originariamente partita da Pristina, secondo la quale la Serbia avrebbe ammassato uomini e mezzi al confine amministrativo con il Kosovo. Poi, il 2 ottobre, molti media hanno rilanciato un twitter di Kurti secondo il quale l’attacco di Banjska “faceva parte di un più ampio piano per annettere il nord del Kosovo attraverso un’operazione coordinata su 37 posizioni distinte”. La notizia secondo la quale la Serbia avrebbe ammassato uomini e mezzi al confine è stata smentita non solo dal presidente Vu?i?, cosa che potremmo ritenere in una certa misura “convenzionale”, ma anche da alcune fonti americane e, in particolare, da Richard Grenell, ex inviato per i Balcani dell’amministrazione Trump, il quale dal proprio account X ha dichiarato: “Sullivan e Blinken ieri hanno diffuso false informazioni sulle truppe serbe al confine con il Kosovo” e “Non sanno nulla di Balcani", oltre a fornire numerosi dettagli tecnici sul numero delle unità dell’esercito serbo e su quello che può essere considerato il loro “normale” dispiegamento all’interno del proprio territorio nazionale. Le dichiarazioni di Grenell meriterebbero qualche riflessione, se non altro per la loro provenienza, e sono in ogni caso indicative del fatto che la gestione dei Balcani da parte dell’amministrazione Biden sta creando malumori in patria prima ancora di sfociare in un conflitto.

Per quanto riguarda invece le accuse rivolte al governo di Belgrado, di un coinvolgimento diretto (finanziario, logistico, organizzativo) con i rivoltosi che si sono scontrati con la polizia kosovara, credo sia necessario riflettere su due elementi. Il primo riguarda il fatto che da diverso tempo, ormai, il governo serbo sta richiedendo alle controparti occidentali di ordinare il ritiro delle forze di polizia kosovare dal nord del Paese, sostituendole con il personale KFOR; a buonsenso, ciò dovrebbe portare a ritenere che non abbia “interessi sporchi” nell’area. Secondo indiscrezioni di stampa americane, inoltre, la stessa richiesta è stata inoltrata durante gli incontri al margine del vertice ONU di New York da almeno altri due leader politici dei Balcani occidentali, preoccupati delle azioni di destabilizzazione che la polizia di Albin Kurti compie nell’esercizio delle proprie funzioni presso le comunità serbe. Questo elemento è stato ricordato anche nel corso dell’intervista di Repubblica al Generale Ristuccia, il quale ha giustamente sottolineato come la decisione di estendere l’ambito di competenza della missione KFOR sia esclusivamente di natura politica; e quindi, aggiungo personalmente, riguardi la volontà di contribuire in maniera incisiva alla distensione della situazione.

Il secondo elemento da osservare, a mio avviso, riguarda l’analisi degli effetti “tattici” delle scaramucce che si riaccendono di volta in volta, domandandosi “cui prodest”? La risposta è semplice. Lo scoppio di violenti disordini non ha giovato in alcun modo, fino ad oggi, alle ragioni del governo serbo. Al contrario, ha contribuito a creare il clima politico e mediatico per il sostegno internazionale al governo Kurti. Riavvolgendo il filo delle vicende si può infatti notare come sia a maggio, sia la scorsa settimana, i negoziati per l’implementazione della ZSO fossero arrivati ad una fase di stallo e quasi esclusivamente per responsabilità imputabili alla parte kosovara. Ciò è riscontrabile anche nelle numerose dichiarazioni rilasciate in estate da Gabriel Escobar (inviato speciale per i Balcani del governo americano), Peter Stano (portavoce dell’UE) e Miroslav Laj?ák (delegato UE per il dialogo Pristina-Belgrado): tutti concordi nel ritenere Kurti responsabile per il fallimento dei negoziati e nel sollecitare un cambio di approccio. Appare quindi significativo come, nel momento in cui effettivamente Belgrado avrebbe potuto far valere le proprie ragioni per pretendere azioni maggiormente incisive da parte dei governi occidentali, l’improvviso acuirsi di scontri e violenze abbia in qualche modo “azzerato” lo scenario, fornendo al governo kosovaro un ulteriore pretesto per inasprire il confronto e, agli alleati occidentali, una ragione per “ammonire” entrambe le parti e confermare, ancora una volta, il loro sostegno materiale e politico al Kosovo di Kurti. Ma chiaramente, a questo punto siamo nel campo della speculazione. Potremmo sempre dichiarare il cortocircuito e dire “ha stato Putin”!


(*) il blocco all’ingresso delle merci serbe era stato disposto dalle autorità kosovare a metà giugno, come rappresaglia all’arresto, da parte serba, di 3 membri delle forze speciali di polizia del Kosovo penetrate in territorio serbo. I poliziotti sono stati rilasciati, su richiesta della diplomazia americana, il successivo 26 giugno mentre il blocco all’ingresso delle merci serbe non è mai stato revocato.

() la Lista Serba è il partito di riferimento dei serbi di Kosovo.

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